A parlarcene per primo era stato un amico, Pierluigi Battista, in una Pasqua in montagna di quasi cinquant’anni fa.  In quella località della Val di Fiemme frequentata fin da ragazzi Pigi, che conosceva più di uno dei suoi interpreti, ci parlava di un piccolo film che da settimane teneva banco al Filmstudio, il cineclub più famoso d’Italia, facendo sogghignare un’intera generazione. Anche Moravia, frequentatore assiduo di quelle due salette fra Regina Coeli e le Mantellate, lo aveva recensito sull’Espresso. Via Orti d’Alibert usciva dalle poesie di Pasolini per entrare nelle cronache cinematografiche (le avrebbe aggiunto un insolito rilievo televisivo la targa che ricorda la nascita fra quei muri di Gianfranco Funari).  I cineclub erano ormai un vero e proprio circuito alternativo, per avanguardie artistiche e nouvelles vagues che in quei bugigattoli frequentati da tutto il mondo del cinema, della cultura e del teatro trovavano una modalità di diffusione. Era un film dal titolo vagamente démodé, “Io sono un autarchico”, e presto avrebbe fatto parlare di sé fino a Berlino e a Parigi, L’autore, Giovanni Moretti detto Nanni, era un ventitreenne romano nato per avventura in Alto Adige e quanto a modalità produttive, quelle della sua “autarchia” erano semplicemente incredibili.

 

L’AUTARCHICO.

Tutto era nato da un album di francobolli venduto per comprare una cinepresa 8 super. Molti ricorderanno quelle mini-bobine di plastica, pochi grammi e pochi centimetri di diametro, che riempivano le nostre case. Duravano, mi pare, tre minuti e mezzo. Una volta impressionate si spedivano alla Kodak, come una lettera qualunque, dentro l’apposita busta gialla già affrancata e indirizzata. Sempre per posta ordinaria, la Kodak le restituiva sviluppate dopo pochi giorni.

La dotazione completa del cineoperatore domestico, non si limitava, chiaramente, a cinepresa e proiettore. C’era anche la moviola, per collazionare i filmini e tentare eventualmente l’avventura del montaggio. Ma per quanto quello di Moretti non fosse il primo caso al mondo, l’idea che si potesse produrre in questo modo un  lungometraggio di finzione poteva venire solo a uno come lui: un ventenne pazzo di cinema e di Carmelo Bene (“Nostra Signora dei Turchi” come film di culto), figlio della borghesia intellettuale romana, unico non interessato agli studi universitari in una famiglia di stimati docenti di discipline classiche, dotato di una determinazione e di un’autostima talmente feroci da indirizzare al direttore del festival di Cannes i suoi primi cortometraggi a passo ridotto. Era successo due anni prima per quei corti che il Filmstudio aveva inserito in una rassegna sul super8. L’idea di girare in questa modalità un lungometraggio di 95 minuti sarebbe apparsa fuori dal mondo a chiunque altro, e in certo senso lo era. Anche ipotizzando un rapporto di uno-a-sette/uno-a-otto fra il montato e il girato (meno di così è davvero impensabile), significa lavorare fra le centoventi e le centocinquanta di queste “pizzette”. Un lavoro da miniaturista. Dato che la copia finale era unica, non poteva essere duplicata e si spostava col suo autore, intervenne l’ARCI. “Gonfiato” a sedici millimetri il film poté circolare normalmente fino alla messa in onda televisiva.

Con Paolo Zaccagnini “Io sono un autarchico”.

