Proprio oggi, quando in Europa tanto si parla di politica industriale, è bene tornare alle origini di questa vicenda: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.
In quel tornante europeo si alternano alla guida del portafoglio “Industria” dell’esecutivo comunitario due italiani, tra loro diversissimi. Il primo è Guido Colonna di Paliano, diplomatico di carriera, aristocratico, appartenente ad una delle più antiche famiglie della nobiltà italiana; l’altro è Altiero Spinelli, antifascista, storico protagonista di Ventotene e vera e propria incarnazione del federalismo europeo. Nonostante queste loro profonde diversità, sono due personalità accomunate da un tentativo che, a guardarlo oggi, appare profetico: delineare ed avviare una vera politica industriale europea. Lo fanno in un contesto molto specifico. Gli ultimi anni Sessanta segnano, infatti, il termine della Golden Age, il lunghissimo periodo di crescita europea iniziato negli anni del dopoguerra. I segni dell’esaurimento di fase sono chiarissimi. Ci sono crisi in settori tradizionali, come il tessile, che si trovano improvvisamente esposti ad una nuova concorrenza internazionale; ci sono ricadute territoriali evidenti, direttamente legate alle difficoltà economiche settoriali; c’è un’azione molto aggressiva delle imprese statunitensi, impegnate in una ‘campagna acquisti’ delle realtà europee tecnologicamente più promettenti (e, non a caso, sono gli anni del grandissimo successo del libro di Jean-Jacques Servan-Schreiber, intitolato, appunto, Le défi americain).
Di fronte a questo scenario, entrambi decidono di agire.
Il primo a farlo è Guido Colonna di Paliano con un Memorandum pubblicato nel 1970.
A rileggerlo oggi quel documento della Commissione – per molti versi il primo atto dell’amministrazione comunitaria dedicato alla politica industriale – appare di straordinaria attualità. Vi si ritrova il richiamo ad un indispensabile rafforzamento del tessuto industriale europeo, grazie ad un aumento delle dimensioni delle imprese ottenuto incentivando fusioni e promuovendo società di dimensione europea. C’è l’idea di una politica industriale “deliberatamente indirizzata al futuro”, in cui i fondi pubblici si sarebbero dovuti concentrare sui settori tecnologicamente avanzati. C’è un’attenzione all’“incastro (della politica industriale), con la politica regionale” per far sì che un’eccessiva concentrazione delle attività industriali non mettesse in pericolo lo spirito dello “sviluppo armonioso” del Trattato e si perseguisse una “riduzione delle disparità che ancora separano le persone sulla base dei gruppi sociali ed occupazionali, la regione o lo Stato di appartenenza”.
E, ancora, nel Memorandum Colonna sono significativi i richiami alla formazione, con l’idea di una Fondazione europea per il management, sviluppata in collaborazione con il sistema universitario europeo, e l’interessante rivalutazione dei profili umanistici, in un’ottica di loro “riconciliazione con le esigenze economiche”, un tratto che avrebbe potuto costituire una vera “vocazione” europea.
Ma non sono i soli elementi di straordinaria modernità della visione che sottendeva quel documento. Accanto ad essi c’è la valutazione positiva della partecipazione dei lavoratori nella individuazione degli obiettivi e nella gestione delle aziende, “nell’ottica di un contributo all’efficienza industriale”. Insieme alla crescente tensione verso le tematiche ambientali, ci si ritrova anche la preoccupazione per una “indipendenza tecnologica” messa in discussione dalle acquisizioni USA, che ha molti punti di contatto con l’attuale “sovranità strategica”.
Sono elementi che, grazie all’azione di Spinelli, si precisavano negli anni successivi. Le sue posizioni erano esplicitate in un discorso tenuto, nel 1972, a Venezia nel corso della conferenza “Industria e Società nella Comunità europea”, con cui l’uomo politico italiano rilanciava il tema nel dibattito pubblico europeo. Grazie alla sua azione rimanevano in scena in maniera ancor più incisiva temi come quello della sostenibilità, alla luce dei ‘pericoli’ dello sviluppo già allora posti sotto i riflettori da Aurelio Peccei e il Club di Roma, e si prefigurava l’esigenza di promuovere tecnologie non inquinanti. Nel suo discorso di apertura si introduceva, poi, il concetto della “qualità della vita”: dalla sicurezza sul lavoro alla congestione dei centri urbani, sino alla “democrazia industriale”. Ed era sempre lo ‘statista di Ventotene’ a precisare, con nettezza, il necessario ‘parallelismo’ tra l’avanzamento delle regioni più ricche e l’aumento dei trasferimenti di fondi a quelle più povere e ad anticipare, anche qui con sguardo veramente proiettato nel futuro, il bisogno di sostenere il mercato del capitale di rischio, aiutando con l’intervento pubblico il nascente segmento del venture capital. Così come era ancora lo Spinelli-Commissario europeo a porre in luce, in un successivo intervento, l’esigenza di contrastare le dipendenze europee in risposta all’“atmosfera di insicurezza nel settore della fornitura di materie prime”.
Di queste intuizioni non se ne fece nulla. Il contrasto tra le dichiarazioni politiche e la realtà fattuale fu evidente. A dichiarazioni di principio a sostegno della politica industriale come quelle del Summit di Parigi del 1972, faceva da contraltare una sostanziale paralisi, che era lo stesso Spinelli a denunciare, già nel 1974, in termini amaramente severi.
Altri problemi ed altre personalità dovevano, poco dopo, arrivare sulla scena europea. E per lungo tempo di politica industriale europea non si è più parlato in maniera così esplicita ed olistica.
Tanto è cambiato da allora e molte di quelle intuizioni sono oggi davanti a noi, quando ogni giorno si parla di “doppia transizione”, di “autonomia strategica”, di come rispondere a quella che si configura come una nuova “sfida americana”, delle forme per rendere compatibili lavoro e qualità della vita, di una politica industriale ‘larga’, che sia vero e proprio traino di altre politiche, a partire da quella della formazione.
Bene, quindi, ricordare proprio in questo passaggio quel contributo ‘italiano-europeo’. E tenerlo alto, come monito e stimolo, nei prossimi anni: quando una politica industriale europea – inevitabilmente, potrebbe dirsi – sarà sempre più una necessità.
Foto di apertura: Castello di Ventotene (municipio), lapide manifesto di Ventotene – da commons.wikimedia.org