In memoriam Benedicti XVI
Il legame tra fede e ragione è una vitale costante dell’insegnamento della Chiesa, che su questa stretta relazione si muove, in perfetta continuità, da Agostino d’Ippona a Benedetto XVI.
La tradizione della Chiesa a confronto con la modernità
Agostino affronta il rapporto tra fede e ragione nei Soliloquia, dove ne mette in evidenza la complementarietà con la doppia formula crede ut intelligas (credi per capire) e intellige ut credas (capisci per credere), rifiutando quindi il fideismo (la fede senza ragione) e il razionalismo (la ragione senza fede).
In tutto il Medioevo, che vede il predominio del pensiero cristiano, l’armonia tra fede e ragione viene riaffermata – specialmente con Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino – e i due concetti non entrano quindi in contraddizione: se la fede rivela la verità, la ragione conduce alla verità.
Con l’età moderna nella speculazione filosofica la ragione tende progressivamente a sottrarsi, fino a separarsi, dalla fede in Dio, mettendo l’uomo al centro, abbracciando razionalismo e illuminismo, da ultimo relativismo e nichilismo, decretando addirittura – con Nietzsche – la morte di Dio. Lo stesso Nietzsche che paradossalmente esclama: «Attenersi alla ragione sarebbe bello, se ve ne fosse una!». Interessante parabola della supremazia della ragione!
Non così per il pensiero cristiano che, con l’unica parziale eccezione di Pascal – per il quale l’uomo non può sposare la fede con la sola ragione ma occorre anche che la sua ragione aderisca alla fede -, ancora nell’Ottocento con Rosmini e nel Novecento con Guardini riafferma il vincolo tra fede e ragione.
Nella storia il processo di secolarizzazione – almeno nell’Occidente europeo – è però avanzato senza interruzione e quindi, come ha affermato Solženicyn ad Harvard nel 1978, se il Medioevo ha significato «l’annullamento dispotico della natura fisica dell’uomo a vantaggio della sua natura spirituale», nell’età moderna «il nostro balzo dallo Spirito alla Materia è stato sproporzionato e senza misura», fino a negare la natura spirituale dell’uomo.
Il pensiero di Joseph Ratzinger e il dialogo con Habermas
Non è possibile parlare di Benedetto XVI senza riferimento alla figura in certo modo speculare di Giovanni Paolo II, che al rapporto tra fede e ragione aveva destinato due importanti scritti, la lettera apostolica Augustinum Hipponensem, pubblicata il 28 agosto 1986 in occasione del XVI centenario della conversione del vescovo d’Ippona, e l’enciclica Fides et Ratio, del 14 settembre 1998.
«Senza la fede – scriveva Joseph Ratzinger all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle in Fede, verità, tolleranza – la filosofia non può essere intera, ma la fede senza la ragione non può essere umana».
Nel 2004, in un colloquio con Jürgen Habermas alla Katholische Akademie di Monaco (Ragione e fede in dialogo, Venezia, Marsilio Editori, 2005), sorprendente e positivo confronto su religione e laicità con il fine di comprendere il punto d’incontro tra l’una e l’altra, Ratzinger fa un riferimento inquieto da una parte a quell’idea di religione che può ispirare anche il terrorismo e dall’altra, se l’uomo oggi è arrivato addirittura a creare sé stesso e a produrre apocalittiche armi di distruzione – in una modalità che confonde i mezzi con i fini -, all’affidabilità della ragione.
Nel 2003 Habermas, in una sorta di appello firmato assieme a Jacques Derrida, L’Europa alla ricerca dell’identità perduta («La Repubblica», 4 giugno), aveva del resto scritto, riallacciandosi a una prospettiva storica: «Una cultura che da molti secoli, attraverso conflitti tra città e campagna, o tra poteri religiosi e poteri secolari, attraverso la concorrenza tra fede e sapere, la lotta tra i detentori del dominio politico e le classi antagoniste è stata lacerata più di tutte le altre culture, non ha potuto fare a meno di apprendere nel dolore come le differenze possano comunicare, i contrasti possano essere istituzionalizzati e le tensioni possano essere stabilizzate. Anche il riconoscimento delle differenze – il reciproco riconoscimento dell’altro nella sua alterità – può diventare il contrassegno di un’identità comune».
E di nuovo Habermas, nella sua raccolta Tempo di passaggi, del 2004: «Sembra quasi scomparsa la possibilità di un discorso serio. Se sfoglio, per esempio, le pagine della Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino, io resto incantato dal livello di complessità e differenziazione, serietà e coerenza, con cui è stata costruita dialogicamente l’argomentazione». E ancora: «Per l’autocomprensione normativa della modernità il cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L’universalismo egualitario – da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, autonoma condotta di vita ed emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia – è una diretta eredità dell’etica ebraica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne».
Il magistero di Benedetto XVI in difesa della «ragione aperta»
Una volta pontefice, Benedetto XVI, nel delineare la sua visione della missione della Chiesa nel mondo attuale, ha sottolineato in più discorsi successivi la fondamentale complementarietà tra fede e ragione.
Nella lectio magistralis, tenuta all’Università di Ratisbona nel 2006, sull’essenzialità dell’incontro tra la fede cristiana e il pensiero greco, sul rapporto tra fede e violenza, sulla relazione tra scienza e fede e tra culture e religioni, conclude così, nel solco della tradizione della Chiesa che sostiene da sempre il valore della ragione, in coerenza con una visione di Dio che è amore, ma assieme logos (parola che allo stesso tempo significa «ragione» e «relazione»): «Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio”, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture …». Dello stesso anno è la prima enciclica sull’amore di Dio (Deus caritas est), visto come cura per l’uomo contemporaneo, accecato dall’odio e dalla violenza alimentati anche dal fanatismo religioso.
E ancora, nel 2011, davanti al Reichstag tedesco, in difesa della «ragione aperta» critica la pretesa della ragione positivista, che presentandosi in modo esclusivo e non essendo «in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli …».
Papa Benedetto XVI, che aveva scelto per sé il nome del fondatore spirituale dell’Europa, nel 2008 al Collège des Bernardins di Parigi in occasione del 150° anniversario delle apparizioni di Lourdes, così indirizzava ai presenti il suo pensiero sull’Europa, ricordando l’apporto della fede cristiana: «In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura». Eppure non vi era alcun disegno, alcuna premeditazione, «non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio».
Immagine di apertura: Cristo Pantocratore tra la Vergine Maria e S. Giovanni Battista, Santa Sofia, Istanbul, foto di Salih Altuntaş, Pixabay