In quell’esordio geniale, spiritoso, acerbo, forse anche un po’ noioso a tratti, una scalcinata compagnia di teatro sperimentale cercava, con poca convinzione e intuibili risultati, di allestire uno spettacolo di teatro- cantina. Misurandosi con i propri fallimenti artistici e personali, le inadeguatezze e i velleitarismi, le stupidaggini del linguaggio politico e artistico di quegli anni, le gloriose banalità. Aspro nei confronti di quello che oggi chiameremmo “establishment”, ma indolente, sconfortato e portato a giustificare ogni inconcludenza, uno spicchio ben determinato dei venticinque/trentenni del quartiere romano Prati-Delle Vittorie (zona Rai), messo alla berlina nel proprio rinviare all’infinito l’ingresso nell’età adulta, reagiva ridendo. Ridendo di una presa in giro “dall’interno” che, allargandosi a cerchi concentrici, ritraeva la generazione bamboccia di una borghesia riluttante nei confronti della propria classe, ridotta a fare l’antagonista poco persuasiva di sé stessa. Una parodia di quelli che la polemica comunista di vent’anni prima chiamava “gattini ciechi” e nello stesso tempo un nuovo capitolo della commedia all’italiana. Gli attori erano un gruppo di amici e parenti: padre, fratelli, compagni di scuola. Con l’aggiunta di un intellettuale prestigioso come Beniamino Placido, nella parte di un delirante critico teatrale, e di due giornalisti in via di affermazione nel ramo sportivo e in quello musicale: il cantautore Corrado Sannucci e il critico Paolo Zaccagnini. Il bambino del protagonista era il figlio di un dirigente Rai amico di famiglia, Pier Silverio Pozzi, romagnolo di Sant’Arcangelo.  Saranno, bambino a parte, la base del cast di quasi tutti i suoi film.

Due anni più tardi “Ecce bombo”, produzione già più seria (16 mm), avrebbe definito meglio questo mondo, mettendone teneramente in luce anche aspetti meno parodistici e dolori veri. “Ero convinto di avere fatto un film drammatico per pochi. Scoprii dalle reazioni di aver fatto un film comico per tutti” (“Piazza Mazzini”). Comico? Mica tanto. Il regista culto dei divertenti tormentoni (“No, il dibattito no!”, “Continuiamo così, facciamoci del male”, e via dicendo) era ed è molto di più di quel Groucho Marx dei poveri citato in modo un po’ citrullo da certi “morettiani” tristanzuoli.

 

A MUSO DURO”.

Con Asia Argento sul set di “Palombella rossa”

Non so se Moretti sia o no un grande regista, e non mi importa niente di saperlo. Posso dire di aver provato, nell’ordine: interesse per l’Autarchico ed “Ecce bombo”; divertimento e perplessità per “Bianca”; ammirazione per “Sogni d’oro” e “Palombella rossa”; entusiasmo per “La messa è finita” e “Caro diario”; godimento puro per “Aprile”, felicissima operina di passaggio.  A parte “Tre piani”, che proprio non mi è piaciuto, ho provato una sintonia intermittente con i film successivi, dal “Caimano” in poi, con una preferenza per “Habemus Papam”. Dimenticavo i documentari: tre, uno più bello dell’altro. Ma è oggi “Il sol dell’avvenire”, uno dei meno riusciti, a mostrare come in uno specchio ciò che fa di Moretti il più interessante dei registi della sua generazione.

Piaccia o non piaccia, nel bene e nel male, Moretti è il fenomeno culturale più innovativo e influente del cinema italiano degli ultimi cinquant’anni. E uno dei più innovativi ed influenti in Europa. Regista, interprete, promotore culturale, esercente di uno dei cinema meglio gestiti di Roma (un tempo anche produttore e distributore), caposcuola ed influencer, con lui –  come ottant’anni fa con Cocteau e poi con Zavattini, Godard o Pasolini – il cinema diventa pratica politica e culturale. Discorso pubblico, aria che cammina, svincolata da ogni specialismo. A partire dal mitico “specifico filmico” (“con cui ho combattuto tutta la vita”, diceva Scola). Rete di relazioni, di polemiche e di entusiasmi, di elaborazione puntuale e spesso anticipatrice. Di crescita sociale e culturale, di libertà, di scazzi. Il viaggio in Vespa di “Caro Diario”, da Monteverde allo sterrato dell’Idroscalo teatro del massacro di Pasolini, è il filo di un raccordo, politico e artistico. Perché Moretti è artista vero, anche quando “toppa” per autocompiacimento, come in questo suo ultimo film. Per questo, anche nei momenti meno felici e più irritanti, rimane il più moderno di tutti.

