“Sur l’Adamant” di Nicolas Philibert, Orso d’Oro a Berlino 2023)
FESTIVAL Due notizie, collegate dal tema e da una data. La prima è che il 7 giugno a Bologna prende il via la ventesima edizione del “Biografilm”, festival del film biografico (concetto da intendersi nel senso che gli dava Alberto Savinio: “Narrate, uomini, la vostra storia”). Se la dizione “film biografico” non significa necessariamente “documentario” (ci sono, e come, le biografie romanzate), certo i documentari ne sono la parte più cospicua e i documentaristi le presenze dominanti. La seconda notizia, invece, è che si è chiusa due mesi fa a Berlino un’edizione della Berlinale che ha visto i documentari invadere tutte le rassegne, ben oltre quella espressamente destinata a loro, e soprattutto l’intero palmares. L’Orso d’Oro della giuria internazionale è andato a “Dahomey”, della regista franco-senegalese Mati Diop; quello della sezione “Encounters” a “Direct Action”, autori il francese Guillaume Cailleau e l’americano Ben Russell, e quello della sezione dedicata ai documentari a un quartetto di registi israeliani e palestinesi cisgiordani guidato da Yuval Abraham e Basel Adra, per “No other land”. Come noto, e come era facile immaginare, ad accendere le maggiori polemiche in sede di premiazione è stato quest’ultimo. “Sanjust, era un aristocratico, Lenin un borghese. Le rivoluzioni son sempre state guidate da dei rinnegati” diceva il professore liberale (sorta di Carlo Rosselli), tradotto a Lipari in un bel film di Marco Leto del 1973: “La villeggiatura”. Difficile dire se abbia qualcosa a che vedere con rivoluzione, ma questo gruppo di israeliani contro Israele (e di palestinesi associati al “nemico”), francesi contro la Francia e americani contro l’America sembra la raffigurazione plastica di questa affermazione. Anche se non è certo da oggi, forse è dalla sua origine, che il cinema si configura come una felice Ventotene di “rinnegati” (russi, iraniani, polacchi, ecc.) in attesa del loro 25 luglio.
Questa edizione della Berlinale chiude un ventennio iniziato proprio in quel 2004 in cui si apriva il festival bolognese e in cui Michael Moore, già premiato due anni prima per “Bowling a Columbine”, vinceva la Palma d’Oro a Cannes con “Fahrenheit 9/11” (presidente Quentin Tarantino). Ultimo precedente fra i documentari (non c’era ancora la televisione): “Il mondo del silenzio” (1956), di Jacques Cousteau e Louis Malle. Quest’ultimo nella sua prima vita da cameraman subacqueo, prima di perforarsi un timpano in un’immersione e di diventare, con “Ascensore per il patibolo”, il Malle che conosciamo. Mezzo secolo in cui il documentario, da genere trascurato e negletto (ma già definire “genere” quello dei fratelli Lumiére è un abuso linguistico), ha preso sempre più piede nei grandi festival come in sala. Non che sia un blockbuster neanche adesso, il docu-film, ma sembra passato un secolo (non mezzo) da quando non c’era un esercente disposto a sacrificare un solo giorno della settimana per proiettare un documentario. Anche perché nessuno sarebbe stato disposto a pagare un biglietto per vederlo. La strada che il geniale film-maker americano ha aperto, altri si sarebbero trovati a percorrerla nei grandi festival europei: Gianfranco Rosi (Venezia e Berlino), Paolo e Vittorio Taviani (Berlino), il cileno Patricio Guzman (Berlino), l’americana Laura Poitras (Venezia) il francese Nicolas Philibert (Berlino, l’anno scorso). Giusto citare anche i film, uno più bello dell’altro, nell’ordine: “Sacro GRA” e “Fuocoammare”, “Cesare deve morire”, “La memoria dell’acqua”, “Tutta la bellezza e il dolore”, “Sull’Adamant”. Tutti i festival italiani ed europei dedicano ormai grande spazio ai documentari, che sempre più frequentemente entrano al cinema dalla porta principale. Tutto è cominciato, qui da noi, dall’avventura di un piccolo, grandioso film.
