Arriva l’estate e si moltiplicano le iniziative. A Bologna inizia come ogni anno il Festival del Cinema Ritrovato, apertura anticipata dalla mostra “Il ratto del fanciullo” sui temi dell’ultimo film di Marco Bellocchio (ne parlo nell’altro articolo).
Per il secondo anno Roma e Parigi si guardano in due manifestazioni speculari e contemporanee: “DOLCEVITA SUR SEINE” e NOUVELLE VAGUE SUL TEVERE” fra l’8 e il 12 luglio. Sulle Rive della Senna a Parigi; sull’Isola Tiberina a Roma. Due manifestazioni che saranno molto più estese: comprenderanno esposizioni al chiuso e all’aperto con retrospettive che impegneranno a Roma anche la Casa del Cinema a Villa Borghese e probabilmente altri siti. Verrà inaugurato anche un nuovo premio cinematografico italo francese.
Al momento in cui scrivo non sono stati resi pubblici i programmi, solo il bellissimo link francese per chi vorrà rimanere connesso. Si sa solo chi è “l’Indomabile” nel cui nome si svolgerà la manifestazione di Parigi.
È un anno d’oro per Claudia Cardinale, da tempo parigina di adozione. Protagonista (quasi) assoluta dell’ultimo libro di Francesco Piccolo (“La bella confusione”), dedicato a un anno magico del nostro cinema, oltre che di Claudia: il 1964. L’anno in cui i film italiani vinsero tutti i festival del mondo, che non erano centinaia come adesso, ma otto o dieci, quasi tutti in Europa. A “Otto e mezzo”, che vinse Oscar e Festival di Mosca, a “Il Gattopardo” (Palma d’oro a Cannes), a quegli anni e alla comune interprete di questi due capolavori e non solo è dedicato il libro di Piccolo. Suo è l’onore del manifesto di questa DOLCEVITA A SUR SEINE, nel Parco delle Rive della Senna.
Anticipiamo le due rassegne pubblicando una nota su uno dei film che fecero parte l’anno scorso, di NOUVELLE VAGUE SUL TEVERE.
Particolarmente simbolico perché ambientato a Parigi il giorno del Solstizio d’estate del 1961. Due anni prima di “Otto e mezzo” e “Il Gattopardo”. Due anni dopo i due capostipiti di quel movimento: “Fino all’ultimo respiro” e “I quattrocento colpi”. Oggi, dopo l’Oscar alla carriera, tutti riconoscono il magistero di Agnès Varda, scomparsa tre anni fa. Non c’è modo migliore, crediamo, di celebrare l’estate, la piccola (nel senso di minuta) maestra francese (qui ritratta con il marito Jacques Demy e Catherine Deneuve sul set di “Les Demoiselles de Rochefort”), il 1961 e quegli anni che continuano a riflettersi ad ogni estate sulle acque della Senna e del Tevere.
ESTATE 1961
Giugno 1961, Parigi. Sono le cinque del pomeriggio nello studio di una cartomante. Una bella ragazza bionda, cantante di successo (trent’anni dopo, questo soggetto interesserà a lungo Madonna, ma non se ne farà niente), cerca ansiosamente nei tarocchi buoni auspici. Fra due ore ha appuntamento con un medico della Salpetrière che dovrà darle l’esito, positivo o negativo, di un esame di quelli in cui “positivo” significa cancro. La cartoaruspice è desolata: le carte non offrono che un seguito di “appesi” e scheletri. Nessun appiglio per un vaticinio non disperato. (Naturalmente lo spettatore più cinico è libero di immaginare che, avuto l’esito dell’esame, la ragazza torni da quella parodia di fattucchiera per dare fuoco allo studio, come apertura di un possibile sequel: “Cléo de sept à neuf”).
