Se non bastano 7 suicidi al mese a svegliare le coscienze, le prigioni italiane resteranno “un’anticamera dell’Inferno”, come le definisce Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, un sindacato di polizia penitenziaria.
L’anno scorso 84 detenuti si tolsero la vita, quest’anno quota 50 è stata superata all’inizio di settembre. Non sono numeri, ma storie drammatiche, come quelle di Azzurra e di Susan John, morte nello stesso giorno di agosto, alle Vallette di Torino.
Susan si è lasciata morire di fame e di sete, perché non le facevano vedere il figlioletto di tre anni; Azzurra si è impiccata. “Non ce la faccio più” aveva detto alla mamma nell’ultimo colloquio.
“Una telefonata in più, a volte può salvare una vita” dice Michele Nardi, seduto su una panchina di Piazza Cairoli, a due passi dal ministero della Giustizia. Il carcere l’ha conosciuto due volte, da magistrato e da imputato. E sa quanto siano importanti le telefonate, i colloqui con i familiari.
Quanto facciano male il silenzio, la solitudine, l’abbandono.
Con lui i rappresentanti di associazioni e movimenti che si battono per i diritti di chi vive in carcere. “Sbarre di zucchero”, “Antigone”, “Ristretti orizzonti”. Ai codici, alla politica, preferiscono i piccoli gesti, la testimonianza quotidiana.
Ci sono i militanti radicali e i Garanti delle persone private della libertà. Vogliono provare a fermare questa ecatombe silenziosa. Anche perché i detenuti – ricordano – si trovano sotto la custodia e la responsabilità dello Stato. Ma il ministro Carlo Nordio, solida fama di garantista, ha proposto finora solo di costruire nuovi penitenziari. Come se fosse solo un problema di spazi (che pure esiste) e non di qualità. Della vita, o della non-vita dietro le sbarre.
“Mai più una, o uno meno di meno”, è scritto su un grande striscione rosso. È il 16 settembre, ma potrebbe essere qualsiasi giorno dell’anno. Di fronte al massacro quotidiano, di diritti e di umanità, sembra vano citare ancora l’articolo della 27 della Costituzione. Eppure ricordiamolo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole che fanno a pugni con la realtà. “Non ci può essere una riforma della giustizia senza una riforma del carcere” avverte Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. “Il carcere – spiega – è una grande comunità, fatta di chi ci vive, e di chi ci lavora”. Non solo i detenuti, ma gli agenti e il personale. “Se stanno bene gli uni, stanno bene gli altri”. Bisogna però investire in più personale. Secondo Ciambriello servirebbero almeno cinquemila agenti e 500 educatori in più. Lo Stato invece spende troppo e male. “3 miliardi e 200 milioni l’anno solo per gli istituti penitenziari, contro i circa 6 miliardi per tutta la giustizia, civile e penale” osserva Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”. E si investe poco invece sulle pene alternative al carcere. “Lo Stato faccia il suo dovere per combattere il sovraffollamento e la violazione dei diritti umani fondamentali” conclude Bernardini.
Nell’attesa, bastano due parole. “Carceri fuorilegge”, scritto nero su bianco su uno striscione appeso di fronte al ministero della Giustizia.
Foto di apertura “Montefusco (AV), 2008, Graffiti di detenuti sugli infissi dell’ex carcere borbonico.” di Fiore S. Barbato licenza CC BY-SA 2.0.