Due elezioni incombono sui tormentati scenari mondiali. Non si tratta certo di “uno spettro (che) si aggira per l’Europa”, ma è più che evidente che sulle guerre in corso in Ucraina e a Gaza i principali attori stanno evitando di prendere posizione o di esporsi su possibili iniziative, temendo che queste possano influire sui risultati attesi o auspicati del suffragio, sperando che possano avere futuri vantaggiosi effetti, oppure, come nel caso di Netanyahu e Zelensky, determinare i definitivi destini politici e personali.
Le elezioni americane sono quelle più lontane nel tempo ma più importanti sui futuri scenari. Dopo più di due anni e mezzo di guerra in Ucraina i tempi sembrano maturi per una discontinuità, qual che ne sia la forma. Parlando a nuora perché suocera intenda, sia Blinken, dopo il viaggio in Cina, sia lo stesso Putin, hanno fatto sapere di essere disponibili alla possibilità di un negoziato, pur con qualche ovvio paletto a salvaguardia dei rispettivi interessi e con qualche indicazione in parte concreta, in parte propagandistica: “pace realistica” contro “pace giusta”. Etichette di maniera che verranno metabolizzate nell’auspicata trattativa, o almeno in un accordo per un duraturo “cessate il fuoco”. Si vedrà, forse. Non prima, comunque, delle elezioni americane di novembre. Nel malfermo tentativo di farsi rieleggere, infatti, Biden non può avviare iniziative in tal senso, perché gli verrebbe contestato (con pesante effetto sul voto) di aver sprecato miliardi di aiuti e aver di fatto acconsentito alla distruzione umana ed economica dell’Ucraina per risultati più o meno identici a quelli che si sarebbero potuti conseguire dopo pochi mesi di guerra. L’attuale Presidente si riserva quindi per dopo; se sarà ancora lui a capo degli Stati Uniti, avrà almeno quattro anni di tempo per far digerire al paese umori e malumori di eventuali scelte impopolari. Se viceversa vincerà Trump, allora spetterà a lui prendere decisioni. È probabile, come del resto ha affermato più di una volta, che “metterebbe fine alla guerra”. Vedremo; fare previsioni è difficile; è tuttavia probabile che aiutato dal “deep state”, che forse si sta già preparando, voglia emergere come l’eroe che avrà messo fine a un sanguinoso conflitto, anche valendosi delle proprie sintonie con la Russia.
Anche a Mosca si aspettano le elezioni americane, con la speranza che le vinca proprio “the Donald”. Avendo incassato per molti mesi la stasi degli aiuti all’Ucraina da parte dell’Occidente, e vista la probabile insufficienza degli aiuti più recentemente e forse tardivamente sbloccati, la Russia sta lentamente macinando successive parti del Donbass, e sta accumulando truppe e risorse per trovarsi a novembre con le maggiori possibili conquiste, in modo da poter disporre di territori da incamerare alla Federazione oppure da cedere in quadro negoziale. Difficile che di qui a novembre cambino gli scenari sul terreno. Gli aiuti americani ed europei all’Ucraina rallenteranno, o forse fermeranno, nel migliore dei casi, l’avanzata russa, ma non faranno certo retrocedere le truppe di Mosca. Questo è molto probabilmente ciò che tutti vogliono, e che senza dirselo, a meno di colloqui segreti, salva l’interesse di Mosca di acquisire le regioni russofone e quello della NATO di mantenere il grosso dell’Ucraina nell’ambito della sfera euro-atlantica, si vedrà con quale status. Ciascuno potrà dichiarare vittoria e affermare di aver voluto la pace. Forse anche Zelensky, il quale non può far altro che aspettare gli eventi e prepararsi a una sua più che probabile fine politica.
Un altro che aspetta le elezioni americane è Netanyahu, con l’ardente speranza di vedere Trump vittorioso. Fu questi, infatti, a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, prendendo una drastica posizione sul più controverso elemento della lunga crisi mediorientale. Cambierà, la possibile elezione di Trump, lo scenario di Gaza? Dopotutto, anche l’attuale governo Biden non ha esercitato alcuna influenza su Israele, per non danneggiare il proprio bastione nell’area e per non compromettere decenni di politica entro la quale a Tel Aviv è stato consentito tutto. Vedremo che impatto avrà questo sulle elezioni. Se vince Trump, è probabile che la tolleranza di fatto di Washington verso le azioni del governo israeliano si consolidino. A meno che Donald, che è persona sorprendente, non voglia stupirci, in un senso o nell’altro.
