Lo avevo conosciuto a Bologna nel 1972, proprio nei giorni (ma ancora non lo sapevo) in cui nasceva TUTTI. Adelio Ferrero, che allora teneva un corso di cinema al DAMS, lo aveva invitato per un seminario di tre giorni, con proiezioni al S. Martino di via Oberdan. In quei pomeriggi, a un pubblico di studenti e interessati a vario titolo, presentò tre film: “Gli occhi non vogliono chiudersi in ogni tempo”, da “Othon”, dramma seicentesco di Pierre Corneille; “Lezioni di storia” (da “Gli affari del signor Gulio Cesare”, di Bertolt Brecht) e un corto di 15 minuti in cui due lettere di Schönberg a Kandinsky del 1923 e un passo dell’intervento di Brecht a un convegno di intellettuali contro il fascismo (1935) commentavano un brano del musicista scritto per accompagnare la scena di un film. Tutto Straub in due atti e un intermezzo. I primi film italiani firmati “Straub-Huillet”. Come tutti i successivi finché Danièle sarà in vita.
Straub/ Strôb.
Di Jean-Marie Straub, singolare figura di autore classico e sperimentale nello stesso tempo, uno dei grandi registi europei nati al cinema nel secondo dopoguerra, colpisce la sproporzione fra l’enorme quantità di studi e contributi critici che lo riguardano e l’effettiva circolazione di un’opera a cui è “Fuori Orario”, la rubrica notturna di Rai Tre, ad aver dato in Italia il maggior contributo. Già nella pronuncia del cognome – che può essere indifferentemente Straub o Strôb – ci sono la storia della Lorena, la regione francese di cultura tedesca in cui era nato, a Metz, “la domenica dopo l’Epifania” del 1933, e quella di un bambino ebreo nato nell’anno di Hitler, passato dall’obbligo scolastico del francese a quello del tedesco (negli anni di Vichy), di nuovo francese dopo la liberazione, espatriato in Germania nel ’58 per sfuggire all’arruolamento in Algeria. Non era un caso che il nome gli venisse da quello di uno dei primi obiettori di coscienza lorenesi: il parroco di Ars, Jean-Marie Vienney.
Nouvelles vagues.
Maestri francesi (Bresson, soprattutto) e la Nouvelle Vague come famiglia artistica. Francese anche l’amore della vita, Danièle Huillet, conosciuta e sposata a Parigi, ma tedesco l’esordio, al festival di Oberhausen, con un corto tratto da un racconto di Heinrich Böll (“Machorka-Muff“), seguito da due film giustamente famosi: “Non riconciliati” (sempre Böll, dieci anni prima del Nobel) e “Cronaca di Anna Magdalena Bach“, diario coniugale e artistico della seconda moglie di J. S. B. (quella dei 13 figli), desunto dalle lettere del marito. Poi, nel ’69, il trasferimento a Roma: prima a Trastevere, a due passi dalla sua seconda “casa” artistica, il Filmstudio; quindi nella popolarissima ex borgata del Trullo, quanto di più lontano ci fosse dal mondo del cinema e delle avanguardie artistiche. Un post di Roberto Silvestri ricordava un mese fa che in quella casa furono addirittura sequestrati e picchiati; piccola arancia meccanica di periferia che non sollevò clamori. Ma vissero questa scelta in coerenza fino alla fine. Da vedovo, lui, negli ultimi 16 anni. L’annuncio della morte – il 20 novembre a Rolle, sul lago di Ginevra, come due mesi prima Godard – diffuso dalla cineteca di Losanna cita la “vedova” come fonte della notizia. Non è l’unico mistero.
Oltre 40 i titoli, dagli 8 minuti di “Pour Renato” ai 132 di “La morte di Empedocle”, tutti da una base letteraria, musicale o pittorica, trattata con assoluto rispetto nella lingua sua propria: per “Othon” quella dei versi di Pierre Corneille (e tutto il cast, prevalentemente italiano, parla francese); per “Lezioni di storia” o “Rapporti di classe” (da “America”), quella di Brecht e di Kafka. Franco Fortini legge brani del suo “I cani del Sinai” in “Fortini/cani” e parleranno la nostra lingua i film da Pavese o da Vittorini, ma ci vorrà del tempo perché marito e moglie di fidino del loro italiano. Mai avrebbero potuto trarre un film da un testo inglese, spagnolo o russo. Le tre lingue di cui di sentivano padroni si alterneranno per cinquant’anni: il francese per Mallarmé, Duras e per parlare di Cézanne; il tedesco per Hölderlin e Schönberg, l’italiano per gli autori citati. E, chiaramente, per Dante (“O somma luce” – pochi minuti – dal “Paradiso“). Va da sé che il tedesco di Laura Betti in “Rapporti di classe” può non essere il massimo (chi di noi si sente di giudicarlo?) ma poco importa: è per lei che il cuore, nella complessa partitura, ha un piccolo tuffo che lascia una tacca.
Filmare il vento.
