La storia.
Il 20 novembre 1954, “Le Figaro Littéraire” pubblica la prima delle due puntate di un racconto: “Un condannato a morte è fuggito”, di André Devigny; sette giorni dopo, la seconda.
L’autore è un alto funzionario dei servizi di intelligence francesi in Algeria, dodici anni prima membro del “maquis” (la resistenza francese) a Lione, col nome di “Valentin” (gruppo Gilbert – Network: ufficiali disertori passati alla lotta clandestina). Informatore dei servizi inglesi, impegnato nel supporto alla fuga in Svizzera dei rifugiati e nel sabotaggio di infrastrutture logistiche e militari tedesche, era stato arrestato nell’aprile del ’43 con altri compagni, in seguito alla denuncia di un infiltrato.
Imprigionato nella fortezza di Montluc (Lione), allora sotto il comando degli uomini di Klaus Barbie (oggi è monumento storico); ripreso e torturato dopo un primo tentativo di fuga e condannato a morte il 20 agosto, tre giorni prima della data fissata per l’esecuzione era riuscito ad evadere – insieme ad un giovanissimo compagno di cella dell’ultimo momento – portando a termine con successo un meticoloso piano di fuga predisposto nelle settimane di isolamento. “Un condamné à mort s’est échappé” descriveva i mesi di carcere a Montluc, l’interrogatorio nel quartier generale tedesco (Hotel Terminus, la via Tasso lionese) e soprattutto la lunga e paziente predisposizione del piano di fuga: una spilla da balia fornita dalla sorella di un compagno di prigionia per aprire le manette; il lavoro sulla porta di legno della cella con un cucchiaio di metallo limato e appuntito; la preparazione delle corde e dei ganci con materiali di fortuna; la vita nel carcere e il rapporto con gli altri arrestati messi a parte del tentativo. I tedeschi si sarebbero vendicati di questa fuga e del successivo ritorno nel maquis dell’ufficiale francese (in Svizzera e Spagna) su due suoi cugini, finiti in un campo di sterminio. Due anni dopo, la traccia fornita da questo racconto sarebbe stata sviluppata in un vero e proprio romanzo, ma questa è già storia successiva. Come quella di Devigny, insignito da De Gaulle della “Croce della Liberazione”: prima fra i liberatori dell’Alsazia quindi designato agli alti gradi del controspionaggio francese fino al ’71, quando si dimette in polemica con Georges Pompidou per una nomina controversa ai vertici di quel servizio. Tornato alla scrittura e a quell’insegnamento da cui proveniva prima di arruolarsi, muore ottantatreenne alla fine del 1999. Pochi mesi prima di Bresson, di quindici anni più anziano.
Bresson e Devigny al lavoro.
“Un condannato a morte è fuggito”, forse il film più bello sulla Resistenza, nasce due anni dopo sulla traccia di quel racconto del “Figaro” (non del romanzo, che Devigny sta ancora approntando). Nasce dall’officina intellettuale allestita dall’ex giovane ufficiale diventato “maquisard” e da uno dei maestri e degli spiriti più puri dell’arte cinematografica, Robert Bresson, giunto al suo quarto film, a ventidue anni dall’esordio con quel primo cortometraggio muto (“Les affaires publiques”, 1934), mai uscito in sala e presente in copia unica alla Cinémateque .
Alta aristocrazia intellettuale, questi inizi: due film realizzati sotto occupazione tedesca. Il primo di delitto e castigo, vendetta e perdono, orgoglio e pregiudizio in un convento di suore, scritto con Giradoux (“Les anges du péché”, in italiano “La conversa di Belfort”); l’altro un dialogo filosofico da Diderot, scritto con Cocteau (“Les dames du Bois de Boulogne”, in italiano “Perfidia”, da “Jacques le fataliste”). Roba da spiriti eletti; ritratto dell’autore da cucciolo. Poi il “Diario di un curato di campagna” dall’amato Bernanos, il suo primo grande film (belli, erano belli anche gli altri). In fondo lo spirito con cui lavora, in questo 1956, al suo capolavoro sulla Resistenza non è diverso da quello con cui il grande scrittore cattolico francese aveva raccontato “I grandi cimiteri sotto la luna” della guerra di Spagna, o George Orwell aveva scritto il suo “Omaggio alla Catalogna”. “Un condannato a morte è fuggito” elegge la Resistenza a simbolo più alto, storico e concreto eppure universale, di liberazione delle energie fisiche, intellettuali e spirituali di un uomo, di ogni uomo. Mette a confronto, non in opposizione, Dio e Prometeo: il pastore protestante, anche lui prigioniero a Montluc, e il protagonista Fontaine. Entrambi rischiano la fucilazione per difendere una matita. Al primo serve per chiosare, trascrivere e far girare le parole della Bibbia, in particolare quelle di Gesù a Nicodemo (“Il vento soffia dove vuole e tu ne sentì il soffio ma non sai donde viene e dove va.”). Il secondo, con quel prezioso e pericoloso “lapis” (il doppiaggio italiano è d’epoca; vi esordisce un ventiseienne Ferruccio Amendola, dando voce a Hebrard, il fatalista) scrive alla madre le parole che un anziano compagno le farà recapitare tramite la figlia e sul muro quelle dell’inno dei legionari (oggi caro più che altro per il tramite della memoria di Edith Piaf), da ripetere e ricordare all’anziano e depresso compagno della cella attigua. Ma servirà soprattutto, quella matita, a coprire le tracce sul legno della porta del lento lavoro di scalfittura. Non è rassegnazione, quella del pastore (“Il vento soffia dove vuole” è il sottotitolo del film): è il mistero della Grazia. “Leggete e pregate, Dio vi salverà”. Ma “Dio ci salverà se gli diamo una mano”, replica Fontaine, che non prega molto (“solo ogni tanto”). “Sarebbe bello che Dio si occupasse di tutto”. Io intanto preparo la corda, e non per impiccarmi. Poi, il vento che soffia lo prenderemo.
