Lo scorso 24 maggio la scrittrice Paola Mastrocola, insegnante di lettere per più di trent’anni nei licei e autrice di saggi su questioni educative e scolastiche, ha pubblicato su La Stampa il provocatorio articolo “Quel desiderio di chattare con l’Intelligenza Artificiale e distruggere la scuola per sempre”.
Paola Mastrocola si riferisce alla chatgpt, casa madre l’organizzazione OpenAI, una chat così giovane da avere solo sei mesi di vita. La chatgpt utilizza una rete neurale artificiale per fornire risposte e produrre in tempi brevissimi testi di lunghezza e stile conformi alle richieste. Su qualsiasi argomento, e anche con indicazioni su come corredare il testo con immagini. Strumento decisamente facile da usare, dai risultati stupefacenti, gratuito nella soddisfacente versione 3.5, adatta a chiunque. La chatgpt appare ben felice di emendare le sue risposte secondo le precisazioni successive dell’utente.
Insomma, come usa dire il mio amico matematico Maurizio Parton, esperto di intelligenza artificiale, la chatgpt è in sostanza “un amico tuttologo che è sempre disponibile a chiacchierare con te”. Il desiderio di chattare con tale disponibilissimo e simpatico amico, dalle conoscenze formidabili in ogni campo e apparentemente sempre puntuale ed esauriente nelle risposte, non può che essere in continua crescita tra studenti, insegnanti, educatori. Inoltre, sia per i compiti assegnati agli studenti che per la preparazione di lezioni e materiale a uso degli insegnanti, l’integrare i mezzi tradizionali con la chatgpt consente di realizzare un risparmio di tempo notevolissimo.
Ma allora perché Paola Mastrocola accosta tale naturale desiderio di chattare con il nostro amico chatgpt a quello, invece orribile, di distruggere la scuola per sempre?
L’interrogativo si inserisce in un contesto di dubbi e domande di portata ben più ampia, andando oltre il tema della chatgpt e insegnamento. Dubbi che investono l’intera intelligenza artificiale, e rimandano alle componenti più inquietanti della classica fantascienza. È del 29 maggio scorso l’articolo “Ci preoccupiamo troppo o troppo poco dell’intelligenza artificiale?” di Annamaria Testa, uno dei quattro che l’affermata giornalista ed esperta di comunicazione sta scrivendo per l’Internazionale. Una documentata ricostruzione storica dei timori sulla possibile perdita di controllo del crescente potere dell’intelligenza artificiale. I conseguenti rischi non riguarderebbero solo l’informazione e la comunicazione, ma anche l’economia, la democrazia, i diritti umani.
E riguardo alla chatgpt e l’insegnamento, è fin da ora evidente la domanda posta da Paola Mastrocola: l’intelligenza artificiale non rischia di alimentare le carenze, purtroppo attuali, della funzione formativa della scuola e di educazione al pensiero critico?
Personalmente non penso che la chatgpt potrà mai validamente sostituire un bravo insegnante. Penso invece che gli insegnanti debbano non solo conoscere la chatgpt, ma imparare a usarla al meglio insieme ai loro studenti, e perché no anche a divertirsi nell’apprenderne le potenzialità. Valorizzandone i non pochi aspetti che hanno certamente una qualche funzione formativa. Per esempio, l’allenarsi nel dare le necessarie istruzioni e a formulare le richieste alla chatgpt, quelle che con termine tecnico si chiamano i prompt. Poi il leggere con spirito critico quanto inizialmente prodotto dalla chatgpt, come chiedere di emendarlo, di aggiungere altre informazioni. Infine verificare che quanto ottenuto dalla chatgpt sia valido, libero da errori, ovvero ancora con termine tecnico, libero da allucinazioni.
Senza dimenticare, ed è importantissimo, la fondamentale funzione dell’insegnamento. Che è, non solo per ragioni etimologiche, il lasciare un segno. Lasciare un segno nell’irrepetibile e indimenticabile processo della formazione. Con tutti i mezzi che sono antichi come l’insegnamento: la passione, la capacità comunicativa, l’esempio, l’umanità, l’attenzione. Nulla che sia in conflitto con la chatgpt.
Poche settimane fa, il centenario della nascita di don Lorenzo Milani ha dato l’occasione di riflettere sulla sua eredità. La testimonianza di un insegnante che ha lasciato un segno non solo nei suoi ragazzi di Barbiana, ma anche nei tempi della sua breve vita, e ben oltre di essi. Don Lorenzo Milani non aveva accesso a un mezzo potente come la chatgpt, e nemmeno ai suoi più antichi antenati. Ma disponeva di un altro mezzo ancora più potente, e volle chiamare questo mezzo con le parole “I care”. Parole che sono divenute il motto della sua scuola: “I care”, ovvero mi stanno a cuore la mia scuola, i miei studenti. Anche qui, nulla è in contrasto con la chatgpt. Ma sarebbe una grande cosa se le parole “I care” di don Milani fossero nei fatti presenti in tutti coloro che operano nell’insegnamento.
Per finire, vorrei rivelare un piccolo segreto. Solo a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fino qui. Ho scritto queste righe con il mio solito metodo: cercando prima di raccogliere qualche idea, di confrontarmi con qualcuno, poi di buttare giù una bozza, rileggere, aggiungere, … Quando ho finito di scrivere, ho pensato di chiedere alla chatgpt un testo sullo stesso argomento e della stessa lunghezza del mio. Ho usato come prompt gli elementi già presenti nel mio testo: il ruolo della chatgpt nell’insegnamento, la possibilità della chatgpt di sostituirsi in futuro agli insegnanti, gli aspetti formativi e i limiti del complessivo valore formativo della chatgpt nell’insegnamento, infine l’eredità di don Lorenzo Milani e il suo motto “I care”.
Ho avuto dalla chatgpt molto rapidamente un testo, in meno di un centesimo del tempo che avevo impiegato per scrivere il mio articolo. Ho chiesto alla chatgpt qualche aggiunta, qualche precisazione. Poi ho dovuto scegliere tra due testi: il mio e quello della chatgpt. Non solo non ho avuto dubbi, ma a questo mio testo originario non ho aggiunto nulla di quanto suggerito dal testo della chatgpt.
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