Non abbiamo neanche bisogno di leggere le statistiche. Il Salone del libro del 2024 ha avuto più visitatori di quello precedente, battendo tutti i record. Primati gonfiati! Se togli le statistiche fornite dalle scuole l’anagrafe delle presenze ci riporta a numeri più umani. La rassegna è la perfetta epitome dell’industria editoriale in Italia, la perfetta e agghiacciante fotografia sull’esistente. Tutta apparenza e alcuna sostanza. Lo specchio di un’industria editoriale che stampa 80.000 volumi all’anno con considerevole spreco di carta. Di questi testi il 93% non arriva a distribuire 100 esemplari nel corso della breve stagione di diffusione. Si può quasi dire che la nomenclatura degli scrittori abbia surclassato quella dei reali lettori. Da tempo siamo tormentati da un dubbio: ma Totti avrà realmente letto il libro che gli viene attribuito considerando l’onnipresenza del suo ghost writer? Davvero saggia la nostra decisione di ritirarci da un recinto dal perimetro stretto dove non conta qualità e merito ma pura fama. Ovvio e giusto che i nuovi libri di Augias e Barbero si vendano con modalità periodiche ma che dire del secondo libro di Luca Barbarossa e Ermal Meta, per non parlare del primo di Paolo e Chiara, Pamela Prati, Francesco Arca, Serena Bortone o Maria Monsè? Il Salone celebra l’apoteosi della popolarità e riesce a mettere sulla stessa bilancia Roberto Saviano, che pure vende ma che dopo Gomorra non è riuscito svincolarsi dall’etichetta di dissacratore della camorra mafiosa, miscelato per l’occasione a un Salman Rushdie che di quei criminali nostrani proprio non dovrebbe sapere nulla. Al Salone transita un popolo di iloti non necessariamente fidelizzati al libro che pagano 22 euro per entrare e per pagare a prezzo intero libri su cui negozi di quartiere avrebbero probabilmente acconsentito allo sconto. Misoneista quanto basta mi sono avvicinato alla rassegna pensando di potermi accreditare con modalità tradizionale. Ma no… bisognava procedere preventivamente online e saltabeccando sul sito dedicato “salto più” (chissà perché questo nome!) l’impresa è diventata titanica perché neanche la pur telematicamente provveduta ragazza dello staff è riuscita a farmi entrare nello stesso. Severgnini, in una sua articolessa, ci ha ricordato che il giornalista accreditato avrebbe comunque dovuto pagare 2,50 euro per la plastificazione del proprio accredito. Se il libro è merce è giusto che suo tempio si paghi di tutto. Dunque ho pagato l’ingresso professionale giornaliero ridotto a 9 euro auto-congratulandomi per l’impresa dopo un’ora di tentativi, peraltro esattamente il tempo che occorreva a uno spettatore comune per portarsi all’altezza, dopo lunga fila, della fatidica biglietteria. Aggiungiamo che lo stesso se avesse voluto accedere a una conferenza di Luciano Canfora avrebbe dovuto sorbirsi un’altra ora di coda. Cui prodest? Stand piccoli-medi affittati a 5.000 euro per il presunto trionfo del libro in un florilegio di editori che con i libri non avevano nulla a che fare vendendo gadget, manifesti, apparentando ai libri tradizionali i comics. E le scolaresche in transito come per un pic-nic en plein air, indifferenti al presunto e non dimostrato scopo della rassegna. Stand di Regioni, di corpi militari, di istituzioni la cui costosa presenza in soldoni viene pagata dal cittadino stesso. Il Ministro della pseudo cultura Sangiuliano, benedicendo il direttore Benini perché di destra, ha ricordato che “finalmente il Salone è diventato di tutti”. Di quei tutti vorremmo dimenticarci tornando alla solitaria e ispirata lettura nella nostra stanzetta. Aumenta la stima per gli editori che non hanno partecipazione a questo stucchevole carrozzone. Ne citiamo due: Keller e E/O. A loro vada la nostra incondizionata stima.
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