La poetica e la politica.
“Un condannato a morte è fuggito” si apre su un’inquadratura della fortezza oggi. In primo piano il muro di cinta scrostato. In sovrimpressione, una scritta a mano: “Questa è una storia vera. Io la riporto com’è, senza ornamenti. Robert Bresson”. Una dichiarazione di poetica. L’inquadratura successiva è una targa: “QUI /SOTTO L’OCCUPAZIONE / TEDESCA /SOFFRIRONO / DIECIMILA UOMINI / VITTIME DEI NAZISTI / SETTEMILA SOCCOMBETTERO.”. La storia. Una breve panoramica e sul muro grigio, di fianco alla targa, si succedono i titoli di testa.
Robert Bresson ha quarantadue anni quando gira, sotto occupazione, il suo primo lungometraggio. Viene da studi filosofici, dalla pittura e dalla fotografia. Ne avrà ottantadue quando uscirà il tredicesimo e ultimo. Quarant’anni al centro di una vita lunghissima e riservata, in buona parte impenetrabile: morirà a poche ore dallo scoccare del fatidico 2000, lui che era nato nel 1901. Penultimo a lasciare questa terra, e più longevo dopo l’irraggiungibile Manoel De Oliveira (scomparso nel 2015 a 106 anni, dopo tre film girati a 101, 102 e 104), fra i grandi del cinematografo nati artisticamente ai tempi del muto. Con questo suo quarto lungometraggio trova la sintesi più compiuta fra le esigenze non solo dell’etica e dell’estetica (a questo era già pervenuto col “Diario”), ma della politica e della storia. Per usare una formula politica degli anni ’60, l’equilibrio più avanzato fra sé e il mondo. “Il cinema è il movimento interiore” (Bresson), “la più privata delle arti” (Renoir), ma anche la più politica. Per fuggire, Fontaine dovrà uccidere la sentinella che si frappone fra lui e la libertà. Sarà l’unico caso, nel cinema di questo autore immenso in cui l’omicidio avrà il carattere della necessità. E comunque avverrà fuori scena, come le percosse e le torture, come gli ordini dei tedeschi e le fucilazioni. Come tutto ciò che per natura è “o-sceno”. La scena è per la voce dell’uomo, il suo corpo, le mani e il volto. Gli oggetti, le case, gli alberi, le strade, i muri.
“Sans ornaments”. Riportare senza orpelli. Abolire il superfluo, l’inessenziale, il vano. Girare 60.000 metri di pellicola (36 ore circa) per tenerne 2600 (100 minuti scarsi). Non per cercare la goccia di splendore di Alvaro Mutis, ma per negarla. Per cancellare dal volto degli attori, attraverso la ripetizione ossessiva dei ciak, ogni lenocinio attoriale. Portarli a parlare come a sé stessi, senza un pubblico da commuovere, emozionare, divertire, convincere, indignare, persuadere con le proprie arti e malizie (teatrali, il cinema è un’altra cosa). Mostrare, non dimostrare. Percorrere le vie che portano all’essenza (Battiato). Cercare lo splendore del vero in ogni particolare, anche il più muto, di un cinema che pur nella secchezza dei dialoghi non potrebbe essere più sonoro; che pur privo di drammaticità non potrebbe essere più teso ed emozionante. Ci sono inquadrature che rivedremo in “Psyco” di Hitchcock, sul volto di Anthony Perkins. Del resto anche Hitch, come Bresson, Antonioni e altri maestri, chiedeva ai suoi famosissimi attori di “recitare” il meno possibile. E’ cinematografo (così Bresson definiva puntigliosamente il suo). Linguaggio, non spettacolo. Anche se parliamo del film, fra i suoi, che più di ogni altro e senza minimamente tradire la propria poetica. sembra spingersi sulla via di un compromesso fra linguaggio e spettacolo. Ma forse è solo un’impressione dovuta al tema trattato.
