DI ANTICHI VILIPENDI.

La ricotta di Per Paolo Pasolini

Il 5 maggio di sessant’anni fa si concludeva con l’assoluzione in appello il più infame dei processi per “vilipendio della religione di Stato”, così diceva l’accusa, nella storia del nostro cinema.  Quello a Pier Paolo Pasolini per uno dei suoi film più belli: il cortometraggio “La ricotta”.

Ho scritto “si concludeva”, ma non è proprio così. Tale era la determinazione vessatoria che tre anni dopo la Cassazione annullò la sentenza sostituendola con la presa d’atto di un’amnistia intervenuta nel frattempo. Non “assolto”, quindi, ma “amnistiato”. Il processo era stato preceduto e accompagnato da una lunga vicenda di tagli del film in commissione censura, reintegrati solo molti anni dopo.

Un piccolo film di oggi – al riparo, come ovvio, da rischi del genere – può fornire tuttavia lo spunto per introdurre, in un numero di TUTTI dedicato in buona parte ai temi della censura qualche cenno sulla storia di quella cinematografica, che tanto importante è stata per tutto il “secolo breve”.

 

LA RIVOLUZIONE HA UN TRATTO GENTILE.

Vangelo secondo Maria“, di Paolo Zucca, è uno di quei film fuori tempo e fuori moda che sfidano temerariamente la noia occidentale. Non perché siano fatti male – belli i paesaggi, accurata la messa in scena, bravi gli attori, sensibile la regia – ma perché rimasti troppo a lungo in pancia. Dopo quindici anni di scritture e riscritture, da un romanzo di Barbara Alberti del ‘79, quelle che mezzo secolo fa sembravano arditezze femministe oggi “ci escono da tutti i pizzi”, come dicono a Roma. E tuttavia molte cose in questi anni reazionari hanno inciprignito l’umore sociale e non è affatto detto che sia l’indifferenza il destino di un film che, in tono più sommesso rispetto a quelli cui ci aveva abituato la Fallaci, ne riprende temi e umori in chiave di gentile contraltare. Con tipica “mossa del cavallo”, destinata a sollevare qualche polemica (la base semitica è la stessa), “Vangelo secondo Maria” parla della società ebraica del tempo con il pensiero rivolto al mondo islamico di oggi, senza risparmiare un certo bigottismo cattolico. Ma per chi suona la mite campana di questo Vangelo molto apocrifo, nei cui rintocchi par di sentire il “no religion too“ di “Imagine”, l’invito a immaginare un mondo “senza più religioni”?

Sorta di prequel del racconto evangelico, “Vangelo secondo Maria” è girato fra Cabras e la penisola del Sini (golfo di Oristano), in una Sardegna nuragica che rimanda alla Lucania del Vangelo di Pasolini. Di Maria racconta l’infanzia (poco) e soprattutto l’adolescenza, ignota ai Vangeli canonici come a quelli apocrifi. Lo fa con la libertà di chi sa di inoltrarsi in un campo poco o nulla esplorato a livello divulgativo, fatti salvi i pochi cenni contenuti nella prima, bellissima parte della “Buona Novella” di Fabrizio de André, dedicata peraltro in primo luogo a Giuseppe. E lascia la sua eroina prima della nascita di Gesù, fra le braccia di Giuseppe, nello stupore per la virginale gravidanza.

