“Il Dritto arrivò al posto convenuto e gli altri lo stavano aspettando già da un po’. C’erano tutt’e due: Gesubambino e Uora-uora. C’era tanto silenzio che dalla via si sentivano suonare gli orologi delle case: due colpi, bisognava sbrigarsi se non si voleva farsi cogliere dall’alba”. Inizia così uno dei racconti più “iconici” (letteralmente) della nostra letteratura del dopoguerra: una vera riserva di immagini per scrittori, poeti, cantautori e registi. A “Furto in una pasticceria” (1946), di Italo Calvino, Monicelli si sarebbe ispirato per “I soliti ignoti” (dove “Uora-uora” diventa “Ferribotte”, la pasticceria una banca – mancata clamorosamente – e una pentola di pasta e ceci prende il posto di crostate e bignè), ma un poco anche per “Guardie e ladri”, e già dall’apertura troviamo nomi e umori della Milano di Bianciardi e Jannacci, di Gaber e Fo, con i suoi Dritti e i suoi sgangherati “pali”. Altri ne troveremo, fino a Lucio Dalla e Nanni Moretti, perché in tanti hanno pescato da quel cesto, prendendo quello che gli serviva. Non so dire se la conoscesse, questa storia, il Dušan Makavejev di “Sweet movie”, ma mi piace pensarlo.
Il 15 ottobre di cento anni fa a Cuba, dove il padre dirigeva una stazione sperimentale italiana per la coltivazione della canna da zucchero, nasceva Italo Calvino. Molte manifestazioni lo ricordano in questi giorni, a partire da “Favoloso Calvino” – titolo dell’articolo di Gore Vidal pubblicato sulla New York Review of Books del 1974, in merito a “Le città invisibili” – la grande mostra inaugurata nei giorni scorsi a Roma alle Scuderie del Qurinale. Anche l’attico che era stato suo in Campo Marzio, restaurato in tre anni e oggi di proprietà di Thom Yorke (Radiohead) e Dajana Roncione, è ora oggetto di rivisitazione culturale. Il cinema contribuisce per ora con il restauro (a cura della Cineteca Nazionale) e la riproposizione, nell’ambito di “Alice nella Città” (“Festa del Cinema” di Roma, pomposamente ribattezzata “Rome Film Fest”), del “Cavaliere inesistente” di Pino Zac, unica traduzione in immagini di un suo romanzo. Riedizioni, recuperi e restauri a cui non mancheranno di aggiungersi probabilmente le iniziative delle altre città della sua vita: da Parigi a Sanremo, dalla Torino degli anni Einaudi, alla Castiglione della Pescaia delle vacanze in Maremma.
“Non vedo nessuno scrittore europeo più degno di lui del Nobel”, diceva Franco Fortini dopo “Le città invisibili”, il più misterioso e affascinante dei suoi capolavori. Pensando a lui Daniele Del Giudice, il più bravo e sfortunato dei suoi allievi, avrebbe raffigurato un anziano e scontroso scrittore in attesa del Nobel nella Ginevra di “Atlante occidentale”: unico letterato tra i fisici di quell’anello di accelerazione nucleare che corre sotto il castello di Voltaire, tra Francia (Ferney) e Svizzera (Meyrin). Figlio di un agronomo e di una biologa, fratello di un geologo – ricordato in questi giorni per la perizia che evidenziò l’errore umano nella frana del Vajont – Calvino si considerava scherzosamente, in quanto scrittore, la “pecora nera” della famiglia, ma è stato il primo fra i contemporanei a perseguire convintamente la fusione fra i linguaggi letterario e scientifico con la formidabile invenzione delle “Cosmicomiche”. Per lui era Galileo il più grande di sempre dei nostri scrittori in prosa. Con Moravia è stato il narratore italiano di cui più si è parlato e profetizzato a proposito di Nobel. Di recente un giovane studioso, Lorenzo Marchese, esercitandosi su di lui in quel gioco (ucronìa) del “facciamo finta che” in cui si era prodotto Dominique Noguez su Rimbaud – immaginando il poeta dalle suole di vento ripreso per i capelli dai medici a Marsiglia e invecchiato oltre il mito – lo aveva raffigurato settantaquattrenne, vincitore finalmente del più prestigioso dei premi letterari, rifiutarlo come aveva fatto Sartre nel ‘64 (v. “Fata Morgana”) .
Ma qui dissento vibratamente. Non era proprio il tipo, Calvino. Fra l’altro, non è neanche che gli fosse particolarmente simpatico Sartre; figurarsi se avrebbe mai potuto assumerlo come esempio per una scelta del genere. A quasi quarant’anni dalla morte, Calvino è ancora il più amato dei nostri scrittori, il più caro a tre generazioni di ventenni e di lettori. Un intellettuale in grado di onorare, nel comune sentire, quella qualifica così discussa, sottoposta a continue verifiche e frequenti ripulse.
