“Ça se discute” è il titolo di uno storico talk show della TV francese andato in onda per quindici anni, fino al 2009. Favorevoli e contrari si scontravano su un tema di attualità in discussione. All’inizio in due giorni (la prima sera i “pro”, la seconda i “contro”), poi in serata unica, poi basta. Era nata facebook: pro e contro, con le loro infinite sfumature e contraddizioni, cominciavano ad essere quel viluppo indistricabile che sono diventate, mandando progressivamente a farsi friggere l’interesse degli spettatori per quei tavoli di discussione più o meno ordinati, eleganti ed educati. “Fiato alle trombe, Turchetti!” diceva Mike. Le discussioni oggi avvengono in rete, e i moderni talk show sono le trombe. Di cosa si discute oggi in rete, in questi tempi calamitosi, a proposito di cinema e dintorni (dove i dintorni sono il mondo intero)? Di questo signore, e del suo film.
Jonathan Glazer – 58 anni, londinese, un nome nel campo dei videoclip musicali e pubblicitari, regista finora di pochi e studiati film (quattro in venticinque anni) – è il vincitore dell’ultimo Oscar, nella sezione riservata alle opere non in lingua inglese. Il suo film, infatti, “La zona d’interesse”, pure prodotto da Emma Thomas Nolan, moglie del regista di “Oppenheimer” (la famiglia ha fatto il pieno) e ispirato all’omonimo romanzo inglese di Martin Amis (scomparso il giorno stesso della presentazione del film a Cannes), è girato in tedesco, lingua dei personaggi e degli attori. Se “Oppenheimer”, vincitore degli Oscar principali, è all’onore del mondo da un anno e tutto ciò che si poteva dirne è già stato detto, “La zona d’interesse”, già vincitore di un premio importante a Cannes, giunge adesso in sala dopo una lunga attesa – cui non è estranea probabilmente la situazione internazionale – concentrando su di sé, non solo per motivi artistici, il massimo dell’attenzione mediatica. Un’attenzione di stima (meritata), ma anche inevitabilmente polemica.
STANZE DI VITA QUOTIDIANA.
Diversamente dal romanzo di cui porta il titolo, “La zona di interesse” dà per conosciuto il contesto storico degli avvenimenti (Auschwitz e quanto avveniva al suo interno) e rivolge l’attenzione in via esclusiva alla vita della famiglia del comandante del campo, Rudolf Hoss, in una villa appena fuori da quel muro (che raramente vediamo), in una ridente tenuta fra piante, piscina, specchi d’acqua, bagni di sole e gite in barca. Famiglia numerosa (cinque i figli), domestici scelti fra gli internati, amici, animali, colleghi del capofamiglia. Vita quotidiana di una famiglia tedesca, che vive come se fossimo in una qualunque località sul lago di Costanza, invece che nella “zona di interesse”: denominazione tedesca dei 40 km quadrati su cui insisteva quel simbolo universale dell’orrore. Dal campo giungono fili di fumo, grida, ordini rauchi, persistenti rumori metallici e corruschi, abbaiare di cani: suoni lontani che si perdono nell’aria, nei giochi, nelle voci della vita familiare. Il pater familias, in attesa di promozione a più alti incarichi, si occupa di come efficientare l’attività del campo (convogli e smaltimento). I bambini giocano con i denti dei deportati come fagioli della tombola mentre la moglie e le amiche, nei momenti di svago, si dividono gli indumenti delle donne del campo. Intimo, pellicce e altro. Fra amabili considerazioni come: “Pensa quanto doveva essere bassa quella”. “E quella? Li aveva nascosti nel dentifricio i diamanti!” “Ma pensa te. Tocca guardare proprio dappertutto.”. Manca solo il “signora mia”. Inesorabile “banalità del male”, come ripetono tutti? Solo?
