Esistono parole fortunate, che, senza avere alcun merito si guadagnano spazi e attenzioni smisurate, e parole che, invece, senza alcun demerito, rimangono esposte alla riprovazione di un popolo per ragioni occulte o per sofisticate strategie calunniose.
Se vogliamo fare qualche esempio tra le prime metterei una new entry nel catalogo dell’ipnotismo lessicale alla moda: resilienza, il cui abuso andrebbe punito con leggi adeguate. O almeno con un DPCM. Tra le seconde metterei sicuramente il lemma lobby. La paroletta ha un’origine tardo-latina (da laubia, loggia, tribuna) ed una appropriazione da parte della lingua inglese che ce la restituisce per indicare il corridoio antistante le aule parlamentari, quello riservato al pubblico.
Solo in quel corridoio, vicino ma estraneo al luogo dove vengono prese le più importanti decisioni politiche, possono sostare persone che, pur non appartenendo al rango dei legislatori, sono in grado di esercitare, soprattutto nella cultura americana, influenza nei confronti dei decisori istituzionali. Le lobbies, dunque, sono gruppi di pressione che interagiscono con la politica per promuovere interessi specifici legati a professioni, attività d’impresa, associazioni, sindacati ecc. In America, dove vige da sempre un sistema di forte disintermediazione nel rapporto tra cittadino e decisore pubblico (praticamente non esistono i partiti come mediatori tra Parlamento e corpo elettorale) le lobbies hanno addirittura un riconoscimento costituzionale nel primo emendamento e rappresentano un elemento strutturale del sistema politico.
In Europa, soprattutto nei paesi come l’Italia, la Francia e la Germania, cosiddetti di civil law, per lungo tempo la parola è stata accolta con diffidenza, con la preoccupazione che i parlamentari potessero soggiacere agli interessi particolari dei lobbisti tradendo il mandato popolare. Se questo accadeva in Europa, in Italia addirittura le lobby sono state colpite da una fatwa. Non che anche la migliore dottrina giuridica non ci abbia messo di suo: il grande costituzionalista Esposito sosteneva negli anni Sessanta che i gruppi di pressione rappresentavano un fenomeno da ostacolare e non inquadrare nello Stato perché esprimevano interessi egoistici, parziali e andava assolutamente evitata la possibilità che fossero interpretati come portatori degli interessi di tutti. Ruolo, quest’ultimo, che andava riservato solo ai partiti.
Le culture politiche democristiana e comunista, all’epoca prevalenti, concorsero insieme a circonfondere di un’aura quasi demoniaca la paroletta, associandola, con l’alacre concorso dei media, all’idea di congreghe del male, di ambigui manovratori di danari, di influencer illegittimi nascosti nell’ombra a distribuire mazzette – o “altre equivalenti utilità”- agli esecutori delle comande di quella specie di Spectre che si nascondeva altrove e mandava i suoi esecutori nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama.
Poi in Europa qualcosa cominciò a sciogliersi e, partendo dal Parlamento di Strasburgo, si cominciò in Germania, Francia, Inghilterra a riconoscere e a regolare per legge il lobbismo. Che cosa era successo? Semplicemente questo: i partiti declinavano, perdevano l’esclusività del rapporto con il corpo elettorale e i gruppi di pressione venivano riconosciuti come portatori di interessi legittimi delle società europee, istanze che non potevano essere trascurate. Avvenne, tra gli anni ’90 e il primo decennio del 2000, qualcosa d’importante: uscirono dall’ambigua penombra i rapporti tra parlamentari e portatori d’interesse, scoprendo che quel rapporto poteva essere benefico per l’attività legislativa e di governo, purché tutto fosse alla luce del sole.