ROMA, 1982. PIAZZA DELLA REPUBBLICA. “Una bellissima distesa monumentale”, così le guide di Roma presentano Piazza della Repubblica – fino al 1953 Piazza dell’Esedra – due passi dalla stazione Termini. Intorno alla grande fontana delle Naiadi di Mario Rutelli, fra le Terme di Diocleziano e la michelangiolesca Santa Maria degli Angeli da un lato, e la parentesi dei due palazzi dell’esedra eretti nell’ultimo decennio dell’ottocento di guardia all’imbocco di via Nazionale su disegno di Gaetano Koch, si stende una delle grandi piazze romane. Ai due capi del diametro lungo dell’ellisse (parlo per i non romani), la piazza dei Cinquecento e, oltre la strettoia del Grand Hotel, le discese di via XX settembre verso il Quirinale, a sinistra, e di via Bissolati verso via Veneto, di fronte. Tutto magnifico, non c’è che dire.
Ma agli occhi dello “straniero” sceso dal “rapido” (Bologna-Roma, quattro ore e un quarto), in una stazione Termini deserta e allucinata la mattina del 10 maggio 1978, a meno di 24 ore dal ritrovamento del corpo di Aldo Moro, per un colloquio di lavoro che lo avrebbe portato nella Capitale due mesi e mezzo dopo, quella piazza sarebbe apparsa il simbolo di una Roma degradata, sordida e feroce, uscita dagli “Scritti corsari” o dalle pagine più desolate di Parise, più ancora che dalle “flânerie” di Flaiano, abissalmente lontana dai miti provinciali della dolce vita. Fra la piazza dei Cinquecento, con i banchi dei contrabbandieri di sigarette e la torma dei tassisti abusivi (“l’unica metropoli mediorientale che non ha un quartiere europeo”, scriveva Ennio Flaiano), i portici malfrequentati fra via Cavour e Palazzo Massimo e i giardinetti zozzi davanti alle Terme e al Planetario – teatro delle “cacce” notturne che le cronache del delitto Pasolini e il racconto dei testimoni restituivano con abbondanza in quegli anni – sempre più buia fra cane e lupo, quella piazza era un vero postaccio. Il degrado dei due grandi palazzi a semicerchio, dei portici sottostanti e dei giardinetti quando chiudevano i banchi dei librai, facevano della piazza il classico luogo da evitare al calar della sera. L’eredità ricevuta un anno addietro dalla giunta Argan, prima giunta di sinistra della Capitale, era disastrosa. Un macello, come dicono da queste parti.
Per quanto riguarda il cinema, la situazione era bifronte. Sotto i portici due sale a luci rosse mostravano le tipiche locandine senza immagini, con su scritto “Film per adulti” e basta. Di fronte, il Planetario adattato a cinema e gestito da Italnoleggio e Aiace (l’associazione dei cinema d’essai) programmava eroicamente film di qualità. Le due sale gemelle erano il Moderno e il Modernetta, un format onomastico di quegli anni: accanto al Quirino (teatro) c’era il Quirinetta (cinema), accanto al Capranica il Capranichetta, accanto al Fiamma il Fiammetta. Ma mentre quelli, che a parte il Quirino non ci sono più, erano prestigiosi locali del centro, questi erano due pidocchietti malfamati per anime in pena. Oggi tutto questo è preistoria. La stazione chiude ancora a mezzanotte come un bar, delegando alla Tiburtina il traffico notturno, ma è irriconoscibile e bellissima; non ci sono più i tassisti abusivi (neanche quelli legali, se è per questo); Il Moderno è diventato una multisala inglese a fianco della quale, sotto lo stesso Palazzo delle Naiadi (restaurato come il gemello), c’è un albergo da ottocento euro a notte, per chi avesse voglia di spenderli. Palazzo Massimo ha riaperto come museo Romano e a fianco del Planetario, chiuso da più di trent’anni, c’è un plesso di aule universitarie. La Metro A, aperta nel ‘79, quando funziona fa la sua parte.
