La recente pubblicazione dai dati relativi ai suicidi in carcere nel 2023 e nel mese di gennaio del 2024 offre lo spunto per alcune brevi riflessioni da condividere, non soltanto tra gli operatori del sistema carcerario, ma tra tutte le persone che mostrano attenzione ai problemi del nostro sistema penitenziario. E ciò – va subito chiarito – senza alcuna pretesa di esaustività.
Preliminarmente, occorre osservare che, nelle carceri italiane, i detenuti si tolgono la vita con una frequenza maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti di pena dove le condizioni di vita sono peggiori e, quindi, in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali e con una scarsa presenza del volontariato.
Nel 2023, rispetto al 2022, c’era stato un calo dei suicidi, perché si era passati da 85 casi a circa 60 casi. Con il 2024 la situazione è, invece, precipitata perché in un solo mese i suicidi sono stati circa 20. Un brutto campanello d’allarme che non può venire trascurato.
Peraltro, la tendenza al sovraffollamento delle carceri senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da anni, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti.
Alla fine del 2022, la popolazione detenuta era aumentata di circa 2.000 unità rispetto al mese di dicembre del 2021. L’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4.000 persone detenute in più. Negli ultimi tre mesi (dal 14 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024) l’aumento è stato di 1.196 presenze, quindi, quasi 400 al mese. Il sovraffollamento è cronico ed in costante crescita. L’indice attuale dell’affollamento delle carceri italiane, alla data del 14 gennaio 2024, era del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili.
La criticità della densità della popolazione detenuta è aggravata dalla modalità con cui viene attuata la nuova disciplina della detenzione della media sicurezza, per la quale se le persone non sono impegnate in attività restano chiuse nelle camere di pernottamento. La carenza di attività – riscontrabile, purtroppo, in modo diffuso nel nostro sistema penitenziario – determina la permanenza dei detenuti nel chiuso delle celle. Su quest’ultimo punto, giova ricordare la sentenza emessa l’8 gennaio 2013, quindi, 11 anni orsono, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo nel caso Torreggiani ed altri contro l’Italia. L’Italia è stata condannata per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) a causa delle condizioni di detenzione subite da sette detenuti a Busto Arsizio ed a Piacenza. La Corte ha ritenuto che i ricorrenti non avevano goduto di uno spazio vitale conforme ai criteri considerati accettabili: quattro metri quadrati in base alle raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti.
La Corte, nella medesima sentenza, ha osservato anche che la grave mancanza di spazio di cui hanno sofferto i detenuti per periodi compresi tra i 14 e i 54 mesi, che rappresentava, di per sé, un trattamento che contravveniva alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), sembrava essere stato aggravato da altri trattamenti che gli interessati avevano denunciato: la mancanza di acqua calda in entrambi gli stabilimenti per lunghi periodi, così come la mancanza di luce e di luce e ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, avevano prodotto ulteriori sofferenze.
Per tali ragioni, la Corte aveva ritenuto che le condizioni di detenzione in questione, anche tenendo conto della durata della detenzione, avevano sottoposto gli interessati a una prova talmente intensa da superare l’inevitabile livello di sofferenza insito nella detenzione.
Di recente, si è riparlato anche della possibilità di costruire nuove carceri. Al riguardo, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha già segnalato che lo stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani non può attendere i tempi di progetti edilizi di diverso genere e non è colmato dalla realizzazione dei nuovi progetti inseriti dal precedente Governo nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), poiché essi potranno ospitare non più di 640 persone: una goccia rispetto all’eccedenza attuale di 13.000 detenuti rispetto ai posti disponibili. Si ha, purtroppo, la netta sensazione che non si vogliano affrontare i veri, reali problemi delle nostre carceri, e di conseguenza, dell’applicazione delle pene nel nostro paese, secondo le indicazioni – ed i suggerimenti – di chi da anni opera e si confronta quotidianamente su questi temi. In altri termini, che carcere vogliamo.
È facile – ma non basta – lamentare la mancanza di strutture e di risorse. Molte strutture sono fatiscenti e vanno sistemate con la massima urgenza. Il numero degli operatori è sicuramente insufficiente in tutti gli istituti di pena. È un dato di fatto che, se aumenta la popolazione carceraria, per mantenere i servizi essenziali – sanitari e socio-assistenziali – occorre adeguare strutture e risorse.
Gli auspicabili interventi su strutture e risorse non possono, né potranno bastare se non cambia, però, l’approccio culturale: prima di discutere della costruzione di altre carceri, è giunto il momento di affrontare di petto il tema della limitazione della carcerazione preventiva e quello di una maggiore applicazione di misure alternative alla detenzione in carcere (in primis, l’affidamento in prova al Servizio Sociale, nonché la detenzione domiciliare, la semilibertà, l’affidamento terapeutico, l’espulsione dal territorio dello stato per i cittadini stranieri). Ogni detenuto ha, pacificamente, diritto ad almeno quattro metri quadri. Ma è davvero questo il punto per prevenire il rischio suicidario? La mancanza di spazio è solamente uno dei fattori da considerare, di certo non l’unico, e neppure quello decisivo. Dentro le mura devono entrare i diritti. Non servono più spazi, ma più operatori/educatori.
