« Les bons comptes font les bons amis »
I. Presupposti per un (auto)finanziamento del SSN
L’Italia è l’unico Stato membro dell’Unione Europea (UE) il cui Servizio sanitario nazionale (SSN) è finanziato pressoché integralmente dai contribuenti ed offerto gratuitamente a tutti – anche, in molti casi, a persone non-contribuenti. Negli altri Stati membri della UE in genere sono assicurazioni “sociali”, private o pubblico-private, ad erogare prestazioni ai propri assicurati (e … peggio per gli altri), contribuendo così alle spese di funzionamento del locale SSN, non offerto gratuitamente: il tutto con modalità più tipiche di una gestione d’impresa, che valuta preventivi e rischi ed investe risorse in relazione agli scopi perseguiti. Nella sanità italiana, a livello nazionale come regionale, l’impostazione strategica è diversa e si tratta in buona sostanza di spendere bene o male, sulla base di un “Regolamento di amministrazione del patrimonio e contabilità generale dello Stato” che si avvia a celebrare i suoi primi cent’anni, budget predefiniti.
Una siffatta differenza d’impostazione pesa non solo sui profili di cura ma, per quel che qui ci riguarda, anche su quelli di ricerca clinica indipendente.
Quest’ultima – ed il suo finanziamento – costituiscono un problema più rilevante nel nostro Paese che in tutti gli altri, ma il tema è oggetto di scarsa attenzione se si pensa che stiamo parlando di un rilevantissimo investimento pubblico, che assorbe, a livello nazionale come regionale, una larga percentuale delle risorse e non appare, allo stato, molto capace di generare (anche) introiti per il SSN e di accrescerne quindi la sostenibilità. Anzi, negli ultimi decenni si è marciato in direzione contraria e, in particolare, poco si è fatto per vigilare su criteri e modalità di spendita del denaro pubblico e mantenere i costi a livelli compatibili con obiettivi di sostenibilità. Nell’ottica speculare dei “sovventori”, l’accollo al SSN di una larga parte dei costi di funzionamento del sistema, in particolare quelli sostenuti in relazione alla sperimentazione clinica, ha rappresentato uno dei fattori di vantaggio competitivo del fare ricerca in Italia, ma il beneficio effettivo per la sostenibilità del SSN è stato sempre alquanto ridotto (e alla fine i prezzi di rimborso dei farmaci, end product del processo, hanno finito per coprire anche buona parte degli investimenti “veri” dei produttori).
Poiché il settore farmaceutico, per la sua anticiclicità ma anche per l’indubbia miglior gestione economica del privato rispetto al pubblico, alla fin fine gode sempre di buona salute, non è vezzo linguistico dire che da noi si è fatta più attività no profit (nel senso che il profit è largamente andato o rimasto altrove: no profit here …) che attività non-profit (nel senso di promozione e valorizzazione adeguata, remunerata il giusto, delle indubbie qualità ed eccellenze che il SSN mette in campo). Non si è mai fatto, in altre parole, un fair market value assessment (concetto molto teorizzato nelle SOP aziendali, ma meno diffuso via via che si scende nella pratica quotidiana) dei risultati in uscita, comparandole alle risorse (tutte!) spese per produrli, in particolare dal SSN, onde evitare che le finalità istituzionali di quest’ultimo, “sostenibili” in larga parte grazie al prelievo fiscale sui cittadini, debbano in futuro essere abbandonate o … finanziate con modalità degne dello sceriffo di Nottingham.
Da questo punto di vista credo debbano essere ben compresi, prima, ed attuati, poi, alcuni importanti interventi, in una prospettiva di concertazione fra stakeholder e non in quella di contrapposizione o individuazione delle scorciatoie più utili ad alcuni soltanto di essi; interventi volti a (i) limitare alcune spese divenute “facili” e (ii) generare (anche) con la ricerca indipendente risorse utili alla sostenibilità di un sistema che non si limita al SSN e da cui – nel contesto e nella prospettiva di terapie sempre più precoci, personalizzate ma anche costose – dipende a ben vedere il futuro dell’intera filiera e di tutti i suoi stakeholder.