Un cinema saggistico, di tono alto come quello degli Straub, non cerca la poesia. Eppure la trova nella cura delle inquadrature, nella purezza dello sguardo, nella fatica degli attori, che leggono o recitano in presa diretta, seguendo rigorose partiture vocali. In quei paesaggi naturali e urbani in cui ogni dettaglio accolto nell’inquadratura è importante: le auto passano mentre parlano Galba o Camilla, vestiti da peplum, a Villa Pamphili o sulla terrazza palatina; le acque scorrono, gli uccelli bevono, il vento muove foglie, capelli, abiti e interferisce con il lavoro degli attori e dei tecnici. E’ un cinema scabro e ricco nello stesso tempo, che a tratti tenderà a radicalizzarsi in un’alterità quasi orgogliosa del proprio isolamento: più rari e densi i movimenti di macchina, più distanti le parole degli attori, a ricordarci quelle di Raymond Queneau: “la storia è il racconto dell’infelicità degli uomini”. Filmare il vento e la fatica dell’emozione sarà la sua scommessa. Tutto il resto si era già visto a teatro, prima dei Lumière.
Nato fra le montagne, Straub continuerà a cercarne l’aria e la natura. Con la morte di Danièle, scompariranno gli attori, mandati fuori campo. La macchina di Renato Berta, il grande operatore ticinese amico e collaboratore di una vita, inquadrerà, in film di pochi minuti, boschi e colline, sorgenti e rogge, creature dell’aria, del cielo e della terra. Ma potrà bastare una sdraio in un balcone aperto, le parole casuali di qualcuno che parla all’interno della veranda e la luce del paesaggio. Fuori campo, parole importanti riproporranno il racconto della storia e la sua “cieca ricerca delle cause” (Queneau) mentre un uccello beve da una fontana. L’animale prima quadrupede poi bipede dell’indovinello della Sfinge ha ormai nel bastone, all’uscita dagli ottanta, il terzo piede. Si muove meno. Le parole che Pasolini mise in bocca a Totò in “Che cosa sono le nuvole?” (“Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato!”), sapendo che sarebbero state le sue ultime di cui il cinema avrebbe serbato memoria, le parole della marionetta ormai quasi cieca che guarda un cielo in cui le nuvole che scorrono sono cirri e stracci, non più animali fantastici e quotidiani, diventano le sue. “O somma luce che tanto ti levi / da’ concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi“. Nella luce dei boschi, e più in alto, la sua Beatrice.
“Dove giace, sepolto, il tuo sorriso?”
“Intransigente”? L’hanno detto tutti. “Antispettacolare”? Certo. “Contestatore“? Vabbè. Non altrettanto si è detto delle molte facce, felicemente contraddittorie, di un ebreo marxista e antisionista che molto si è speso culturalmente per la sua gente (e per sé in essa) nei suoi film, coltivando tuttavia ascendenze, suggestioni e sensibilità tipicamente cristiane. Da Bresson a Dreyer agli oratorî bachiani, a partire dal prete di cui portava il nome, molti dei riferimenti decisivi della sua formazione sembrano appartenere a quel cristianesimo spesso sommariamente, e un po’ polemicamente, definito “giansenista“. Dove Janssen-Giansenio sarebbe una sorta di anello mancante fra cattolicesimo e protestantesimo. Fonderà in leggerezza le sue radici in un piccolo film prezioso, perfettamente straubiano: “Dall’oggi al domani”. Da un’operina di Schönberg, una sorridente ode alla fedeltà coniugale e all’anticonsumismo in amore.
Trovo, nelle pagine di un vecchio Moleskine, un breve appunto di lettura di vent’anni fa, quando lessi “Il giovane Holden”:
- “Sentito Straub dire ‘mi viene da vomitare’ vedendo gli attori professionisti che cercano di essere ‘naturali’. Anche a Holden viene da vomitare spesso, non solo quando è ubriaco. Anche davanti agli attori e ai loro spettatori, che ricordano la fila al cinema di ‘Io e Annie’.” … … “Il punto di vista dei Simpson” di cui parla Tommaso Labranca in ‘Chaltron Hescon’, è, in genere, il punto di vista di Holden, che da cinquant’anni esercita nel mondo dei fumetti con i nomi di Lucy Van Pelt e di Bart Simpson. Donando la loro brufolosa e insofferente grazia al magistero di qualche vecchio Holden come Allen e Straub“.
Mi ricorda lo Straub dai giudizi trancianti, in quei dibattiti che seguivano la presentazione dei loro film. E quei toni taglienti, non sempre condivisibili, sempre un po’ apodittici, a volte francamente fuori misura e persino inaccettabili (è successo), ma irrinunciabili.
Il mezzo sigaro tormentato e sempre spento, la calma dolce e guerriera di Danièle e ai piedi il cagnolino, impassibile ed educatissimo, che portavano dappertutto, anche al cinema. Ci incontrammo una volta, un sacco di anni fa, all’Officina, vecchio cineclub di via Benaco. La famiglia intera in prima fila a vedere il Robinson Crusoe di Buñuel.