Ma “Furto in una pasticceria” (che nei titoli dei “Soliti ignoti” non è nemmeno citato) è anche l’esempio più efficace dell’”amore difficile” fra il cinema e l’universo letterario di Calvino, che fu critico cinematografico all’Unità e di cinema scrisse a più riprese, su “Cinema nuovo” e altrove, pur senza identificarsi più di tanto – Fellini a parte – con il cinema italiano del suo tempo. Neorealismo compreso. ”Autobiografia di uno spettatore”, la lunga prefazione all’edizione Einaudi di quattro sceneggiature di Fellini, è lo scritto più organico sulle sue predilezioni, prima fra tutte quella per i classici americani e francesi; lo si trova oggi in “La strada di San Giovanni”.
Molte e obiettive le difficoltà che si incontrano a tradurre in immagini il suo universo fantastico: spunti ed echi tanto numerosi quanto disorganizzati sono quelli che se ne rintracciano qua e là. A tutt’oggi l’unica versione cinematografica di un suo romanzo rimane il citato “Il cavaliere inesistente”, scritto dal regista con Tommaso Chiaretti. Un film a tecnica mista, cartoni animati e attori (Zac – all’anagrafe Zaccaria – uno dei fondatori del “Male”, era un importante fumettista e cartoonist), via italiana ad un modello allora d’avanguardia, prodotto della scuola di animazione cecoslovacca. Molti sono i tecnici di quella scuola che vi hanno collaborato.
“Era un’epoca in cui la volontà di esserci, di essere diversi, di avere un rapporto personale con le cose, non veniva usata interamente e dunque una certa quantità poteva andarsene persa nel vuoto. Poteva darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé così diluita si condensasse e si imbattesse in un nome, in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti, oppure in un’armatura vuota.” (Italo Calvino. “Il cavaliere inesistente”)
Giusta e puntuale, l’iniziativa della Cineteca Nazionale di restaurare questo film ormai datato è probabilmente destinata a rendere ancora più evidente la difficoltà di comunicazione fra il mondo dei capolavori calviniani e il cinema. Il più bello e metafisico dei tre racconti araldici che compongono la trilogia dei “Nostri antenati” diventa nella versione filmata una parodia – fedele al libro nell’intreccio, non nello spirito (osserva giustamente Paolo Mereghetti) – del Medioevo cavalleresco. L’inumana perfezione del cavaliere nella cui armatura si condensa la parte più pura e inespressa della volontà e della coscienza di sé degli uomini – i quali, si sa, fanno come gli antichi del classico detto romano: della vita “mangiano la buccia e buttano li fichi” – diventa saccenteria burocratica. La perfezione di Agilulfo non è che identificazione con il canone e la legge, la sua infallibilità una questione di calcoli e radici quadrate e l’affascinante cavaliere un robotico so-tutto-io di latta e chiodi della cui fastidiosa e servile perfezione solo una stupida potrebbe innamorarsi, non certo la Bradamante di Ariosto e Calvino. Nel suo viaggio alla ricerca di Sofronia, Torrismondo e il cavaliere incontrano, nella solita sinfonia di dialetti e accenti da puntata dei Simpson, Cristoforo Colombo con le sue caravelle, un Beethoven naturalmente sordo che fa “no no no no” con la testa, un Napoleone che parla come Mussolini, i Cavalieri del Sacro Graal (qui del Walhalla) con la svastica sull’elmo (alcuni con il fascio littorio). Si cita Monsignor Della Casa, il cui Galateo il Cavaliere conosce e insegna; la strega di Biancaneve offre una mela avvelenata a Bradamante, e così via. Come dire: la parte più deperibile e goliardica del nostro ’68, più ancora che lo spirito de “Il male” (che si vede nelle parti migliori).
Anche l’arte dei maestri dell’animazione ceca che hanno collaborato rischia di trovare maggiore sintonia con i settantenni di oggi che con I loro nipoti. Piaceranno probabilmente ancora (e sarà bello) il bonario Carlo Magno simpaticamente svanito e il corporale Gurdulù, lo scudiero di Agilulfo, tanto privo di coscienza di sé quanto ne è denso il suo cavaliere.
