L’amico Claudio Leone insiste da tempo perché io ritorni a scrivere sul sito “Tutti Europa ventitrenta”. E lo fa in particolare per il numero di febbraio 2023, in occasione del primo anniversario dell’aggressione russa all’Ucraina.
Fu a causa di quello sfrontato atto di guerra che lasciai, non ritrovando negli articoli pubblicati sul sito (non in tutti, ovviamente, ma in una percentuale non trascurabile di essi) quella condanna senza attenuanti, che mi sarei aspettato. Invocai una linea editoriale coerente con l’impostazione europeista e progressista del gruppo che avevo contribuito a ricostruire. Proposi di aggiungere, in calce agli articoli che ritenevo problematici, una postilla che avevo letto spesso altrove: “quest’articolo riflette le opinioni dell’autore, non necessariamente quelle della pubblicazione”. Trovai invece reazioni indignate, come se fossi un censore liberticida. “Vietato vietare” era la riesumazione di uno slogan sessantottino, che mi veniva ricordato con orgoglio. Dissi che, così, più che una rivista, avremmo riesumato lo Speaker’s Corner londinese. L’euforia libertaria, per coprire irritanti attenuazioni della responsabilità di Putin e denunce del presunto accerchiamento della NATO, alla quale – a mio avviso – si sommava, sotto traccia, una valutazione dei costi delle sanzioni e del rischio dell’ ”escalation” nucleare che sembrava voler dire “Ma chi ce lo fa fare…”.
E la mia reazione fu: “Mica me lo ha ordinato il dottore di continuare a scrivere qui”. È passato un anno e temo di non essere il solo a pensarla così. Ma Claudio, con affettuosa tenacia, insiste. E io voglio metterlo alla prova.
Se leggerete quest’articolo, vuol dire che egli applica, con rigorosa imparzialità, una massima dal passato illustre (“Non condivido quello che dici ma mi batterò perché tu possa dirlo”).
Putin aveva fama di essere cinico e spietato nelle sue azioni ma prudente nel sapersi fermare per tempo sul ciglio del baratro. Ora sembra essere venuta meno questa sua abilità. Al giocatore di scacchi è subentrato il giocatore di poker, che non calcola ma azzarda, bleffa, imbroglia. Come si fa a negoziare con lui? Ci sono alternative alla capitolazione, all’accettare in toto le sue condizioni? Cosa vogliono dire, in questo contesto, parole alate come “pace” o “diplomazia”? Non dico niente di nuovo, solo personaggi fuori del mondo come Berlusconi o Orsini possono ancora trovare attenuanti o scuse all’insensata aggressione. Più subdola, caso mai, l’ipocrisia di quanti la condannano ma si trincerano dietro l’irenismo del dire no alla fornitura di armi, come se, difendendosi, l’Ucraina alimentasse essa stessa la spirale del conflitto. Valgono in proposito le chiare parole di Papa Francesco, del 15 settembre 2022, in merito al diritto dell’Ucraina di difendersi: “La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama”. Ridicola poi la motivazione ogni tanto bisbigliata in merito alla minaccia del ricorso all’arma nucleare. La dottrina, tanto della Russia quanto degli Stati Uniti, contempla sostanzialmente il ricorso al primo uso dell’arma nucleare solo in presenza di quella che viene definita una “minaccia esistenziale” alla sopravvivenza stessa del paese. Vorrebbe Putin sostenere che la riconquista ucraina di una parte dei territori invasi costituisca per Mosca un tale tipo di minaccia? Oltretutto, punendo con la deflagrazione proprio il territorio e la popolazione che hanno subito l’invasione. Un autogol concettuale.
E pensare che, con il venir meno dell’Unione Sovietica, era rimasta stazionata in Ucraina una parte dell’arsenale nucleare di Mosca. E che furono gli Stati Uniti ad aiutare la Russia a persuadere Kiev a rinunciare a tale possesso, in cambio delle garanzie del Memorandum di Budapest del 1994 sulla tutela della sovranità ed integrità territoriale dell’Ucraina.
Scrivo queste righe con una certa emotività, perché – ahimè – so di che cosa parlo, avendo vissuto dall’interno la conclusione della Guerra Fredda e l’illusoria stagione della “fine della storia”.
Ero a Bruxelles nel dicembre 1987 quando Andreotti, da Ministro degli Esteri, firmò, con i colleghi tedesco, belga ed olandese, la rinuncia ai c.d. “euromissili”, a seguito dell’accordo INF tra Washington e Mosca. Si chiudeva così una vicenda apertasi dieci anni prima, con il discorso del Cancelliere Schmidt all’International Institute of Strategic Studies (IISS) di Londra, che denunciava lo spiegamento di missili sovietici puntati sull’Europa ed il rischio di una separazione (“decoupling”) tra le due sponde dell’Atlantico nel rispondere a questa minaccia. Ci fu un biennio di grande turbamento, che si concluse nel dicembre del 1979 con la c.d. “doppia decisione” della NATO (fortemente propiziata dall’Italia che aiutò la Germania a superare le sue incertezze), in base alla quale si pianificava l’installazione in Europa di missili nucleari di media gittata capaci di colmare lo squilibrio strategico che si era creato ma al contempo se ne offriva a Mosca lo smantellamento se si fosse arrivati ad un accordo USA-URSS per l’abolizione di questa categoria di vettori. Anche allora c’erano i “pacifisti”, il cui slogan era “meglio rossi che morti”, meglio cedere al ricatto di Mosca che rimanere vittime del conflitto nucleare. Siamo ancora vivi senza essere diventati “rossi”. La fermezza si dimostrò la migliore premessa per il dialogo e la costruzione di alternative.