II. Un environment non proprio incoraggiante e una definizione da “mettere a terra”
La ricerca non-registrativa o non-sponsorizzata (non–profit) è finanziata anch’essa in larga parte – direttamente o indirettamente – dall’industria, in funzione della sua attività, legittima e necessaria, di sponsor dello sviluppo e della registrazione di nuovi medicinali e/o indicazioni: denota tale finalizzazione lo stesso Regolamento UE n. 536/2014. Esso riserva infatti alla ricerca indipendente un accenno quasi accidentale nel “Considerando” n. 59, rinviando al concetto di co-sponsorship di cui all’art. 72, ma nulla dicendo, né lì né altrove, su come quest’ultima potrebbe articolarsi nei rapporti fra pubblico e privato; men che meno profilando ipotesi di dialogo in termini economici fra ricerca indipendente e lato produttivo-industriale, che possano contribuire (anche) ad un minimo autofinanziamento dei servizi sanitari – almeno del nostro. Un simile bias traspare non solo nell’impostazione e nella “meccanica” delle procedure – positivamente improntate al rispetto di tempistiche più strette e meno “discrezionali” di quanto fossimo abituati a vedere in Italia, ma anche per le soluzioni di stampo blockchain e silenzio/assenso ivi adottate, ancor più aliene dalle nostre mentalità e prassi, per non parlare della più aperta e trasparente concorrenza intracomunitaria che ne deriva.
Non c’è quindi da stupirsi se nella pratica la ricerca indipendente viene definita “collaborativa”, termine vago ed oscillante, dal punto di vista giuridico, fra concetti di civil e common law come la donazione – cara ad alcuni, ma salvo sporadiche eccezioni inconfigurabile per carenza di animus donandi (controprova: le contropartite, anche negli unrestricted grants!) – e il contratto sinallagmatico arm’s length – su cui l’adesione è tiepida, forse perché postulerebbe un più diffuso fair market value assessment. Un ambito che resta quindi tutto da declinare nella nostra real life, anche alla luce dei profili non secondari di interesse e diritto pubblico posti dal nostro ordinamento.
Nei Paesi UE diversi dall’Italia (dove già il problema, come si è visto, è meno sentito in linea generale) le determinazioni dei sistemi sanitari, così come dei soggetti loro finanziatori, si basano in ultima analisi su un elementare ragionamento di partita doppia: se ho un asset nell’attivo di conto patrimoniale, devo vedere quanta cassa esso genera nel mio conto economico. Le amministrazioni pubbliche, le assicurazioni, l’industria, i centri di ricerca (e non di rado gli stessi ricercatori, legittimamente, pro domo propria) fanno i loro conti e supportano la ricerca (più o meno) indipendente secondo quanto loro conviene: qualora vi sia uno sviluppo profittevole, la logica d’impresa e la correlata, meno burocratica governance che ivi prevale fanno sì che le charities richiedano il (mero) rimborso di eventuali grant concessi e gli utili si (re)distribuiscano lungo la filiera: sostanzialmente non si pone alcun problema.
Da noi la cosa è diversa e ha una “partenza in salita” ancor meno agevole: quand’anche albergasse nelle nostre Amministrazioni una parvenza di indirizzo diverso da quello rigidamente risk- (e investment-)-averse, lo spezzettamento della gestione della ricerca in 21 realtà regionali/provinciali, non coordinate e spesso anzi “disgiunte” a livello istituzionale, rischierebbe di vanificare qualsiasi sforzo volto ad ottimizzare le risorse pubbliche disponibili (scarse e in prospettiva ancor più scarse).
III. Alcuni interventi possibili (per la serie adelante, con juicio)
Come sistema-Italia (di cui “fanno parte integrante e sostanziale” anche soggetti stranieri qui operanti) dobbiamo quindi … sbrogliarcela in primo luogo da soli.
