Il decreto legge sul prelievo fiscale sui profitti delle banche è talmente pervaso da errori – economici, giuridici e politici – che per descriverli tutti occorrerebbe un trattato. Poiché ciò non è possibile in questa sede, mi limiterò a fare qualche sintetico cenno.
1) Il prelievo non è un’imposta. Le imposte – anche straordinarie o temporanee – non sono mai retroattive, ma producono effetti per il futuro. Si tratta semplicemente di un prelievo forzoso. Servono soldi, e il governo li va a prendere dove sa che ci sono. Tra l’altro – attesa l’entità dell’aliquota – è un prelievo con chiara finalità espropriativa, contrastante con la nostra Costituzione.
2) Il prelievo viola le leggi del mercato, come già le hanno violate i due analoghi prelievi sui profitti delle società petrolifere, che attualmente sono all’esame della Consulta. Chi intraprende mira alla massimizzazione del profitto. Se (cattivi) esempi come questi mostrano che un governo – lungi dal promuovere condizioni perequative con gli ordinari strumenti di politica economica di cui istituzionalmente dispone – si sente autorizzato ad “entrare a gamba tesa” nelle dinamiche economiche che determinano la formazione e la ripartizione del profitto, lo spirito imprenditoriale potrà risultarne frustrato ed anche la fiducia degli investitori internazionali nel nostro Paese inevitabilmente calerà. Il prelievo sui prodotti petroliferi è stato il casus dell’uscita della ExxonMobil da questo mercato in Italia, dopo che altri colossi a livello mondiale (Shell, Total, etc.) già lo avevano lasciato. La conseguenza? Senza questi operatori l’Italia resterà priva – o comunque assai carente – di adeguata tecnologia, per la quale le imprese nazionali saranno costrette a dipendere sempre più dall’estero.
Qualcosa di simile potrebbe accadere anche per la finanza: se sui mercati internazionali persisterà la sfiducia degli operatori che quest’ultimo provvedimento ha generato, il rischio più immediato sarà quello della sottoscrizione inferiore alle attese dei titoli del debito pubblico italiano che vengono via via emessi per rimborsare quelli in scadenza, con grave deterioramento delle capacità finanziarie del Paese e con sicuro pregiudizio della Nazione, fatta di ricchi (che sopportano meglio) e di poveri ( che sopportano peggio, o non sopportano affatto).
3) Bene. Poniamo pure – per assurdo – che un governo abbia una legittima potestà d’imperio che gli consenta di mettere le mani nelle tasche di chi guadagna “troppo”, dato e non concesso che esistano meccanismi scientificamente attendibili per determinare la “normalità” di un profitto. Ma se, invece di guadagnare, quelle determinate imprese avessero perduto, e perduto molto, quale governo si sarebbe arrischiato a dar loro un aiuto di Stato? E con quale diritto? I settori economici sono esposti a cicli e ai correlativi rischi. Non si può pretendere di prelevare “extraprofitti” quando le cose vanno bene, senza accordare misure di sostegno quando dovessero andar male. Tuttavia simili interventi “dirigistici” degli Stati sulle imprese – in tutte le direzioni – non solo falsano in modo inammissibile la concorrenza, ma violentano profondamente le regole dell’economia di mercato, che non possono venire impunemente conculcate da nessuno, fossero pure gli Stati (come la U.E. non manca di ricordare ad ogni piè sospinto).
4) E poi, il testo del decreto: questo contiene o non contiene il tetto al prelievo dello 0.1% che il ministro delle Finanze si è inventato il giorno successivo alla riunione del Consiglio dei ministri per temperare il crollo dei titoli bancari sul mercato borsistico? Ai posteri l’ardua sentenza. Se tuttavia il tetto fosse stato inserito nel testo successivamente e surrettiziamente, in assenza di una nuova riunione del Consiglio, ciò comporterebbe una grave violazione costituzionale e invaliderebbe il decreto legge.
5) Senza contare che è ben strano che un provvedimento di tanta importanza sia stato illustrato non dal Presidente del Consiglio, né dal ministro dell’Economia e delle Finanze (che alla conferenza stampa era addirittura assente), bensì dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, le cui competenze funzionali con gli indirizzi di politica economica e con le misure finanziarie c’entrano come i proverbiali “cavoli a merenda”.
6) Quali le conseguenze sulle banche? Ben poche, direi. Esse sposteranno l’onore del “maltolto” sui clienti, mediante aumento dei tassi e delle commissioni, generando così un ulteriore aumento dei costi dei servizi creditizi, e quindi dell’inflazione. Altro che “rubare ai ricchi per dare ai poveri” (Robin Hood). Intanto “rubare” indica sempre un furto, come quello che fece il governo Amato molti anni fa quando prelevò una percentuale delle giacenze sui conti correnti degli italiani; e poi, con una simile traslazione dell’onore sugli utenti, il “dare ai poveri” sarebbe tutto da verificare.
7) Dunque, quale la ratio di un simile pateracchio? Un intento punitivo verso le banche, che per vero se lo sarebbero anche meritato avendo, nei mesi scorsi, dimostrato – per la maggior parte – tutta la loro ingordigia di guadagno soprattutto con il mancato allineamento degli interessi – per esse – passivi a quelli attivi sui depositi dei clienti. Ma l’azione di governo non può essere alimentata dalla stizza: occorre equilibrio! Vien da pensare che questo governo abbia inteso competere in demagogia con i pentastellati, i quali – connotati anch’essi da un’improvvida impreparazione in materia economica – reclamavano a gran voce, da tempo non sospetto, un analogo provvedimento. Ma risulta obiettivamente difficile credere che chiunque, dico chiunque, giochi cinicamente con i soldi e con le sorti di cittadini ed imprese. E allora resta l’ipotesi della revanche della “destra sociale”, nemica del denaro e dei profitti che non sono generati dal lavoro, dall’intelligenza e dalla fatica dell’uomo, bensì dal capitale, specie considerato che il grande capitale – industriale e finanziario – ha sempre avuto un rapporto privilegiato, almeno in periodo repubblicano, con la sinistra. Se è questa l’origine ideologica della misura, ebbene non ha nulla di sociale. È sociale ciò che aiuta i ceti più deboli, non ciò che mina le prospettive di sviluppo, di creazione di produzione e di lavoro e di erogazione del credito, che tosto o tardi finisce col ridondare a discapito proprio dei ceti più deboli. Non rendersi conto che questa è l’inedita bile deriva a cui conducono iniziative – estemporanee e poco meditate, oltreché non concordate con i soggetti più direttamente interessati – di tal genere fa solo tornare alla memoria le grandi verità che, tra il serio e il faceto, aveva disvelato 35 anni orsono quel grande conoscitore dell’economia che è stato Carlo Maria Cipolla, nel suo “Saggio sulla stupidità umana”.
Foto di apertura: Marek Studzinski su Unsplash