Debbo iniziare con una dichiarazione di umiltà: ignoravo l’esistenza del secondo romanzo di Lewis Carrol, mi ero fermato ad Alice nel paese delle meraviglie; ho cercato di informarmi sommariamente, traendone la conclusione che il significato ultimo del libro è che è bene credere nell’impossibile.
L’occasione mi è stata fornita dall’uscita del libro di Piero Bassetti: “OLTRE LO SPECCHIO DI ALICE – Governare l’innovazione nel cambiamento d’epoca – Guerini e Associati editore 2020”.
Libro che invece ho letto con attenzione, trovandolo interessante ma non semplice, una sorta di matrioska letteraria, dove i continui richiami ad autori in gran parte contemporanei, stimolano se non costringono a prendere almeno conoscenza di quanto prodotto da quegli autori, ed esigono da parte del lettore una disponibilità di approccio multidisciplinare ad ogni tematica affrontata, segnalando pure come in un mondo complesso come quello d’oggi, non sia più consentito ad un essere umano consapevole, delegare totalmente agli specialisti la conoscenza di argomenti quali la fisica quantistica, tanto per fare un esempio.
A volte, nella lettura di “Oltre lo specchio di Alice”, il lettore rischia di perdersi o di inseguire un tema invece secondario, ma ci pensa l’Autore a rimettere al centro dell’attenzione il tema principe: l’innovazione ed il suo governo. Un libro che non viene a caso, ma è strettamente legato ad altri due volumi recenti: “SVEGLIAMOCI ITALICI: Manifesto per un futuro glocal – Marsilio Editore 2015” e “GUARDARE OLTRE – Innovazione e politica nell’esperienza di Piero Bassetti – di Francesco Samorè – Carrocci Editore 2018” ed alla vicenda umana e politica di Piero Bassetti, nato nel 1928 e con tante storie vissute nelle Istituzioni di ogni livello, ancora in pieno svolgimento e sempre con lo sguardo al futuro e due obiettivi fissi: il mondo e la sua Milano, città alla quale dedica un significativo capitolo nella parte finale del volume. Indubbiamente l’innovazione è un tema centrale per chi vuol capire il presente e soprattutto cercare di vedere in anticipo il futuro dell’umanità, tuttavia non è stata finora enunciata in maniera convincente una teoria sul come possa essere gestita ed indirizzata l’innovazione, tanto da rendermi persuaso che la sua gestione è collettiva e casuale, quindi non governabile.
Tra le tante invenzioni che nei secoli hanno modificato radicalmente la vita del genere umano, tanto da apparire come innovazione perenne ed irrinunciabile, l’esempio che più mi è familiare è l’invenzione della stampa. Non credo che Gutenberg fosse consapevole della rilevanza generale e perenne di ciò che lui stava inventando nel 1456, e neppure Aldo Manuzio poteva immaginare il futuro della stampa, mentre nel 1501 inventava il libro ed soprattutto il libro tascabile, creando di fatto il mercato librario, e mentre inventava, per movimentare lo stampato, vari tipi di carattere (per la verità inventati qualche anno prima da un altro italiano che non riuscì a conservarne la proprietà, ad ulteriore conferma di quanti fattori possano influenzare la casualità ed il percorso di una invenzione), fornendo quindi con la replicabilità in centinaia o miglia di copie di un’opera, il modo con cui la stampa diventava fruibile dalla generalità degli alfabetizzati anziché da pochi fortunati, trasformandosi per così dire in strumento democratico.
Non starò qui a citare i tanti studiosi che si sono dedicati all’argomento, limitandomi a ricordare la splendida definizione che dell’invenzione della stampa ha dato Elizabeth Eisenstein in un suo scritto del 1979: una rivoluzione inavvertita; sufficientemente evocativa è pure l’individuazione fatta da Lord Acton degli effetti collaterali di tale invenzione, quale l’accesso di maggior pubblico, insieme agli effetti verticali o cumulativi: ogni generazione ha la possibilità di costruire qualcosa di nuovo sul lavoro intellettuale delle generazioni precedenti. Un processo continuo quindi, dove qualche intervento, aggiungo io, si segnala per qualità ed originalità, tanto da ricordarci che non si tratta di processo scontato ed automatico.