In primo luogo, si dovrebbe cominciare a verificare meglio l’appropriatezza delle spese (di denaro pubblico) correlate alla ricerca, in particolare indipendente, in relazione a possibili ritorni (anche) per il SSN. Quest’ultimo ha certamente interesse ad attrarre ricerca in Italia, con opportuni incentivi che si sommino alle indubbie eccellenze che qui esistono: ma altra cosa è che il SSN divenga (magari neanche troppo a sua insaputa) un… Pantalon de’Bisognosi. Se vogliamo che i nostri scienziati e le nostre strutture di ricerca siano un asset del SSN, la regola di partita doppia sopra richiamata dovrebbe indurre, per lo meno, a qualche maggiore attenzione nel valutare quante e quali spese il SSN si accolla, per la ricerca sponsorizzata e non, in confronto a ciò che accade negli altri Paesi. Da questo punto di vista, il rischio di una “gestione allegra” (o quasi) di fondi pubblici, per valori magari non trascurabili, dovrebbe giustificare un particolare rigore nella valutazione dei protocolli, dei relativi budget e dei contratti di sperimentazione in aree come:
- l’accollo del costo delle terapie di base/medicinali standard of care (“SoC”), quando il farmaco sperimentale (“IMP”) è un’associazione o combinazione, anche solo di fatto, con medicinali ad esse aggiuntivi. Pur essendo l’art. 4.1 del contratto-tipo di sperimentazione clinica abbastanza chiaro sul punto, in diversi casi si riscontra che promotori, sovventori, centri, ricercatori, talvolta (purtroppo) Comitati etici e la stessa AIFA siano “di manica larga” nell’addebitare al SSN i medicinali SoC, sostenendo che “tanto vengono somministrati uniformemente a tutti i pazienti secondo AIC …” – e se qualcuno solleva qualche perplessità viene tacciato di essere un killer della ricerca “indipendente” (o, come si dice a Milano, l’unico pirla);
- la qualifica come profit di studi clinici non-profit – ossia con promotore non commerciale – nonostante le definizioni cristallizzate nel D. Lgs. 200/2007([3]): l’effetto pratico di tale escamotage non è tanto l’arricchimento “con bypass” di soggetti promotori non-industriali – che pure utilizzano risorse umane e strutture del SSN – quanto la maggior facilità e cheapness del passaggio di dati e risultati a soggetti esterni (questo sì all’insaputa del SSN), con una chiara perdita di valore patrimoniale (non c’è neppure il pur esile controllo dei Comitati etici sulla effettiva natura degli studi in questione: il CE deve verificare che lo studio non sia profit, ma non è prevista l’ipotesi speculare …). Sotto quest’ultimo profilo, si è assistito negli anni ad una variegata casistica (peraltro in linea con prassi internazionali) di licenze gratuite, perpetue e cedibili che facevano acquisire ai “sovventori” i dati man mano che gli stessi si producevano (a volte come milestone per l’erogazione di contributi, magari qualificati come donazioni!) o mediante Clinical Study Report a carico dei “sovventori”: ma in tutto ciò non è detto che il corrispettivo ricevuto dal SSN sia congruo, e che all’Ente pubblico non resti alla fine che la proprietà formale di un asset patrimoniale praticamente svuotato del suo contenuto reddituale.
Il d.m. 30 novembre 2021, attuativo di un principio della l. 3/2018, ha inteso semplicemente introdurre un fair market value assessment in tutte queste operazioni, venendo a porre un criterio importante che dovrà essere tenuto presente, nello spirito delineato alla fine del primo paragrafo, per valutare se, come e quanto le forme di co-sponsorhip “collaborativa” fra mondo non-profit e mondo profit, che si vanno e andranno ad articolare, contribuiscono (cor)responsabilmente alla sostenibilità del SSN: altrimenti non si sarà fatto altro che aggiungere nebulosità in un dibattito che alla lunga non gioverà al mercato nel suo insieme.
L’obiettivo comune degli stakeholder della ricerca indipendente dev’essere quindi l’adozione, a breve, di misure e best practices condivise (da Napoleone in avanti, la legislazione è come l’Intendenza: seguirà …), che favoriscano la messa in circolo delle conoscenze nascenti come dati e risultati “di ricerca” dal mondo non-profit e ne prevedano una equa e congrua valorizzazione, se utilizzati in contesti industriali o commerciali (non solo registrativi) come asset di un patrimonio pubblico (capitale “sociale”, in senso non necessariamente solo economico) che costituisce uno dei pochi veri investimenti pubblici fatti con coraggio e lungimiranza nel nostro Paese: un SSN ancora in piedi nonostante tutto dal 1978 e meritevole di un avvenire più sicuro.
Testo tratto da “2030: la sostenibilità della Salute”, Milano 2024, Fondazione Roche/Edra