«La fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri:
unita a lei è madre delle arti e origine delle meraviglie»
Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri
Robespierre era contrario alla pena di morte, contro la quale si espresse più volte finché, additando nella principale vittima sacrificale della rivoluzione, il simbolo dell’odiato antico regime, quel re di fatto ormai senza più regno, non ne chiese la condanna a morte.
L’esecuzione segnò il suo trionfo e aprì la via sanguinosa del terrore rivoluzionario, finché non ne fu anch’egli vittima. Alla pari del girondino Vergniaud, che aveva condiviso la decisione di uccidere Luigi XVI ed era caduto a sua volta sotto l’affilata lama di Robespierre pronunciando sul banco degli imputati la famosa frase «La rivoluzione è come Saturno, divora senza pietà i suoi figli».
Il 17 piovoso, anno II (5 febbraio 1794) – qualche mese prima di elevare a religione di Stato il culto dell’Essere Supremo e della sua morte -, tenendo il discorso Sui prìncipi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica, Robespierre affermerà:
«Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente.
Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria.
Si è detto da alcuni che il terrore era la forza del governo dispotico. Il vostro terrore rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della tirannia. Che il despota governi pure con il terrore i suoi sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il terrore i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della Repubblica.
Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia.»
La Germania nazista non ebbe una costituzione, pur non abolendo quella di Weimar del 1919, ma emanò leggi e decreti, tre dei quali (il Decreto del presidente del Reich per la protezione del Popolo e dello Stato, la Legge a rimedio dell’afflizione sofferta dal Popolo e dal Reich, detta «dei pieni poteri», che insieme alla Legge sull’alleanza dei funzionari e dei soldati delle forze armate, che prevedeva il giuramento al Führer e non più alla Costituzione) ne significarono di fatto l’abrogazione.
Il giurista tedesco Thomas Vormbaum in Diritto e nazionalsocialismo ha messo in evidenza come il diritto penale nazista avesse sovvertito i canoni fondamentali del diritto moderno essenzialmente sotto due profili: la sostituzione della visione oggettiva della tutela del bene giuridico, e del «principio di offensività» che ne discende, con una visione soggettiva che non considera il danno, o il pericolo, frutto della condotta perseguita, ma l’intenzione dell’autore, equiparandolo in termini sanzionatori al reato consumato; non valgono più le cautele imposte dal principio di legalità, e la locuzione nullum crimen sine lege viene così convertita nella più rigorosa nullum crimen sine poena.
La riforma del 1935 consentiva quindi, derogando al divieto di applicazione analogica delle leggi penali, di incriminare ogni comportamento meritevole di punizione «secondo l’idea fondamentale di una legge penale nonché secondo il sano sentimento popolare», con il fine non tanto di punire le infrazioni, ma di annientare i nemici della comunità popolare (Volksgemeinschaft) che hanno violato il patto sociale di fedeltà reciproca.
Robespierre, il 4 vendemmiaio, anno II (5 settembre 1793), giorno nel quale la Convenzione nazionale pone “il Terrore all’ordine del giorno”, nel sostenere l’inutilità dei processi contro i nemici della rivoluzione, proclama che «non c’è bisogno di fatti, basta che “la notorietà pubblica accusi un cittadino di aver commesso dei delitti… la cui prova è nel cuore di tutti i cittadini indignati”». (Pierre Gaxotte, La rivoluzione francese)
Nel febbraio 1943 Sophie Scholl, coraggiosa protagonista del movimento della Rosa Bianca, viene fermata, interrogata dalla Gestapo e sottoposta a tortura, ma incrollabile nella sua fede confessa al suo inquisitore che nello scegliere quell’emblema il fratello Hans si era ispirato al simbolo dei nobili perseguitati dalla rivoluzione francese.
Allo stesso modo delle vittime della rivoluzione del terrore, anche i protagonisti del movimento antinazista saranno tutti ghigliottinati.
Diritto, giustizia, libertà, sono termini che dovrebbero essere armonici e complementari nelle società che si dicono democratiche, antagonisti in quelle totalitarie, concetti che oggi si rivelano vitali per la nostra civiltà e di fronte ai quali dovremmo quindi fermarci a riflettere.
Gli esempi descritti ci spiegano infatti che il male può travestirsi da bene anche quando e dove si parla di libertà e democrazia. Da una parte l’estrema degenerazione dell’idea di rivoluzione, nel caso della Francia, dall’altra la perversione del diritto, in quello della Germania, sono ambedue volti a piegare la giustizia alla ragione politica, all’eliminazione fisica d’ogni fattore d’opposizione, presunta o reale, in vista dell’instaurazione di un nuovo ordine politico e sociale.
Immagine di apertura: M. Adamo, La caduta di Robespierre alla Convenzione, 1870, Alte Nationalgalerie, Berlino, Wikimedia Commons