UNA “PRIMA” AL MODERNO. La premessa ha due ragioni. La prima, di ordine storico, nasce dallo sdegno per l’abisso in cui era precipitato un autentico monumento nazionale. Il Moderno era stato il primo cinema italiano, aperto nel 1904 da Filoteo Alberini, il pioniere, “L’italiano che inventò il cinema”, come titola il film di Stefano Anselmi che ne racconta la storia. L’ipotesi storica alla base del titolo ha (forse) un margine di leggenda: il kinetoscopio del geografo militare fiorentino, che sviluppava quello di Edison, sarebbe stato perfezionato con un anno di anticipo sulla prima proiezione pubblica dei Lumière (dicembre 1895) e a tardare di un anno sarebbe stata la concessione del brevetto. Ma non c’è leggenda nel fatto che Alberini sia stato il primo esercente (il Moderno a Roma e poi altri cinema a Firenze e Napoli) – produttore (il kinetoscopio filmava e proiettava) – regista (“La presa di Roma”, 1905) italiano; fondatore della Cines, la prima major italiana. Solo un secolo dopo quello che fu uno splendore di cinema avrebbe trovato – si spera non solo grazie all’inglese “The Space” – il riconoscimento che spettava alla sua storia, rievocata oggi nella hall della multisala che ne ha preso il posto.
Il secondo motivo della premessa sta in un piccolo avvenimento culturale di qualche tempo dopo, settembre 1982, quando un refolo di Estate Romana giunse fino alla grande piazza, ancora tenebrosa assai, e non si sa bene su impulso di chi il Moderno fu tentato dal grande salto. Grande davvero, perché si trattava di passare da sala a luci rosse a cinema d’essai, o a qualcosa che gli assomigliasse. Fu una parentesi di tempo brevissima, intendiamoci: pochi mesi, prima del ritorno al precedente standard (e a muro c’era ancora il Modernetta…) A inaugurare questa breve parentesi un film accolto entusiasticamente a Venezia poche settimane prima, che usciva con la malleveria culturale dei grandi nomi del nostro cinema. C’erano tutti in quella sorta di manifesto di sostegno: da Fellini ad Antonioni, da Bellocchio a Bertolucci, da loro a tutti gli altri. Titolo del film: “Il pianeta azzurro”, di Franco Piavoli. “Un poema, un viaggio, un concerto sulla natura, l’universo, la vita” (Andrej Tarkovskij), Il ritmo quotidiano (mattina, pomeriggio, sera, notte) e annuale (le stagioni) della vita dell’uomo, degli animali e delle piante intrecciati in un montaggio musicale incantevole e incantato. Una preghiera in cui gli aggettivi laico e religioso perdono senso e si confondono. Dove Lucrezio incontra Pascal e quell’immenso pensiero posto da Giorgio Bassani in esergo a “L’odore del fieno” (il numero 60, Brunswich 115):
“Une ville, une campagne, de loin c’est une ville et une campagne, mais à mesure qu’on s’approche, ce sont des maisons, des arbres, des tuiles, des feuilles, des herbes, des fourmis, des jambes de fourmis, à l’infini. Tout cela s’enveloppe sous le nom de campagne.” Una città, una campagna, da lontano sono una città, una campagna, ma quanto più ci avviciniamo sono case, alberi, tegole, foglie, erbe, gambe di formica, all’infinito. Tutto questo è racchiuso nel nome di campagna. |
Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Tutto questo intendiamo quando diciamo “pianeta”. Il pianeta azzurro. L’unico che abbiamo.
