Un diffuso buon senso, oltre che un’amplissima opinione pubblica mi sconsigliavano di inerpicarmi sul difficilissimo tema sollevato dalla Corte di Cassazione francese, che ha rifiutato di estradare in Italia 10 estremisti di sinistra che si resero responsabili di crimini di vario genere durante l’epoca che fu definita come “anni di piombo”.
Il tema è difficilissimo, perché non c’è dubbio che l’uccisione di persone, funzionari dello stato, giornalisti e dirigenti di azienda, rappresenta un reato, soggetto, come tutti i delitti, al diritto penale dello Stato.
Allora i giudici della Corte di Cassazione francese sono giuridicamente incompetenti, oppure disposti ad accettare che ideologie rivoluzionarie estremiste possano aver condotto ad atti terroristici e violenti, durante un determinato periodo storico? A mio avviso vale la pena di proporre alcuni spunti di analisi, anche se essi non risolveranno certamente il problema perché quasi tutti resteranno della propria opinione.
Nel suo bellissimo studio “Terrore e Terrorismo” Francesco Benigno ci fa spesso notare che i terroristi quando hanno successo sono considerati eroi, mentre se perdono vengono condannati come criminali e assassini. L’esempio evidente è la creazione dello stato di Israele: i creatori di questo grande paese hanno cominciato da terroristi: Haganah era una organizzazione terroristica, e ne facevano parte grandi eroi della creazione di Israele come Rabbin, Sharon e Dayan. Compirono atti terroristici contro i diplomatici inglesi e assassinarono il delegato ONU Folke Bernadotte. L’elenco dei rivoluzionari di successo sarebbe lungo anche se sappiamo che in molti paesi dell’America Latina prima di andare al governo, molti movimenti di liberazione erano senz’altro terroristi. La Cassazione francese si basa essenzialmente su due argomenti. I terroristi italiani non avrebbero avuto a quel tempo un giusto processo, tant’è vero che molti sono stati condannati in contumacia, senza cioè aver potuto difendersi. Inoltre durante i molti anni passati in Francia, costoro hanno vissuto sempre nella legalità, costruendo normali famiglie, e lavorando onestamente.
Il primo argomento riguarda l’esercizio della giustizia: a prescindere dal processo in contumacia è innegabile che durante gli anni di piombo una gran parte dell’opinione pubblica abbia reagito con grande rabbia e indignazione, guardando giustamente alle vittime innocenti colpite da una minoranza di esaltati, considerati criminali più che folli idealisti. Difficile che questa pressione dell’opinione pubblica non abbia condizionato i giudici.
Dopo la sentenza della Cassazione francese i soliti giornali domandano il loro parere ai parenti delle vittime. Cosa volete che dicano? Però la giustizia non è né vendetta né risarcimento morale, essa dovrebbe rappresentare il metodo di difesa della società dal crimine e dal delitto. Chi uccide un altro uomo compie un reato, ma esso non è perseguito per far piacere alle vittime. Non c’è dubbio che in quel momento storico sarebbe stato estremamente difficile difendersi per i terroristi/assassini, soprattutto dal punto di vista della dimensione delle pene. Sappiamo benissimo che ammazzare un vigilante in una rapina in banca non è la stessa cosa che uccidere un poliziotto durante una rivolta di piazza. Diversa è la posizione di un gruppetto che si è dato una denominazione rivoluzionaria ma che rapina i negozi e ha ucciso un proprietario, rispetto a strutture molto più organizzate, che colpiscono o sequestrano politici o alti rappresentanti dello. Stato. Si badi bene, sono sempre delitti, ma forse le pene dovrebbero essere diverse, e ciò ci permetterebbe, se non di condividere, almeno di comprendere meglio i giudici francesi.
Il secondo argomento riguarda la vita condotta da questi terroristi durante il loro soggiorno in Francia. Potrebbe il loro inserimento della società di quel paese essere considerato un ravvedimento, una rinuncia al crimine, un concreto pentimento?
È sempre difficile che il diritto penale di un paese possa prescindere da un sentimento naturale di rabbia e di vendetta verso i crimini più efferati: l’art. 41bis, che oggi suscita un così grande dibattito, è la prova della difficoltà del confine fra difesa della società e punizione. Se devo impedire a un criminale di comunicare con l’esterno per continuare a delinquere, ciò non significa che devo tenerlo in isolamento, impedirgli di vedere la sua famiglia o stare all’aria aperta come gli altri detenuti. L’obiettivo del 41bis era certamente giustificato, ma c’è stato uno scivolamento dovuto appunto alla tentazione di cedere alla punizione e alla vendetta.
La giustizia è un mestiere molto difficile, e giuristi e giudici fanno del loro meglio, nei paesi nei quali esistono i diritti e la giustizia.
Io volevo solo rievocare un dilemma, ricordandoci quanta attenzione merita quel confine.
Foto di apertura: La sede della Corte di Cassazione francese a Parigi – Foto pubblico dominio da wikipedia.org – CC BY-SA 3.0