 

INTERPRETAZIONI DEL NOVECENTO: ESSERE QUELL’AMICO.

Silvio Orlando, “Il caimano”

Come il pallonetto nel calcio, come il lob nel tennis, la palombella è un tiro a parabola, che scavalca il portiere fuori posizione o il giocatore che si è spinto a rete, ricadendogli alle spalle. La parabola storica del comunismo era visibile a chiunque volesse vederla, ma presentare a Venezia fra le polemiche (in una rassegna collaterale, perché escluso dal concorso) un film come “Palombella rossa” due mesi prima della caduta del Muro di Berlino denota qualcosa che è molto più di un formidabile intuito: la sensibilità dell’animale sociale che sente arrivare il terremoto.

 

Il berlusconismo come long-covid, destinato a esercitare i suoi effetti nel tempo, molto oltre la conclusione della fase acuta, su un corpo sociale che quasi lo invocava (“no, il vaccino no!). Questo è “Il Caimano”. D’accordo, il finale nerissimo del film non si è realizzato, anche se la condanna è stata curiosamente indovinata, persino nella misura della sanzione. Ma la sostanza è lì, in tutta la sua evidenza.

Michel Piccoli  “Habemus Papam”

Habemus Papam”, un film in cui un eletto al soglio di Pietro si dimette, schiacciato da una responsabilità a cui si sente impreparato. Pochi mesi prima che, per la prima volta in duemila anni, un Papa si dimetta, proprio per un angoscioso senso di inadeguatezza a fare il Capo di Stato e di popolo. Perché un Papa questo è; non un teologo (basterebbe Piazza del Pantheon per riunire gli interessati ad ascoltare un teologo). C’è chi muore d’infarto un mese dopo la nomina (sempre che…) e chi si dimette. Una stupenda riflessione sul potere, sul Papato, sulla Chiesa nel mondo, e una capacità non comune di stare nel proprio tempo anticipandolo. “Non ho amici, io, che mi precedano per evitarmi quelle spiegazioni che mi ammazzano” dice l’Amleto di Carmelo Bene. Essere quell’amico.

Essere a Santiago, a ricordare l’opera della nostra ambasciata durante il golpe (“Santiago, Italia”), un pezzo di Italia di cui andare fieri. A parlare con chi è rimasto, in Cile e in Italia, di cause e di errori, in una vicenda si cinquant’anni prima. Sembra derisorio paragonare questo nobilissimo psicodramma politico a quello di “Ecce bombo”. Ma chi avesse visto “Dialoghi di esuli” di Raul Ruiz, realizzato a Parigi poche settimane dopo il colpo di Stato vi avrebbe trovato qualcosa di quel film italiano di cinque anni dopo. E Ruiz, esule cileno a Parigi, sarà più tardi fra gli interpreti di “Palombella rossa”.

Con Moretti, il cinema torna ad essere una “tangente rivelatrice dello sviluppo come spettacolo sociale. Come se la Storia stessa avesse fatto per noi il suo cinema” (Philippe Sollers, Da “Entretien avec Philippe Sollers : « Il y a des fantômes plein l’écran… », Paris 8 aprile 1997. “Cahiers du cinéma “, n°513, maggio 1997)

 

IL SOL DELL’AVVENIRE.

