La solitudine di Papa Francesco appare, mai come oggi, un dato su cui riflettere alla luce della situazione internazionale e interna al Vaticano. Dieci anni fa il pontefice cominciò – inascoltato – a lanciare ammonimenti sulla Terza Guerra mondiale già cominciata “a pezzetti”, dimostrando di avere una visione lucida delle relazioni internazionali e una libertà di linguaggio in controtendenza rispetto alle diplomazie o alle politiche degli stati nazionali. Da allora non ha smesso di sostenere con forza il progetto della pace, improntata innanzitutto all’appello a “far tacere le armi” che fa parte del patrimonio magistrale della Chiesa. Basti ricordare quando nel 1967 Paolo VI, in occasione della “guerra dei sei giorni”, pronunciò quelle stesse parole oggi ripetute da Bergoglio, con riferimento sia all’Ucraina che ai terribili fatti di Israele e della Striscia di Gaza. Non si tratta di richiami rituali, soprattutto se confrontati alle dichiarazioni belliciste degli Stati, a cominciare da quelli europei, che ai richiami alla pace o alla ricerca di negoziati hanno anteposto teorie e pratiche del conflitto.
C’è però un’altra solitudine di Papa Francesco, che non si manifesta nel suo richiamo profetico all’umanità, bensì nelle miserie umane che lo circondano proprio nel cuore della Cristianità, il Vaticano. La cerchia delle gerarchie è da tempo al centro di scandali sicuramente non degni della Città di Dio. Superattici pagati con soldi di opere benefiche, compravendite immobiliari disinvolte, speculazioni e finanziamenti scomparsi, hanno riempito le cronache provenienti da un mondo ovattato e protetto. Il denaro e il potere. Ma anche la sopraffazione e la carne. La pedofilia e gli abusi sessuali sono stati denunciati più volte da Francesco, anche perché negli ultimi anni sono cresciuti i richiami e gli allarmi provenienti dalle diocesi di tutto il mondo.
Mai però si sarebbe pensato che arrivassero a pochi metri da Santa Marta, la residenza del pontefice. Quando ancora a capo della Chiesa c’era Benedetto XVI, a Palazzo San Carlo, nelle stanze del Preseminario “San Pio X”, si è consumata (fino al 2012) una sconcertante vicenda che è riduttivo definire soltanto a sfondo sessuale. È la storia dei “chierichetti del Papa”, che ha visto protagonisti alcuni adolescenti, uno dei quali poi diventato sacerdote e ora condannato a due anni e sei mesi di reclusione dalla corte d’appello vaticana (mentre pende un procedimento penale in Italia). Da pochi giorni è uscito in libreria “Vizio Capitale”, edito da Paper First, che ho scritto per ricostruire quello che mi è apparso come una specie di viaggio all’inferno, dentro il Vaticano. È il racconto di una colpa più grave perfino del sesso, la copertura assicurata per anni dalle gerarchie, il nascondimento dei fatti, in base alla logica abusata di gettare la polvere sotto il tappeto e di limitarsi a trasferire chi è sospettato di comportamenti infamanti.
Lo scandalo sessuale era conosciuto da cardinali e vescovi, decine di lettere erano arrivate fino alla Segreteria di Stato e anche al Papa. La solitudine di Francesco si è misurata nel tentativo di governare una scoperta sconvolgente e un intervento tardivo, mentre l’apparato interno ha soffocato le richieste di aiuto di due ragazzi. Il primo, vittima di una corruzione di minore oggi riconosciuta, aveva denunciato la violenza sessuale. Ma su questo punto c’è stata, sia in primo che in secondo grado, l’assoluzione per insufficienza di prove. Un secondo ragazzo, testimone oculare, venne cacciato dopo aver raccontato ciò che aveva visto.
Lo scandalo più grande è nel silenzio e nell’omertà vaticana. Il Papa ha modificato le regole consentendo la celebrazione di un processo, poi ha impartito direttive per imporre regole più stringenti nella valutazione delle segnalazioni di abusi che arrivano ai vescovi e sacerdoti. Senza il suo intervento lo scandalo sarebbe stato insabbiato, come è avvenuto fino al 2017 quando fu una trasmissione televisiva a squarciarne il velo. Soltanto allora la Chiesa cominciò a fare quello che avrebbe dovuto fare molto tempo prima: indagare, ascoltare e capire. Le sentenze del 2012 in primo grado e del gennaio 2024 in appello hanno restituito soltanto una parte di verità e di giustizia a un ragazzino oggi trentenne, che era andato in Vaticano per fare il “chierichetto del Papa” e vi ha smarrito la propria innocenza.
Bergoglio qualche mese fa incontrato i referenti territoriali del Servizio nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili: “Nessun silenzio o occultamento può essere accettato in tema di abusi. Questa non è materia negoziabile”. Poi ha aggiunto: “E’ importante perseguire l’accertamento della verità e il ristabilimento della giustizia all’interno della comunità ecclesiale anche in quei casi in cui determinati comportamenti non siano considerati reati per la legge dello Stato, ma lo sono per la normativa canonica”. Basterà questo a rompere il silenzio che ha accompagnato troppe richieste di aiuto, quando sospettosi e prudentissimi uomini con l’abito sacerdotale hanno consigliato alle vittime, persuasivamente, di dimenticare tutto?
Foto di apertura di Coronel Gonorrea su Unsplash