(Breve parentesi. Il cinema è una casa comune e ci si ritrova fra sogni – incubi in questo caso – e realtà nelle sue stanze. Per chi ricorda “La scelta di Sophie”, uno dei pochi film americani a trattare il tema dell’Olocausto, la sciagurata polacca Sophie Zawistowska del romanzo di William Styron – la cui interpretazione portò a Meryl Streep il secondo Oscar – a causa di quella scelta abominevole a cui era stata costretta era finita a fare la segretaria proprio di Rudolf Hoss, in quella villa della “Zona di interesse”. Possiamo immaginarla lì, anche se non è facile, fra quelle stanze e quelle donne, in quel presunto teatro della “banalità del male”. Chiusa parentesi.)
“TUTTE LE NOSTRE SCELTE”
Atteso alla prova della presentazione di un film del genere davanti alle televisioni del mondo intero, nel frastuono delle manifestazioni pro Palestina che fuori dal Dolby Theatre avevano ostacolato l’inizio della cerimonia, il regista inglese con mano tremante ha letto un breve discorso – preparato anche nelle virgole, ancorché non perfettamente calibrato nella sintassi – con al centro la frase contenuta nel fumetto (per la traduzione del controverso “being hijacked” .
“Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e confrontarsi con il presente, non per dire: ‘guardate cosa hanno fatto allora’, piuttosto: ‘guardate cosa stiamo facendo adesso’. Il nostro film mostra fin dove può portare la disumanizzazione nella sua forma peggiore, e come questa ha plasmato tutto il nostro passato e il nostro presente. In questo momento ci troviamo qui come uomini che rifiutano la strumentalizzazione del proprio essere ebrei e dell’Olocausto da parte di un’occupazione che ha trascinato tanti innocenti in un conflitto armato. Siano essi le vittime del 7 ottobre in Israele o quelle dell’attacco in corso a Gaza, tutte soccombono a questa disumanizzazione. Come possiamo resistere?”
Com’è facile immaginare, prevenendo le contestazioni di una parte la breve allocuzione ne ha accese altre, opposte e vibranti, in chi aspettava solo di applaudire il regista di “La zona di interesse”. La “Holocaust Survivor’s Foundation” ha reagito accusandolo di mettere sullo stesso piano il bestiale pogrom di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Israele per rendere sicuri i propri confini, usando “la memoria di Auschwitz contro cercato di Israele”. Altri, attraverso interpretazioni capziose e traduzioni sballate di quella sua frase centrale, hanno cercato di accreditare l’immagine di Glazer come quella di un ebreo che si vergogna di essere ebreo: praticamente un demente.
TIFOSI
Come spesso succede, ciò che nel mondo è dramma volge da noi in farsa. Qualche ora prima della consegna degli Oscar, parlando “a ruota libera” in un talk show televisivo con questo nome, “Lucignolo” Ceccherini (co- sceneggiatore di “Io Capitano”, di Matteo Garrone, il film italiano candidato allo stesso premio) diceva agli spettatori: “Sappiate che il film di Garrone è il più bello della cinquina, solo che non vincerà, forse, perché vinceranno gli ebrei.” E aggiungeva, toscaneggiando: “Perché quelli vincono sempre». Sceglieva un tono romano, più allusivo e saputello, Sabrina Ferilli per dire la stessa cosa in un post su Istagram: “Se dovesse vincere l’Oscar ‘La zona di interesse’, so perché vincerebbe, non certo perché è un film migliore di ‘Io, Capitano’. Io tifo Italia, io tifo Garrone” (buono il proposito, un po’ meno la premessa). Due cretinate, non c’è dubbio, anche se a prenderle troppo sul serio, come qualcuno ha fatto, si rischia di mettere in fuori gioco metà dei dialoghi di “Nell’anno del Signore” o del “Marchese del Grillo”. Piuttosto, replicando a Massimo Gramellini, che come altri e giustamente l’aveva criticata per il suo post, Sabrina Ferilli ha portato a sostegno di quel breve messaggio Paolo Mereghetti, che sul “Corriere”, in una delle poche recensioni non positive del film, dice bene quel che lei aveva detto ammiccando furbescamente, alla “indovinela grillo”, e anche qualcosa di più, parlando di un’opera “molto abile a sfruttare il senso di colpa dello spettatore occidentale di fronte a una tragedia” che quel film si preoccuperebbe di rendere “rarefatta” ed “elegante” senza davvero farci i conti”.
