Circola – anche tra gli accademici – una leggenda metropolitana secondo cui, nelle società commerciali, il capitale non avrebbe più una funzione essenziale, contrariamente a quanto si era sempre ritenuto in passato.
Qualcosa di vero, in effetti, c’è. Ad esempio, non è certo dall’entità del capitale sociale che si misura lo stato di salute di tali società. Le teorie anglo-americane hanno dimostrato che per questo scopo sono assai più efficaci gli indici dell’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale delle imprese (r.o.i., r.o.e., e.v.a. e molti altri). Di ciò non v’è dubbio. Ma l’esperienza insegna altresì che una delle cause più evidenti della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale risiede nell’endemica sottocapitalizzazione delle società, specie delle società di capitali. Si pensi solo ai minimi legali del capitale di queste società. Quando venne emanato il codice civile del 1942 il capitale minimo delle s.p.a. era di un milione e quello delle s.r.l. era di 50.000 lire. Successivamente tali valori vennero adeguati, nel 1977, a 200 milioni (s.p.a.) e a 900 mila lire (s.r.l.). Con il passaggio all’euro il capitale minimo delle s.p.a. passò a 100.000 euro (dal 2002), poi a 120.000 euro (dal 2004) ed infine a 50.000 euro (dal 2014); mentre quello delle s.r.l. ordinarie è rimasto fissato in 10.000 euro. Capitale minimo che – se da liberarsi mediante conferimenti in denaro – è possibile versare nelle casse sociali soltanto nella misura del 25% (12.500 o 2.500 euro per i due tipi societari anzidetti). Tuttavia per le s.r.l., che sono circa il 90% delle società di capitali italiane, anche tale versamento può mancare, nel senso che può essere addirittura sostituito con una fideiussione bancaria o con una polizza assicurativa.
Tutto ciò mentre i valori del 1942 corrispondevano, al 31 dicembre 1999 (ultimo anno in cui l’Istat ha aggiornato l’indice di variazione del potere d’acquisto della lira nel tempo, prima del passaggio all’euro), rispettivamente a circa 802.661.200 lire e a 40.133.060 lire.
Si è in seguito calcolato che il primo valore corrisponderebbe oggi a circa 557.707 euro e il secondo a circa 27.885 euro (fonte: www.inflationhistory.com); per cui – anche senza considerare che il rapporto di 1.937,25 lire contro un euro è del tutto teorico poiché l’osservazione della realtà, in termini di potere d’acquisto della moneta, mostra che il rapporto effettivo è ormai grosso modo pari alla metà di quello ufficiale (ossia di circa mille lire contro un euro) – ci si può ben rendere conto che rispetto ai valori indicati dal legislatore del 1942 vi è stata ad oggi una riduzione, in termini reali, superiore al 90 per cento quanto al capitale minimo delle s.p.a. e di circa i due terzi quanto a quello delle s.r.l., che di certo non corrobora l’affidabilità, la sicurezza e la garanzia per i terzi, segnatamente per i creditori, del traffico giuridico.
Più recentemente, una norma del 2012 ha introdotto, per le sole s.r.l., la possibilità di dotarsi di un capitale sociale anche inferiore a 10.000 euro, fino al minimo di un euro (s.r.l. a capitale ridotto, ora s.r.l. semplificate). Se questo è diventato l’impegno finanziario minimo che si richiede ai soci delle società di questo tipo – che sono e restano a tutti gli effetti delle società di capitali, la cui garanzia nei confronti dei creditori è limitata al solo patrimonio sociale – vien da chiedersi chi fornirà i mezzi finanziari effettivamente occorrenti per avviare l’attività d’impresa. È ben vero che, per accordo fra il M.E.F. e l’A.B.I., il sistema bancario si è impegnato a finanziare a condizioni agevolate anche simili start-up. Ma siccome le banche, a tutela alla loro stessa solidità, sono tenute a valutare preliminarmente il merito del credito che sono richieste di concedere, queste non potrebbero finanziare società manifestamente sottocapitalizzate senza pretendere adeguate garanzie accessorie di soci o di terzi, così frustrando il principio stesso della responsabilità limitata.
Ciò senza contare che l’intrapresa di attività economiche di qualsiasi genere, per quanto modeste possano essere, richiede sempre il rispetto di un adeguato rapporto fra capitale proprio e capitale di credito, variabile a seconda dei settori di attività, la cui alterazione provoca profondi squilibri finanziari e, in immediata consecuzione, anche economici.
Per gli effetti, il miglior consiglio che credo in coscienza possa darsi ad un gruppetto di persone, o anche ad una sola, che non dispongano del capitale sufficiente per esercitare un’impresa è quello di astenersi dal mettersi in affari, poiché l’assenza di una corretta capitalizzazione costituisce inevitabilmente, come l’esperienza insegna, l’anticamera del dissesto.
In conclusione, meramente demagogiche vanno considerate simili previsioni legislative, che si rivelano ingannevoli e nocive perché ingenerano nei più sprovveduti delle speranze che ben difficilmente potranno essere coronate da successo.
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