I PRECEDENTI. I precedenti di un documentario al cinema, da quando la nascita della televisione aveva portato alla netta separazione fra i territori di competenza dei due mezzi (la fiction al cinema, il documentario in TV), si contavano sulle dita di una mano. Quello più bello, nel ‘75, era stato senza alcun dubbio “Matti da slegare”, sintesi di due ore di un documentario ancora più bello (“Nessuno o tutti”, 16 mm., due parti, tre ore e mezzo) che molto aveva girato l’Italia durante l’estate in quel circuito diffuso di circoli politici e culturali, sedi di quartiere, proiezioni pubbliche, festival di ogni orientamento, luoghi di lavoro, allora molto sviluppato. Diretto da un pool di quattro autori – due registi (Marco Bellocchio e Silvano Agosti) e due sceneggiatori (Sandro Petraglia e Stefano Rulli) – promosso da Mario Tommasini, assessore ai servizi sociali e alla sanità del comune di Parma, raccontava le ottime ragioni e le inventive modalità della progressiva chiusura del manicomio di Colorno, affidato in quegli anni alla direzione di Franco Basaglia. Riconversione sostenuta da comune e regione con un’intensa attività pubblica di rimodulazione della cura e restituzione dei malati alla società. Un capolavoro assoluto. Con un finale dionisiaco sulle note di “Romagna mia” da storia del documentario creativo. Uno di questi magnifici quattro avrebbe segnato il destino di “Pianeta azzurro”. Non esattamente il più famoso, ma quello che venti anni prima, con lo pseudonimo di Aurelio Mangiarotti, aveva iniziato montando “I pugni in tasca”.
PIAVOLI E AGOSTI. Franco Piavoli era, nel 1980, un ex avvocato di Pozzolengo che aveva lasciato l’avvocatura per l’insegnamento (“carmina non dant panem”, figuriamoci i documentari autoprodotti), per dedicare più tempo alla passione per il cinema indipendente. “Il pianeta azzurro” era stato realizzato in due anni con il sostegno dell’amico Silvano Agosti, che gli aveva regalato una cinepresa adeguata e coprodotto il film. Due anni fa è stato restaurato, in concomitanza con l’uscita di un bel libro: “Il cielo, l’acqua e il gatto”, di Filippo Schillaci, sul cinema di questo autore (novant’anni oggi e altri quattro film nei quaranta successivi) e della moglie Neria Poli, sua prima collaboratrice.
Ma una cosa è un’anteprima di qualche giorno in un cinema romano e altra cosa è promuovere davvero un film a cui si sono dedicati due anni di vita, quando non c’è un esercente in Italia disposto a programmarlo. Agosti aveva un’altra idea: “Il pianeta azzurro” sarebbe diventato non un film ma un paradigma di cinema. Anzi, un cinema. Un cinema che tutti i giorni che Dio manda in terra avrebbe programmato quel film, e molti altri, in due sale con poltrone rimediate da un aereo in disuso. Ha chiuso dopo quarant’anni l’Azzurro Scipioni (ristrutturato dalla BNL, è in via di riapertura più bello e più potente che pria), la pandemia gli ha dato l’ultima spinta, ma ancora nell’ultima settimana di vita, il lunedì, aveva in cartellone “Il pianeta azzurro”. La cadenza quotidiana dopo qualche anno era diventata settimanale, ma non si era mai interrotta. E c’è da scommettere che anche la riapertura avverrà nel nome del piccolo immenso film che ha girato il mondo, nell’ammirazione incondizionata dei grandi del cinema, e che l’anno scorso ha ottenuto la quarta stella, quella del capolavoro, dal Mereghetti. Per il nostro paese, una sorta di terza stella Michelin del cinema di qualità. Ci sono voluti quarant’anni ma c’è arrivato. E se oggi il documentario in genere, grazie a uno spettro di modalità espressive sempre più ampio, è tanto più popolare di quanto non fosse nel 1982 è un po’ grazie a due che hanno avuto la vista lunga, e di tenacia quanto basta per non arrendersi facilmente.