Tema enorme e vischioso (per una rubrica di cinema, poi) quello del “senso di colpa” – che Mereghetti dice occidentale ma forse è solo europeo – su cui farebbe leva, secondo i sostenitori del punto di vista di Glazer, quell’ “hijacking” di cui parla il regista, cioè il suo uso politico. Molto più adeguato a questo spazio è vedere quali siano stati in questi ottant’anni i rapporti fra Hollywood e il tema dell’Olocausto. Davvero il senso di colpa di cui parla il critico del Corriere esercita ancora, se mai l’ha esercitata, la sua influenza sulla politica hollywoodiana e in particolare sulle scelte dell’Academy? Sì e no.
HOLLYWOOD E LA SHOAH
Fino a metà degli anni novanta il tema della persecuzione degli ebrei durante il nazismo è stato per il cinema americano qualcosa di simile ad un tabu. “Roba da comunisti” per tutto il tempo della guerra fredda, l’Olocausto è rimasto anche dopo, per i grandi produttori americani (per inciso, tutti ebrei), il meno grato dei temi. Il “senso di colpa dello spettatore occidentale”, di cui si è parlato a proposito di “The zone of interest” – come l’ipotesi del suo uso propagandistico da parte dei governanti dello stato ebraico – erano e forse sono ancora quanto di più lontano ci possa essere dalla mentalità americana. Cioè del primo sostenitore al mondo di Israele.
Hollywood, la più formidabile macchina propagandistica degli ideali americani nel mondo, per cinquant’anni ha visto il tema della Shoah (che nessuno chiamava così) come il fumo negli occhi. La prova? Dei pochissimi girati in più di mezzo secolo, solo quattro film americani sull’argomento hanno ottenuto la nomination agli Oscar: “Il grande dittatore” di Chaplin (girato nel ’40, quando Auschwitz era ancora una fabbrica di gomma), “Diario di Anna Frank” di George Stevens (1960), “Vincitori e vinti” di Stanley Kramer (1962, in piena età kennediana), “Giulia” di Fred Zinnemann (1977). E fu proprio il magnifico exploit dell’anziano regista di “Mezzogiorno di fuoco” il maggior successo di questo ristretto manipolo: undici candidature e tre Oscar. Non quelli principali, ma importanti: Vanessa Redgrave (nel ruolo del titolo) e Jason Robards (in quello di Dashiell Hammett) come non protagonisti e Alvin Sargent per la sceneggiatura. Con la Redgrave premiata nonostante la fiera opposizione della Lega di Difesa Ebraica per aver finanziato un documentario pro-Palestina. Per essere una storia di ebrei comunisti, fra persecuzione ebraica e caccia alle streghe, (radical chic, verrebbero definiti oggi) non poteva andar meglio. Uno dei trionfi della New Hollywood, dall’autobiografia di Lillian Hellman (Jane Fonda). E primo ruolo al cinema per una giovane attrice di teatro di nome Meryl Streep.
Bisogna mettere insieme l’Oscar per il miglior film (riservato a quelli in lingua inglese) e quello per il miglior film straniero (resto del mondo e delle lingue) per trovare l’unico film sulla Shoah ad avere ottenuto, in quei cinquant’anni, l’ambita statuetta: è “Il giardino dei Finzi-Contini”, di Vittorio De Sica. Eppure fra quelli girati in Europa (occidentale fino agli anni del disgelo, anche orientale dopo), la scelta era più ampia.