C’è intanto fervida attesa anche per le elezioni europee. Che cosa possiamo aspettarci dai suoi risultati? Nulla, se non per le ricadute in questo o quello dei suoi stati membri e per una parziale ricomposizione (probabilmente a destra) del Parlamento Europeo, organismo insufficiente di un’Europa inconcludente e stanca. Non serviranno, queste elezioni, né serviranno l’autocandidatura di Draghi e il discorso di Macron, a imporre all’Unione il salto di qualità che le consentirebbe di uscire dall’irrilevanza. Siamo alla vigilia di pressanti ulteriori adesioni, pur con diversa gradualità di avvicinamento. Sono infatti candidati all’adesione Macedonia del Nord (dal 2004), Montenegro (dal 2010), Serbia (dal 2012), Albania (dal 2014), Ucraina, Moldova e Bosnia-Erzegovina (dal 2022), Georgia (dal 2023). Il Kosovo è attualmente “potenziale candidato”, mentre è bloccata dal 1999, e di fatto accantonata, la candidatura della Turchia. Molto probabilmente l’Unione deciderà l’ammissione a membro dei paesi balcanici, lascerà ancora da parte la Turchia, e adotterà decisioni strategicamente caratterizzate per Ucraina, Moldova e Georgia.
Le nuove adesioni porteranno a più di trenta il numero dei membri; sarà quindi necessario impostare il principio di maggioranza da tempo ventilato, o potenziare le cooperazioni rafforzate allargandole a più materie. Basterà questo a salvare l’Unione dalla paralisi? No. Riformare e snellire i meccanismi decisionali è certo importante; ma purtroppo non è questione di tecnicismi. Per l’Unione vengono infatti al pettine i nodi che si sono accumulati negli anni: allargamenti insensati, non dovuti al consolidamento del disegno originario ma a vuote retoriche al servizio di interessi e visioni a questo alieni; crescita di una burocrazia spesso ottusa e invadente, opaco simulacro dell’integrazione; adesione acritica ai principi del neoliberismo economico a detrimento di una visione politica; appiattimento su logiche e interessi di altre potenze; permeabilità alle lobbies.
La visione originaria dei grandi padri risulta dissolta e vanificata in un’Europa oramai poco più che geografica che ha smarrito il senso di sé. Un’Europa che in realtà è tre Europe: quella dei fondatori e dintorni, uniti tutto sommato da comuni visioni e comuni esigenze economiche e storiche; quella degli opportunisti (fondamentalmente i balcanici), che hanno aderito o stanno aderendo per poter partecipare al grande mercato europeo; quella orientale, che ha aderito soprattutto per esigenze strategiche analoghe a quelle che le hanno portate ad aderire alla NATO. Nessun principio di maggioranza o di cooperazione rafforzata dirimerà le profonde diversità di orientamento e motivazione fra paesi che vengono da percorsi storici diversi e che, al di là della retorica europeista, nutrono diverse agende. Senza tener conto del fatto che l’ingresso di paesi problematici come Ucraina, Moldova e Georgia, potenziando l’”alleanza” strategica dei paesi est-europei con gli Stati Uniti, piuttosto che con gli altri membri, non farà altro che collocare l’Europa su un fronte geopolitico di indecifrabile avvenire, per il quale l’Unione non era stata pensata, né edificata.
Si sta esaminando l’ipotesi di dar luogo a diversi cerchi di integrazione. Potrebbe essere l’ultima possibilità; ma bisognerà vedere come saranno concepiti, e con quale filosofia. Se l’Europa vorrà avere un futuro bisogna che almeno il primo cerchio metta a fattor comune le funzioni sovrane e il governo dell’economia: governo, parlamento, legislazione fondamentale, diplomazia, politica estera, difesa, politica economica e finanziaria, debito. Quest’ultimo tema può apparire opportunistico per i paesi poco virtuosi e improponibile per i frugali. Tuttavia, non se ne esce: integrazione vera e politica economica comune richiedono di giungere a un debito condiviso, pur con tutta la necessaria gradualità, al fine di poter impostare un’efficace politica industriale e fiscale in grado di poter competere con i grandi attori mondiali e assicurare ai cittadini i necessari servizi sociali.
Che farà intanto l’Europa se le elezioni americane introdurranno svolte nella gestione delle due guerre in corso? Sul fronte ucraino, le prospettive più probabili sono per grandi linee quella di uno sganciamento degli Stati Uniti (possibile, in qualche forma, se vince Trump) o quella dell’avvio di negoziati se vince Biden. In quest’ultimo caso, l’Europa non farà altro che seguire il grande alleato, come ha fatto finora; le bellicose dichiarazioni di questi due anni si trasformeranno per magia in dichiarazioni più possibiliste. Nel caso di uno sganciamento americano, l’Europa dovrà decidere fra lo svenamento definitivo, se continuerà a immettere nella guerra inutili risorse, un compromesso al ribasso, o l’accettazione di fatto dei risultati raggiunti dalla Russia. Malgrado le napoleoniche o albioniche affermazioni che stiamo ascoltando da qualche tempo, infatti, ipotesi di più diretto coinvolgimento nella guerra non appaiono verosimili per un’Europa che non è per nulla preparata a una guerra contro la Russia nucleare, e che non potrebbe concepire altro, al riguardo, che scenari da tragica operetta.
Sul fronte mediorientale nessuna preoccupazione: l’Europa continuerà a non dire né fare nulla, come avvenuto negli ultimi decenni.