Tre piani” è pronto, ma la pandemia oltre a chiudere i cinema, fa saltare il Festival di Cannes. In quell’anno e mezzo di attesa si fa strada un’idea, abbandonata anni prima: quella di un film sui fatti del ’56 in Ungheria. Ci sono clamori di guerra al confine ucraino e alcuni film importanti usciti nel frattempo indicano una chiave originale per la riscrittura. Aveva iniziato Marco Bellocchio in “Buongiorno, notte”, immaginando Moro libero all’alba nei pressi dii via Montalcini. Ma lì alle immagini della passeggiata in libertà seguivano quelle del funerale senza bara celebrato da Paolo VI in San Giovanni in Laterano.  La realtà si riprendeva quanto appena sottrattole dalla fantasia.  Più radicale Quentin Tarantino in “Bastardi senza gloria”: un attentato in un teatro distrugge, con Hitler, tutto lo stato maggiore del Terzo Reich. Niente più guerra mondiale. Lo stesso in “C’era una volta a Hollywood”: Charles Manson e i suoi si scontrano con qualcuno più scocciato di loro, finiscono tutti malissimo e fallisce l’attacco alla villa di Polanski (assente) e Sharon Tate. Tutti salvi, l’incantevole attrice e i suoi ospiti. Nessuno saprà mai quel che hanno rischiato. “Il sol dell’avvenire” riprende il vecchio progetto scartato, lo “risuola”, come dicono gli americani, prima dell’invasione dell’Ucraina e lo realizza dopo. Ci mette stanchi materiali di risulta, vecchie gag, battute, isterismi idiosincratici, per chiamare un po’ malinconicamente l’applauso. Li organizza secondo lo schema del film nel film (che comincia a stufare perché è già la quarta volta), fra un inizio e un finale bellissimi, mettendo al centro la vecchia idea “risuolata”: la storia di un circo ungherese invitato al Quarticciolo (borgata romana) dai compagni di una sezione del PCI e sorpreso in Italia dagli eventi. Come reagiranno loro non è in discussione. L’imbarazzo è tutto dei militanti italiani: il partito è schierato con gli invasori.

Silvio Orlando e Barbora Bobulova

Che abbia visto il film o che non l’abbia ancora visto, è probabile che chi legge sappia già tutto. Ancora una volta un film di Moretti è sulla bocca di tutti. È dibattito. Storico? Anche, ma non è questo il punto. È facile dire adesso il PCI avrebbe dovuto prendere allora la via che Berlinguer avrebbe preso vent’anni dopo. Come sarebbe stato bello per tutti, eh? Ma anche la separazione netta, con tanto di stralcio dai manifesti, fra Lenin (il bene) e Stalin (il male) non è che stia molto in piedi, se parliamo di dittatura. La stessa mitizzazione di Trotzky contro Stalin – è stato notato – a malapena si spiega con le posizioni dell’ultimo periodo, troncato dal suo assassinio. È un sentimento del tempo, non un’elaborazione storica ad animare la parata finale ai Fori Imperiali, certo. Ma è questo che dà emozione e grandezza a quelli che sarebbero strafalcioni storici: il confronto, in un’eredità comunista dal doppio volto, fra chi sa almeno ripudiare quello assassino e chi ancora fatica a farlo.

L’invasione dell’Ucraina ha riportato alla superficie un sentimento più diffuso di quanto non si pensasse: quello della Russia come patria del comunismo, nonostante tutto. Anche quella di Putin? Sì, anche quella. Una patria è come la mamma. Sarà anche una poco di buono ma è sempre la mamma e se qualcuno me la offende io gli do un pugno. Lo dice anche il Papa. (Ricordate l’infelicissima frase di Papa Francesco ai giornalisti al tempo del massacro parigino a Charlie Hebdo?) È un sentimento che resiste ad ogni ripulsa razionale (che rapporto c’è fra la Russia di Putin, la brigata Wagner, i deliri di Medvedev e il socialismo, per quanto reale?). Come l’allarme della destra contro un comunismo che non c’è più, così l’“allarmi son nazisti” di Putin contro gli ucraini sta scavando come una talpina le sue gallerie. Difficile da dire, ma ancor più da negare, per molti, questa attrazione fatale. Un dualismo sentimentale che aspettava il sistema linguistico per definirsi e confrontarsi. In tempi cupi, che un film e un autore come Moretti interpretano con sensibilità e intelligenza, il vedere emergere sentimenti penosi che speravamo di vedere estinti appare forse male minore che sentirli sibilare sinistramente come spifferi rancorosi di coscienza infelice. La foto sotto, del cinema di Moretti con la scritta pro Stalin sul muro, è sotto questo profilo, illuminante. Il dibattito sì, per carità. Il dibattito sì. Il sonno del dibattito genera mostri.