“La giustizia è una e indivisibile. Non si può decidere a chi garantire i diritti civili e a chi no! (Angela Davis)”.
Dopo il suicidio in carcere di Donatella Hodo, una giovane madre di soli 27 anni, Micaela, Monica e Maurizio decidono di far volare libera la sua anima oltre quella angusta cella e di dare voce al suo disperato grido di dolore. Nasce così, qualche mese dopo, l’associazione “Sbarre di Zucchero” il cui nome vuole far intendere come sia necessario tutelare il lato gentile e dolce delle donne indipendentemente dal luogo e dalla circostanza e quindi anche nel momento della carcerazione.
Nel giro di pochi mesi Sbarre di Zucchero ha raccolto un enorme consenso dovuto probabilmente al fatto che essa persegue fra i suoi principali obiettivi quello di creare un ponte fra carcerati e cittadinanza.
Questo aspetto risulta essere di grande rilievo, da un lato, per far comprendere a chi non vive il carcere l’importanza del reinserimento sociale e, dall’altra, per far sentire le persone recluse non come dei reietti ma come una importante risorsa per la società: “Nella notte mi condussero con un’autovettura fino al carcere di Lecce. Arrivai che erano le quattro della mattina ed era ancora buio. Vedere spalancarsi il portone del carcere dinanzi a sé è l’esperienza più agghiacciante che si possa provare. Hai la precisa impressione, in quel momento, di essere ingoiato dall’oscurità dell’Orco. E quell’impressione di essere morto ti viene confermata nel primo approccio con la polizia penitenziaria quando, portato in una camera del tutto spoglia di qualsiasi cosa tranne che di un bagno alla turca, ti fanno spogliare completamente di ogni indumento, privato di ogni suppellettile, dell’orologio e anche della catenina col crocifisso. Tutto viene perquisito con meticolosa attenzione. Ti consegnano un sacco per l’immondizia dove dovrai riporre i pochi indumenti che ti è consentito tenere in carcere. Quel sacco per l’immondizia che ti viene consegnato è l’icona di quello che sei diventato improvvisamente per la società: un rifiuto. Non sei più nessuno, sei solo uno scarto umano. Hai la percezione nitida di non avere alcuna speranza, che ti è stata chiusa una porta in faccia per sempre. Viene impresso sulla tua carne un marchio dal quale non ti libererai mai più” (dalla lettera di Michele Nardi a Sbarre di Zucchero).
Il contatto con il mondo esterno può rappresentare una luce per chi sta vivendo un momento drammatico come quello della carcerazione: “In quella cella al piano terra (…) il freddo era insopportabile. Con quelle poche cose che mi era stato concesso di portare in cella cercai di coprirmi il più possibile, ma non serviva a nulla. Il freddo mi era entrato dentro, nel cervello, nell’anima. (…) Poi altre carceri, trasferimenti effettuati in gabbia di ferro in cui a stento riuscivo ad entrare. Compagni di sventura di cui ricordo gli sguardi, i tremori. Il puzzo delle celle, la disperazione di chi ha cercato di uccidersi, la mancanza di tutto ed in primo luogo della dignità umana. (…) Dopo 30 mesi di custodia, la mia salute mentale e fisica è stata minata gravemente. Ancora oggi, se chiudo gli occhi, mi ritrovo in quella cella ed ogni mattina mi sveglio alle prime luci dell’alba con l’angoscia che vengano di nuovo a prendermi. Ormai il carcere lo porto con me ogni istante della mia vita.” (dalla lettera di Michele Nardi a Sbarre di Zucchero) e può essere una risposta a richieste di aiuto che, molto spesso, restano inascoltate: “Desiderai di morire, lo desiderai con tutto me stesso” (dalla lettera di Michele Nardi a Sbarre di Zucchero). Sapere di essere ancora parte del mondo fuori dalla cella, non sentirsi esclusi può essere di enorme supporto e può rappresentare quel “cordone” che fa sì che ci si senta sempre e ancora legati alla vita.
Poiché Sbarre di Zucchero nasce con un focus specifico sul mondo delle donne vi è ovviamente un’attenzione particolare per le loro esigenze e per il loro ruolo attivo nella società. Il carcere è concepito per la componente maschile e le donne vivono quindi un doppio disagio quello dato dalla reclusione e quello generato dall’inadeguatezza. Poi, se come nel caso di Donatella, la donna è anche madre le problematiche si fanno ancora più complesse. È a queste tematiche che Sbarre di Zucchero volge lo sguardo senza intenzione di sostituirsi o sovrapporsi ad altre organizzazioni ma con lo scopo di collaborare con giuristi, psicologi e specialisti del sistema carcerario che operano già attivamente in questo settore. Vi è necessità di creare un ponte fra dentro e fuori che faccia comprendere come dopo il carcere un nuovo inizio sia giusto e possibile e come il carcere non dovrebbe essere una istituzione inutile, dannosa, criminogena, primitiva, inumana (dalla lettera di Michele Nardi a Sbarre di Zucchero).