“Se mamma mi vedesse”. Jost.
Ormai prossimo all’esecuzione e con il piano di fuga a punto (“il tempo passava e le nostre carte perdevano valore”) prende corpo per Fontaine lo spettro del fallimento. Rientrando in cella – finora la sua privata officina – trova un compagno aggiunto. Un compagno inquietante. Giovanissimo, non più che adolescente, è sporco fino all’inverosimile. Bello, vestito metà da francese e metà da tedesco, puzza che t’accòra. Una spia, messa lì per indagare sui suoi piani noti a più di un compagno (intorno al suo piano circola una solidarietà cordiale e silenziosa, attiva e diffusa)? Si chiama François Jost, unico dei personaggi ad avere un nome (lo stesso dell’attore protagonista, François Leterrier) e pare affranto. Forse ha ucciso un tedesco in una rissa. Arruolato volontario (“per la Francia”, dice “per cosa se no?”), respinto all’atto di salire su un treno per tedeschi e sprezzato come moccioso francese si era ribellato e adesso è lì, a pensare alla sua sorte e alla madre che non aveva voluto vederlo partire.
“La Francia la vedo solo nei tuoi pantaloni“ (la parte francese del vestiario di Jost)
“Sì, ma non lo sapevo!”
“DOVEVI saperlo” che quella in cui ti sei arruolato non era la Francia.
Allo spettatore di oggi, Jost ricorda Lacombe Lucien, il giovane collaborazionista fucilato dai partigiani del film di Louis Malle (anche quella una storia vera), scritto da Patrick Modiano, il Nobel francese di qualche anno fa. Fidarsi o no? E poi, a non fidarsi, chi ce l’avrebbe il coraggio di ucciderlo? Improponibile. Non resta che fidarsi e metterlo a parte del progetto: fuggire insieme. Si parte dalla matita, dove è nascosta.
“Fucilano per una matita?”
“Sì”.
“Attento Jost! La guerra finirà e la perderanno”.
“No, non la perderanno”
“Sì. E se ne andranno. Sono brutti compagni e ti lasceranno solo nel tuo paese, senza nessuno per difenderti. Non ci sarà pietà”
“Nemmeno per la mia età?”
“Non contarci”
“Son libero di dire sì o no?”
“Adesso che sai tutto, no. Se ci prenderanno…”
“Per chi mi prendi?”
Non c’è che da realizzare una seconda corda, sfilettando il pagliericcio di Jost e una coperta regalo del vicino di cella. Avrà, come la prima, l’anima del fil di ferro della rete del letto e quei ganci che sono l’ammaestramento del fallito tentativo di fuga di un compagno italiano che non aveva la pazienza di aspettare (Fontaine: “Era disperato?”; il Pastore: “No, era pieno di speranze”. Troppe): “Doveva fallire Orsini perché riuscissimo noi”. Poi la fuga sui tetti, il passaggio alti sulla corda, la sentinella e l’ultima scoperta: da solo Fontaine non ci sarebbe riuscito. Non tutto era stato previsto, non tutto è mai prevedibile. Il sedicenne Jost risulterà indispensabile. A lui toccano le parole di chiusura di tanta meraviglia: “Se mamma mi vedesse” e l’abbraccio di Fontaine. Quanto alla chiusura in musica, quella tocca a Mozart. Per tutto il film ha accompagnato il percorso verso il fontanile della fila indiana dei prigionieri e persino lo scarico dei buglioli, come un momento sacro. Non per niente è la “Messa in do minore”.
Tutto questo spiega perché “Un condannato a morte è fuggito”, è il film simbolicamente più bello sulla Resistenza fra i tanti, anche meravigliosi, che sono stati fatti. Quello che tutti li comprende e che a tutti dà senso. Non la Resistenza italiana o francese, europea o sudamericana, ma la Resistenza come archetipo, nata in carceri come Fort Montluc. Pensate a una storia ce vi è piaciuta, scritta, recitata, filmata. Ci troverete anche quella, quel filo di ferro della rete del letto; quel “se mamma mi vedesse!”. Il coraggio e la rassegnazione, la speranza e la disperazione, i dialoghi e i silenzi, la morte dell’uomo e la sua Resistenza, come in quella fortezza. Un film da vedere e rivedere. Tante volte, di qui a … fate voi.