Se uno solo fu l’eletto, diversi furono i nominati: “Kapo” di Gillo Pontecorvo (1961), il tedesco orientale “Jacob il bugiardo” di Frank Beyer (1977), il francese “L’ultimo metro” di François Truffaut (1981), lo svizzero “La barca è piena” di Markus Imhoof (1982), l’ungherese “La rivolta di Giobbe”di Imre Gyöngyössy e Barna Kabay (1984), l’austriaco “’38”, di Wolfgang Glück (1987), l’altro francese “Arrivederci, ragazzi” di Louis Malle (1988). Anche un film – che dire singolare è dire poco, visto il tema di riferimento – come “Pasqualino Settebellezze” di Lina Werthmuller, ebbe nel ’77 il suo anno di gloria, con le quattro candidature a film, regista (prima donna nella storia del premio), protagonista (Giancarlo Giannini) e sceneggiatura. Ma a nessuna di queste corrispose un premio. L’unico vincitore rimase De Sica.
Poi, nell’anno della svolta e delle grandi speranze, cambiò tutto. Era il 1993: l’anno degli accordi di Oslo, sotto il patrocinio di Bill Clinton, e del triplo Nobel a Rabin, Peres e Arafat. E di “Schindler List” primo e tutt’ora unico film americano sui campi di sterminio a vincere l’Oscar. Il niente divenne il tutto, nonostante l’assassinio di Rabin – due anni dopo – il ritorno di Nethaniau e la crisi dell’OLP avessero fatto tornare le cose, più o meno, al punto di partenza. Quella sorta di paradossale “conventio ad excludendum” hollywoodiana che fissava nella nomination il limite invalicabile agli Oscar per qualunque film sull’argomento si trasformò nel suo contrario. Ancora oggi gli americani continuano a lasciare una sorta di esclusiva agli europei (del resto la Shoah è roba loro): rarissime sono state le incursioni americane in questo campo con un solo successo agli Award, quello di “The reader (A voce alta)” di Stephen Daldry (nomination a fim, regia e sceneggiatura – al commediografo David Hare – e Oscar a Kate Winslet). Ma da allora la presenza di uno di questi film, di qualunque tipo e valore (ma in genere sono belli), nella cinquina dei film internazionali è garanzia di Oscar. Dopo Spielberg fu la volta di Roman Polanski, che tanti ne avrebbe meritati ma se fosse andato a ritirarli lo avrebbero arrestato, di ricevere il suo unico Oscar per il bellissimo “Il pianista”. E dopo il trip di Benigni (1999), toccò a Ruzowitski (austriaco, per “Il falsario”, 2008), Pawlikowski (polacco, per “Ida”, 2015), Nemes (ungherese, per “Il figlio di Saul”, 2016) e oggi Glazer. Due le eccezioni: il cecoslovacco “Divisi si perde” (2001), di Jan Hrebejk, sconfitto da “La tigre e il dragone” di Ang Lee e l’ottima Agnieszka Holland, presente nella cinquina del 2012 con “In darkness”, ma ebbe la sfortuna di trovarsi contro un autentico capolavoro: l’iraniano “La separazione”, di Asghar Farhadi.
COSA E’ CAMBIATO DA QUEL 1993?
Mah, ognuno si faccia il suo film. Qualche idea ce l’ho anch’io. La cosa più stupida del mondo è pensare alla mitica lobby ebraica. In fondo, in uno degli Oscar più trascurabili nell’ottica americana, cosa sono sei o sette film in trent’anni, metà dei quali ignoti all’universo mondo, anche un po’ opprimenti, destinati ad un pugno di cinefili da cineclub dell’Ansaldo (quello di Fantozzi), per gli interessi di una lobby? A cambiare è stato qualcosa di molto più importante, rispetto al quale la vicenda degli Oscar è una spia talmente piccola e marginale da apparire futile. Ma ho finito lo spazio, anzi ne ho occupato fin troppo. Il tema è troppo serio per azzardare stupidate.