L’Italia ha fatto molta fatica ad affrancarsi del peso di tanti anni di cattiva reputazione della parola e, guarda caso, l’ha potuto fare solo quando i partiti politici sono implosi, perdendo la capacità di svolgere un ruolo totalizzante nella società. Risale solo al 2016 la prima applicazione – attraverso un protocollo sperimentale – di un regolamento delle lobbies per la Camera dei Deputati. A tutt’oggi centinaia di lobbisti, intermediatori di interessi legittimi, risultano iscritti nel registro che ogni cittadino può consultare sul sito ufficiale della Camera e sono tenuti a redigere un rapporto annuale dell’attività svolta e degli incontri fatti a Montecitorio. Insomma: un pochino di luce.
L’innovazione della Camera, però, non è stata troppo imitata, per la verità, da altre istituzioni anche se in verità, non va ignorato un tentativo di normare in via generale la materia con una legge, fatto dalla Camera dei deputati esattamente un anno fa, tentativo che giunse fino all’approvazione in prima lettura. Poi la legislatura è caduta e adesso si dovrà riprendere da zero. La storia della legge italiana sulle lobby somiglia un po’ a quella dell’avanzamento delle istituzioni europee: è tutto uno stop and go. Già nella legislatura 2001-2006 si pervenne all’approvazione quasi unanime di una proposta di legge in commissione Affari Costituzionali. Poi, anche quella volta, la Legislatura finì prima ancora che l’aula e il Senato potessero procedere alla ratifica di un’intesa abbastanza pacifica tra i gruppi politici. Già, perché, come ha dimostrato largamente l’episodio del cosiddetto Qatargate, che ha messo a dura prova la reputazione del Parlamento Europeo e dei suoi inquilini, il paradosso del dibattito sulla regolazione del lobbismo sta nel fatto che i gruppi d’interesse che svolgono la loro attività in modo trasparente, fatti da professionisti della materia, non hanno nulla a che vedere con le degenerazioni corruttive. Siamo chiari: gli affari sporchi non si fanno sotto i riflettori del parlamento, ma in qualche camera d’albergo o in un sottoscala dove non “prendono i telefonini” e non possono essere visti i contraenti del losco affare. Ma quella è un’altra cosa: sono fattispecie che interessano il penalista e non il diritto pubblico.
Il ruolo del professionista del lobbying corretto e trasparente è quello di fornire al decisore pubblico un’informazione completa affinché questi possa assumere consapevolmente la sua decisione. In questo senso, il ruolo dei lobbisti diventa prezioso nel processo democratico (soprattutto da quando i partiti sono ormai liquefatti e non svolgono più quel raccordo tra popolo e rappresentanza). Purché, ovviamente, tale attività si svolga alla luce del sole, seguendo le norme di legge, senza che esista scambio o guadagno in favore del decisore. In un quadro di correttezza il lobbying diventa un’interazione necessaria nella governance globale.
Oggi, piuttosto, sarebbe utile domandarsi come i decisori politici riusciranno a contenere l’impatto con i poteri più forti delle multinazionali digitali, che entrano nella partita della democrazia a gamba tesa. Perché è indubbio: c’è un problema di dimensioni e di pervasività quando l’interesse di cui è portatore la lobby incide sul processo stesso della democrazia. I cosiddetti over the top, i padroni del web, sicuramente interpretano, per la loro attitudine a interferire con i processi decisionali del cittadino (l’informazione digitale -fake news comprese- è nelle loro mani, così come il nostro diritto alla privacy, ormai volatilizzato col nostro stesso passivo consenso) il pericolo più grande che si abbatte sulle democrazie occidentali e che non può essere affrontato dai singoli ordinamenti degli Stati sovrani, ma da tutti insieme, a cominciare da Europa e America. Si tratterà, dunque, di mettere in campo un supplemento di attenzione e di tutela per le istituzioni democratiche particolarmente fragili di fronte alla subdola pervasività dei nuovi media.
La XIX legislatura è appena iniziata e, nel ventaglio di riforme che dovrà mettere in campo per offrire un supporto istituzionale alla provvista di risorse che l’Europa ci ha riconosciuto, male non farebbe metterci dentro una legge bypartizan sulla regolazione delle lobby. Sdoganando la paroletta dal retrogusto sulfureo che ultimamente è stato riesumato per gli sgradevoli fatti causati da qualche parlamentare europeo.
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