È l’inizio a colori, dieci anni dopo la spettacolare sperimentazione del technicolor nella “Carrozza d’oro” di Renoir, di “Cléo dalle 5 alle 7” di Agnes Varda. Oscurato allora da esordi ben più clamorosi (“Fino all’ultimo respiro”, “I 400 colpi”, “Hiroshima, mon amour”), il piccolo film dell’unica regista donna di quel gruppo di giovani turchi della critica cinematografica francese passò senza fissarsi particolarmente nel nostro ricordo, a lungo considerato una cosina per “felici pochi”. Film e autrice avranno la loro rivincita: “Cléo” è oggi un capolavoro riconosciuto. Più di cinquant’anni dopo, nel 2018, un Oscar alla carriera avrebbe onorato il magistero della sua intrepida autrice, prima donna nella storia del premio. Date un’occhiata all’incredibile manifesto e ai nomi che vi appaiono, con i giudizi di allora. Riuscite a immaginare un film che possa vantare oggi per il lancio un “parterre de rois” del genere?
Girato in tempo reale (un’ora e mezzo la storia, un’ora e mezzo il film, orologio al polso), questo suo primo lungometraggio è il classico film senza storia, l’unico impegno dei personaggi essendo quello di far passare il tempo fino alle 18,30, quando, con mezz’ora di anticipo, Cléo incontrerà il medico con cui ha appuntamento. Per un’ora e mezza seguiamo Corinne Marchand lungo il percorso che trovate qui sotto, in una Parigi stupenda, attraverso incontri con amiche, tassiste (un’altra Marchand, sorella minore di Corinne), musicisti (fra cui Michel Legrand, nella parte di se stesso, che la accompagna nell’esecuzione di “Sans toi”, parole della stessa Varda, in una sessione di prove a casa sua), per boutiques, caffè, ateliers di pittori. In uno di questi una modella di bellezza offensiva (Dorothée Blank) posa, a pieno titolo, da statua greca. In una cabina di proiezione Cléo assisterà a un buffo film muto con i giovanissimi Jean Luc Godard, Anna Karina e Jean Claude Brialy, “Les Fiancés du pont Macdonald”.
Un militare in licenza dalla guerra d’Algeria e in partenza per ritornarci, sarà l’ultimo incontro di quell’ora e mezza. Anche lui, nel parco di Montsouris, sta facendo passare il tempo verso un’ora malaugurata. “Donner ma vie à la guerre, ça me désole”, dice il meschino, cercando di consolarla come può, cioè poco: “Avec moi, vous auriez toujours peur”. La accompagnerà all’appuntamento, inaugurando un’amicizia probabilmente senza sviluppi. Fra l’altro lei ha un maturo amante, abbastanza insopportabile: il successivamente felliniano Josè Luis de Villalonga.
Tutto questo in lunghi piani sequenza (un bianco e nero da urlo, dopo la sequenza iniziale) a seguire, precedere o affiancare la nostra eroina per le strade della Ville-Lumière o negli interni, ampi e tutti profondità di campo, dove è magari il gatto più matto del mondo a condurre a spasso l’occhio per l’inquadratura.
Cléo è una ragazza viziata, a tratti anche poco simpatica, ma ci entra nel cuore non tanto e non solo per la facile empatia che suscita la sua attesa, ma al di là degli scatti di nervosismo o dei comprensibili momenti di disperazione proprio per la sua irriducibilità a un pensiero di morte. I due forse morituri (FORSE, intanto siamo qui!), la cantante e il soldato, sono personaggi di un teatro antichissimo: quello di una giovinezza che non riesce proprio a pensarla la morte e la vive come commedia perché è l’unico modo in cui riesce a concepirla.
“Cléo” è un film, davvero femminile, sulla bellezza e sulla generazione che in quegli anni si affacciava alla vita. Così sarebbe stato il cinema di quelle “ondate” che avrebbero portato l’esser giovani al sommo di ogni fantasia e aspirazione artistica.
L’esito dell’esame di Cléo, il racconto non lo dice ma lo lascia immaginare. Dai toni sbrigativi del medico, che neanche scende dalla decappottabile, limitandosi a dare un nuovo appuntamento per l’inizio di una cura. Responso sibillino, ma Cléo ne è ugualmente sollevata. C’è ancora una bella luce. “È il solstizio d’estate”, osserva il soldato.
Era il 21 giugno del 1961. Iniziava l’estate del nostro scontento. Ma avevamo la luna.