E proprio Aldo Manuzio ci offre la prova di ciò, aggiungendo a quella del libro l’invenzione dell’italic font, il carattere corsivo che ingentilisce la stampa e con l’abbandono del carattere gotico avvicina alla lettura il grande pubblico, denominato italic quale istintivo richiamo alla grazia, alla bellezza ed alla originalità.
Dunque, chi inventa non ha la consapevolezza piena delle conseguenze che ne scaturiranno, né può esercitare il controllo delle applicazioni della sua invenzione, a parte la rendita temporanea dell’eventuale brevetto registrato, poiché l’innovazione, cioè l’insieme di tutte le invenzioni e di tutte le applicazioni delle stesse, modificato costantemente e spesso casualmente ed anonimamente, non è governabile poiché sempre in moto, al punto che sapersi adattare ai cambiamenti è la nuova forma di convivenza civile, indubbiamente scontando la perdita di apprezzamento valoriale degli stessi. L’unico rimedio che mi appare essere possibile a questa traiettoria, è lo stimolo costante alla partecipazione conoscitiva del processo globale di innovazione, affinché ne nascano, per quanto possibile, modi e strumenti di controllo e governo, almeno delle applicazioni visibili, con tutti mezzi di partecipazione sociale possibili, a partire dalla forma contemporanea di evoluzione della invenzione della stampa, che è la rete web.
Fino a pochissimi anni fa il termine “italico” si usava appunto, solo per indicare il carattere corsivo inventato da Manuzio, ed “italici” erano i popoli che popolavano la penisola fino alla loro assimilazione nell’Impero Romano. A conclusione delle c.d. Guerre Sociali che la “Lega Italica” e gli Etruschi avevano combattuto contro Roma, tutti erano diventati cittadini romani, grazie al valore determinante per l’ottenimento della cittadinanza, dato al comune sentire di valori più che allo jus sanguinis o allo jus soli. Roma compiva così una prima grandiosa ed innovativa operazione culturale, dando a tutti regole, diritti e doveri comuni, ed adottando per converso ciò che di meglio appariva introitabile dagli usi e costumi dei popoli italici preesistenti. Certo, come in tutte le svolte epocali, con conseguenze sociali positive ampiamente esaltate e qualche perdita sottaciuta: ad esempio dagli Etruschi i Romani seppero assorbire tante abilità e scienze, dalla lavorazione del ferro alla scienza delle costruzioni ed all’idraulica, ma si guardarono bene dall’adottare il principio della parità di genere che vigeva per la donna etrusca, come pure il sistema dell’autonomia piena delle singole città, in un regime confederale ante litteram. Si realizzò comunque una koiné culturale e poi religiosa, tra i diversi popoli della Penisola, con il collante giuridico e militare romano, capace di durare quasi due millenni contrassegnati da invasioni, dominazioni straniere e guerre dinastiche locali, fino alla “unità indotta” del 1860/70. Non è quindi difficile, per chi legge la precedente opera di Piero Bassetti: “Svegliamoci Italici” riconoscersi italico. Forse mi illudo, ma vedo un percorso che, partendo dalle Comunità immaginate descritte da Anderson, conduca almeno per quel che ci riguarda, ad una comunità inverata degli Italici, grazie al recepimento delle attese nascenti dalla svolta epocale prodotta dalla Pandemia Covid 2020/2021; un nuovo Rinascimento con le radici ben salde nel percorso bimillenario della cultura italica, rappresentato da ciò che di positivo evoca l’Italia d’oggi nell’immaginario collettivo: soft power, eleganza, creatività, empatia, arte, qualità, natura, lingua, testimoniato nel mondo dall’incontro e contaminazione con le culture locali, vissuto in una nuova prospettiva istituzionale che trova nell’Unione Europea la più efficace e credibile forma di trascendimento delle autonomie nazionali, a favore di un sistema di governo e partecipazione democratica che abolisce i confini interni, ma pone a fondamento della costruzione comune i princìpi guida che accomunano le diverse culture presenti in Europa, culture che restano intatte pur con assetti istituzionali modificati, e che si arricchiscono reciprocamente.