Ero all’Hotel Sheraton all’EUR nel 1991, quando la NATO adottò il suo nuovo Concetto Strategico, nel quale si proclamava che “la divisione politica dell’Europa che era stata la fonte del confronto militare del periodo della Guerra Fredda era stata superata”.
Ero undici anni dopo all’aeroporto di Pratica di Mare, quando si adottò un’altrettanto storica decisione, modificando le regole di procedura del Consiglio NATO-Russia creato anni prima, per enfatizzare il carattere “inter pares” dei rapporti tra Mosca e i singoli Alleati.
E nel 2014 ero a San Pietroburgo, per una riunione dei Direttori Sicurezza, Disarmo e Non Proliferazione dei Paesi G8, sotto Presidenza russa. La complessa normalizzazione dei rapporti Est-Ovest aveva raggiunto un livello tale che argomenti un tempo tabù venivano discussi insieme, addirittura sotto la responsabilità dell’antico avversario. In quell’occasione, non prendemmo misure importanti ma cominciammo ad affinare un testo che avrebbe poi dovuto essere adottato di lì a qualche mese nel previsto Vertice di Sochi. Fu però quella l’ultima riunione del formato G8. Il giorno dopo, la Russia invase la Crimea e da allora si è tornati al solo G7. Cito quest’episodio solo per smentire quanti lamentano la strategia aggressiva dell’Occidente che voleva umiliare la Russia. I miei ricordi sono del tutto diversi.
Fu traumatico veder crollare quasi di colpo tutta la barocca architettura di sicurezza costruita in quella che veniva allora definita l’Europa “nuovamente integra e libera”, con istituzioni che lavoravano in parallelo secondo la logica della diplomazia multilaterale (OSCE, UE, NATO, Consiglio d’Europa ecc.).
Non è questa la sede per andare oltre nell’analisi. Mi limito ad un’osservazione provocatoria.
Altro che allargamento ad est della NATO, il problema della Russia comincia ben prima! E trova forse le sue tensioni più profonde nelle irrisolte questioni degli assestamenti geopolitici dopo la Grande Guerra, con la dissoluzione degli Imperi, da quello austroungarico a quello ottomano a quello zarista. La Pace di Wilson fece trionfare l’idea di nazione ma larghi territori e grandi aggregazioni di popoli non erano forse pronti. L’Unione Europea, sorta dopo un’altra tragedia storica, è l’esempio più incoraggiante di relazioni internazionali “post westfaliane”.
E allora, in questo complessivo riassestamento degli equilibri, dovremo ricordarci che, oltre Putin (per il quale dovrà essere trovata una adeguata cornice legale per un processo agli efferati crimini di cui si è macchiato), esiste una Russia con la quale dovremo convivere anche dopo. E dovremmo allora, senza deflettere dalla richiesta di un ritiro delle truppe russe dall’Ucraina del 2014 (Crimea e Donbass quindi), pensare a come rimettere in carreggiata i rapporti tra due popoli e due nazioni con una storia comune.
Osservo che è ben difficile considerare la Russia come un’unica entità nazionale, che copre due continenti, con l’ottanta per cento circa della popolazione da una parte e l’ottanta per cento circa del territorio dall’altra parte. Mi torna in mente l’espressione cara a De Gaulle, dell’Europa “dall’Atlantico agli Urali”, usata quasi sempre per esprimere l’auspicio di togliere di mezzo gli americani ma che, in effetti, implicherebbe anche una inedita cesura della Russia bi-continentale. Sarà allora molto complicato ma inevitabile lavorare, nel “dopo Putin” (insisto su questa pregiudiziale!), per soddisfare al meglio esigenze strutturali della Russia post zarista e post sovietica. Accenno solo a due aree che andranno seguite con particolare attenzione: un regime di sicurezza cooperativa nel Mar Nero (che fa comunque parte del Mediterraneo e quindi ci tocca da vicino) ed una maggiore tutela delle minoranze russofone nei Paesi baltici.
Non credo che bastino questi due dossier per indurre oggi Mosca a ritirarsi ma dobbiamo tenerci pronti ad aprirli, per configurare soluzioni lungimiranti e non semplici rattoppi dell’esistente.
Fino ad allora, però, basta con le ipocrisie su pace e diplomazia, che sembrano una replica di Monaco 1938. Invito a leggere in proposito le pagine sferzanti che un grande intellettuale cattolico degli Anni Trenta dedicava al c.d. “pacifismo dei tranquilli / utopia dei sedentari” (pag. 61, Emmanuel Mounier, I cristiani e la pace, ed. Castelvecchi, 2022).
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