Fra le sezioni che compongono uno dei libri più belli del nostro Novecento (Italo Calvino, “I racconti”) quella che ha fornito i maggiori spunti a sceneggiatori e registi è “Gli amori difficili”, con le sue tredici “avventure”, grazie alle possibilità offerte dalla televisione e da un genere cinematografico in voga negli anni 60 e 70, quello del film a episodi. Qui troviamo ancora Monicelli con “Renzo e Luciana” (dall’”Avventura di due sposi”), primo episodio di “Boccaccio 70”, Nino Manfredi, in un felice esordio da regista, con “L’avventura di un soldato” (episodio di “L’amore difficile”) – scritto con Fabio Carpi e Ettore Scola – e Francesco Maselli con “L’avventura di un fotografo”, per la serie Rai “Dieci registi italiani, dieci racconti italiani” (introvabile in rete, salvo ripescaggi). Ma è proprio la Rai – che già aveva prodotto “Il cavaliere inesistente” – ad avere il merito dell’iniziativa più organica e interessante: la serie “Marcovaldo” (1970) di Giuseppe Bennati, scritta dal regista con Manlio Scarpelli (fratello di Furio) e Sandro Continenza. Sei episodi, rimasti nella memoria di tanti
(è il primo dei sei) anche grazie ai due protagonisti Nanni Loy e Didi Perego. Qualche anno dopo, nel 1972, il secondo canale della TV tedesca avrebbe offerto al bolognese Carlo di Carlo, a lungo collaboratore di Pasolini e di Antonioni, l’occasione di realizzare alcuni corti e mediometraggi sperimentali, di cui due tratti da Calvino: il bizzarro “L’avventura di un lettore”, con Felice Andreasi e Carla Tatò (forse il migliore di tutti, con quello di Manfredi) e il più impegnativo e un po’ astruso “L’inseguimento” (da “Ti con zero”), con Alessandro Haber bloccato in un ingorgo sulla panoramica romana che collega Piazzale Clodio e lo Zodiaco (l’attuale via Falcone e Borsellino), allora non ancora inaugurata, fra le sterpaglie di Monte Mario. Mai visti se non in piena notte – presentati da Claudio G. Fava quando non esisteva ancora “Fuori Orario” – si trovano in un fondo della Cineteca di Bologna, che auspicabilmente li rimetterà in circolo con gli altri dell’autore realizzati nello stesso contesto produttivo. Il primo, con due grandi Andreasi e Tatò è davvero incantevole. Per finire, “With thanks, admiration and apologies (scuse) to Italo Calvino” è la scritta che chiude “Palookaville”, dell’americano Alan Taylor, commedia un po’ in stile Coen – c’è anche Frances McDormand – che rielabora tre racconti anni ’40 della raccolta “Ultimo viene il corvo”: “Un letto di passaggio” e “Desiderio di novembre”, ma soprattutto, guarda un po’, “Furto in una pasticceria”, di cui costituisce anzi l’unica vera trasposizione cinematografica, ibridata con “I soliti ignoti” (l’obiettivo di quella sbolinata banda del buco, finita per errore in un laboratorio di dolciumi, era una gioielleria).
Il genere, di “Ultimo viene il corvo”, realistico ma distante dal contemporaneo neorealismo, Calvino l’avrebbe poi abbandonato per quella straordinaria araldica di visconti (dimezzati), di baroni (rampanti), di cavalieri (inesistenti) e in genere per le fiabe, il “conte philosophique” e la sperimentazione cosmicomica e biocomica (“Ti con zero”). “Fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito (per “Il sentiero dei nidi di ragno”) e io, che fino ad allora non me ne ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava a essere segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio”. (I.C.) La seconda parte di “Ti con zero” si chiama Priscilla. Priscilla è una cellula (tipo particella di sodio della pubblicità, absit iniuria): nascita, riproduzione e morte di una cellula raccontata da lei stessa in tre capitoli: Mitosi, Meiosi, Morte. Sarà virtuosismo, sarà quel che volete, ma le poche pagine di “Morte”, la morte di Priscilla, sono un brano di una bellezza assoluta, meraviglioso, davvero da antologia. Su questa strada il cinema non lo avrebbe più seguito, ma non avrebbe neanche potuto.
Del resto è esattamente quello che lui voleva. Nel ’61, abbandonando la fase realistica dei “Racconti”, quella vena aurifera che aveva dato preziose, personalissime pepite come “La speculazione edilizia” o “La giornata di uno scrutatore”, aveva scritto di ritenerla in via di esaurimento. Anche in quanto strada già battuta dal cinema: “Ambienti, personaggi, situazioni che il cinema ha fatto propri non possono più essere accostati dalla letteratura: come se fossero rosi all’interno dalle termiti, appena gli s’avvicina la mano non ne resta che polvere”. Sentenza discutibile, ma è vero che anche di quei materiali teoricamente più fruibili il cinema non è che avesse – né avrebbe in futuro – saputo fare granché tesoro. Figuriamoci dei successivi. Molto diversa si sarebbe rivelata l’influenza nel cinema della riflessione teorica di Calvino, dai bellissimi saggi anni 50 e 60 di “Una pietra sopra” alle prime considerazioni sul digitale, alla produzione giornalistica (mai casuale): quel patrimonio limpidamente filtrato nell’ultimo capolavoro incompiuto delle “Lezioni americane”. Un’influenza che sentiamo oggi scorrere, “come acqua sotto foglie cadute” (A. Bertolucci) in film diversissimi e lontani: “Oppenheimer”, “Io capitano” o il finale del “Sol dell’avvenire” di Nanni Moretti. Vedeva lontano lo sguardo di quel ritratto, di Carlo Levi, da cui siamo partiti.
Il futuro ha un cuore antico.