È assodato che i problemi più difficili da affrontare e risolvere per prevenire il rischio suicidario sono anche altri:
- innanzi tutto la perdita di speranza di una vita migliore, sia in caso di lunga pena da scontare, che di uscita in tempi brevi dal carcere (in questo concetto – scriveva l’Associazione A Buon Diritto-Associazione per le libertà – c’è la spiegazione – semplice e palese – per la maggior parte dei suicidi che avvengono nelle carceri: si uccide chi conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità);
- la paura di non riuscire a reinserirsi nella società a fine pena;
- l’inattività prolungata (ovvero come riempire il tempo durante la detenzione);
- la mancanza o l’insufficienza – nella maggior parte degli istituti di pena – di occasioni di studio e/o di lavoro;
- la sensazione di abbandono da parte della comunità esterna;
- la scarsa comunicazione con gli educatori e, più in generale, l’assenza o la limitazione dei contatti con gli operatori.
In altri termini, manca completamente la prospettiva di riottenere la rispettabilità persa per chi, da recluso, attende il processo per mesi o per anni: anche se fosse assolto, non potrà più liberarsi dal marchio del sospetto.
Per chi sa di dover scontare molti anni manca la prospettiva di poter trascorrere utilmente la detenzione: in tante carceri, spesso proprio quelle dove sono più frequenti i suicidi, il tempo della pena è tempo vuoto, dissipato lentamente aspettando il fine pena.
Non c’è nessuna prospettiva di poter tornare a vivere normalmente, per chi è entrato e uscito troppe volte dal carcere e si sente condannato (anche tornato in libertà) ad una vita ai margini, di solitudine, di sofferenza fisica e psicologica. Occorre uno sforzo congiunto di tutte le professionalità operanti in ambito carcerario per individuare le strade percorribili per ridurre al minimo il rischio che un detenuto si uccida.
Il primo fronte è la tutela della dignità sociale delle persone incarcerate nell’attesa del processo. Oggi è sufficiente un avviso di garanzia, cioè l’avvertimento che ci sono delle indagini in corso, perché giornali e televisioni saccheggino la vita della persona indagata, fregandosene della presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva, che dovrebbe essere l’elemento fondante di tutti i sistemi giuridici moderni. Tutto ciò crea nel recluso uno stato d’ansia talmente insopportabile da indurre i soggetti più fragili al suicidio. Aggiungasi, tra le cause scatenanti la disperazione dei detenuti, anche l’assenza di momenti di affettività durante i colloqui con coniugi e conviventi. Peraltro, la stessa Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza n. 10/2024 del 6 dicembre 2023, depositata in data 26 gennaio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge o il convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
La prevenzione del rischio di suicidi in ambito carcerario è un obiettivo condiviso tanto dall’Amministrazione della Giustizia quanto dalla Sanità ai diversi livelli, per cui, in tutti gli istituti, non solo in alcuni, vanno applicate delle metodologie di lavoro che consentano e valorizzino il comune perseguimento degli obiettivi e l’integrazione delle reciproche competenze. In questa logica, appaiono fondamentali sia l’effettuazione di una rilevazione personalizzata – innanzitutto nel momento immediatamente successivo all’ingresso del detenuto nel carcere – dei fattori di rischio e di protezione, sia la predisposizione di interventi integrati di prevenzione, supporto e trattamento.
Al fine di attivare una rete di attenzione – la più possibile estesa e capillare – che consenta di rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva correlabili ad un rischio suicidario, operando conseguentemente quegli interventi ritenuti più opportuni per prevenire la degenerazione di tale rischio, è necessario coinvolgere tutti gli attori del sistema penitenziario e sanitario, ivi compresi i detenuti stessi. Come previsto dal Piano Regionale della Regione Lombardia per la Prevenzione del Rischio Suicidario, è indispensabile, quindi, prevedere, nell’ambito del Piano di ogni istituto di pena (c.d. Piano Locale), un modello di lavoro interdisciplinare tra le diverse aree di intervento – penitenziario e sanitario – definendo le specifiche competenze e gli snodi interprofessionali, per intercettare e trattare in modo coordinato, celere, adeguato e continuo, i momenti di criticità dei detenuti e le possibili situazioni potenzialmente stressanti.
Non dimentichiamo che già il quadro normativo vigente offre agli operatori uno strumento formidabile per intervenire nella vita dei detenuti, posto che – ai sensi dell’art. 15 della legge 26 luglio 1975 n. 354 – ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro. Anche gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica. Secondo l’art. 21 della stessa legge, i detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro all’esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’art. 15. L’assegnazione al lavoro all’esterno può essere disposta dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni.
Esistono, insomma, gli strumenti normativi per assegnare ai detenuti un lavoro all’interno o all’esterno dell’istituto, nel rispetto delle previsioni dell’art. 21 della legge sull’ordinamento penitenziario. I benefici, sotto ogni profilo, di questo trattamento sono ovvi e noti, e non solo ai detenuti. Ci si chiede per quale ragione non si riesca a farne ricorso in maggiore misura ed in un maggior numero di istituti penitenziari, nella convinzione che ciò ridurrebbe drasticamente anche il numero dei suicidi.
Il luogo di detenzione non è solo quello dove un individuo deve scontare la sua pena, ma un luogo dove – come ci insegna la Costituzione – bisogna predisporre tutti gli strumenti idonei per offrire, a chi ha sbagliato, nuove possibilità di reinserimento sociale, al fine di scongiurare che ritorni a delinquere e per tutelarne sempre la dignità e la salute psicofisica.
Foto di apertura di Tammy Cuff da Pixabay