Dovrebbe apparire evidente a tutti quanto sia conveniente, oltre che giusto, partecipare a questo disegno innovatore europeo, con la forza di una civiltà italica espressa in tutto il suo potenziale e testimoniata dai milioni di italici sparsi in Europa, individualmente come studiosi, docenti, imprenditori, artisti e tecnici, o come protagonisti delle attività di Istituti di cultura, Centri di ricerca, Camere di Commercio, anziché totalmente delegata alle rappresentanze istituzionali dello Stato italiano o alla burocrazia. Potrebbe sembrare un disegno ambizioso e visionario, quello di una COMMUNITY ITALICA che vive nel mondo, tenuta insieme da un comune disegno e da un patrimonio culturale condiviso, grazie al nuovo tessuto connettivo sociale che è il web, ma in realtà se ci guardiamo intorno, possiamo scoprire luoghi ed esperienze che già operano in sintonia con questo Progetto.
Ma torniamo al libro di Piero Bassetti, denso di riferimenti filosofici utilizzati per lo più non in chiave di ricostruzione storica dell’evoluzione del pensiero, ma in funzione di ricerca di spunti utili ad individuare un percorso futuro dell’umanità: “Sempre valida l’affermazione di Russel, secondo il quale il potere altro non è che la produzione degli effetti voluti” (pag.89), ed io chioserei qui che a Bassetti interessa soprattutto la predizione degli effetti dell’innovazione, ed infatti proprio nella stessa pagina, trovo esplicitato il fine che a mio parere lo ha spinto a scrivere il libro: “In queste righe non rinuncio a cercare i presupposti di questa nuova natura del governo, di queste nuove redini del potere, di queste nuove istituzioni e comunità immaginate. Il libro vorrei aiutasse ciascuno a rivedere le categorie imparate al liceo, che sono in gran parte cambiate”.
Condivido il fine, ma se fossi richiesto di dare un consiglio su come raggiungerlo, direi che quelle categorie occorre ripercorrerle tutte insieme, per immergerle nel mondo nuovo e cercare di predire il futuro, poiché per poter sperare di governare, o almeno di indirizzare positivamente le scelte che caratterizzeranno il futuro, è assolutamente necessario tener conto del passato. E pure leggendo la pag. 40, dove parla degli strumenti che cambiano il potere, costringendoci a ripensare la geografia che diventa connettografia o scienza del dove, mi è venuto di pensare che in verità noi veniamo costretti a ripensare tutte le scienze sociali, aggiungendone di nuove, ma senza annullare o dimenticare le preesistenti, e proprio sulla necessità di non abbandonare la geografia penso di avere valide motivazioni, ma non è questa la sede per approfondire l’argomento.
Una frase di Bassetti che trovo proprio in fondo al libro: “La ricerca di senso può unirci”, mi ha portato ad un ragionamento bizzarro e forse anche folle, ma voglio esprimerlo ugualmente. È noto che nel corso dei millenni, l’uomo ha perso molte facoltà sensoriali di cui era dotato e che ancora sono intatte negli animali anche domestici; sappiamo ad esempio che gli Etruschi collocavano i loro “santuari” in luoghi dove era particolarmente forte il magnetismo, e certo non disponevano di strumenti per rilevarlo, ed ancora oggi capita di far cercare vene sotterranee di acqua da un rabdomante.
Mi chiedo: come mai, prima di abbracciare la ricerca per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, nessuno ha pensato ad avviare una ricerca per recuperare i sensi perduti dell’uomo? Sarebbe un semplice ritorno alla natura, ma certamente sarebbe utile in tante circostanze.
Sono arrivato alla fine del libro e traggo una conclusione finale: il miglior modo per rendere omaggio al suo Autore, è guardare sempre Oltre, ma senza mai perdere la memoria del passato e coltivando la necessità di condividere con altri il percorso.