Annunciazione! Annunciazione!”   Benedetta Porcaroli, perfetto fisico del ruolo, ha venticinque anni. Un’età certo fuori dalle narrazioni codificate e che rende piuttosto tardiva l’Annunciazione, in un tempo arcaico in cui i venticinque anni di una nubenda erano i cinquanta di oggi. Ma per quanto in ritardo sulla tabella dei tempi, (“Annunciazione! Annunciazione!”), l’Angelo – anzi l’Arcangelo, il boss – non manca all’appuntamento. Manca il gatto che schizza via al suo apparire, come nella più bella di tutte le Annunciazioni, quella di Lorenzo Lotto, ma non si può avere tutto. Ubriaca di vento e di vita, in una società pastorale che alle donne impone la cattività domestica e preclude qualunque istruzione, Maria è “una cagna che fugge da casa non appena trova la porta aperta”, come afferma al sommo del disprezzo il sommo sacerdote che l’avrebbe voluta sposare all’imo figlio e la rifiuta sdegnosamente lasciando prostrati i genitori (Anna e Gioacchino, molto poco santi per non dire pessimi). Sogna di fuggire, Maria, e si abbevera al sapere di un solitario giramondo di nome Giuseppe, singolare figura di falegname apparentemente specializzato in bacchette e bastoni: da difesa, da pastore, da sostegno. È buono, saggio e sa tante cose. Conosce anche Alessandria, “la città dei libri”, e quando lei dice: “voglio andarci, ma per conto mio” le procura un somarello alla sua altezza, ma questo viene dopo. Adesso è chiusa in una grotta, Maria, per impedirle di andarsene in giro. Quando i cari genitori non sapendo a chi darla trovano qualcuno disposto ad accollarsela, scopre che il destino non l’ha trattata male: davanti a lei c’è il mite e barbuto giramondo (pure avvenente: Alessandro Gassmann), in cerca di compagnia e di un’allieva. L’avrebbero pagato loro: nella società del tempo una donna sola è lo zimbello anche delle pecore.

Patti chiari, però, Giuseppe: la nostra unione sarà casta. Io ti sarò compagna e tu mi insegnerai quel che sai finché sarò in grado di andarmene. Basta un somarello, e un par de scarpe nove, e poi gira’ tutto er monno . In una commistione fra cinema e teatro – l’Erode di Maurizio Lombardi si misura con il fantasma di Carmelo Bene – la storia andrà verso un finale diverso da quello del libro. Il piano di Dio è evidentemente diverso da quello di Maria, ma la storia non finisce qui e quella di Giuseppe e Maria con il suo strano bimbo in pancia, conoscerà, con il desiderio, una vita libera e meno casti abbracci. Il bagno al fiume non avverrà sempre su sponde opposte, affinché la stessa acqua, bagnando i due corpi, non li contamini. Un altro Giuseppe (per di più Gioacchino), nella lontana Roma, prendendosi gioco di quella “ggente ssciocca” che ancora “cciarla” sulla differenza d’età fra i due sposi (“poteva ar meno ssposà cquello / che nun fascessi bbava da la bbocca”, dicono di lei), commenterà:

Nun dicheno però cch’ar vecchierello  

 Accant’a cquer pezzetto de pasciocca 

 I’a rifiorì la punta ar bastoncello”.

Ci siamo col “pezzetto di pasciocca”, un po’ meno col “vecchierelloGassmann; ma chi se non un altro Gassman (con una “enne” sola, ma è una storia lunga) avrebbe messo questo “Sposalizzio de la Madonna” nella sua antologia personale, leggendo l’incantevole terzina con dolcezza infinita?

Basilica di Sinis

Il bagno. La mia conoscenza dell’iconografia mariana e della storia dell’arte in genere ha molti buchi. Va un po’ meglio col cinema (ma anche lì… ). Non riesco pertanto a ricordare – e faccio appello ai tanti che ne sanno più di me – fra le immagini di Maria una Madonna nuda. Nella mia memoria la nudità di Maria è il tabù supremo sopravvissuto a duemila anni di raffigurazioni della madre del Redentore. In questo piccolo film che entra oggi a fari spenti nel dibattito culturale, Maria si immerge, davvero castamente, nelle acque del fiume (anche Giuseppe, più lontano e sull’altra sponda), nuda dalla testa ai piedi nell’incantevole fisicità dell’attrice romana. Dura un minuto questa “prima volta” iconografica. Difficile prevedere come verrà accolta. Al momento le acque che attendono “Vangelo secondo Maria” (esce il 23 p.v.) sembrano tranquille come quelle del Giordano. Alla presentazione romana presso la Casa del Cinema qualche timida obiezione è stata avanzata (“Non pensate che possa offendere la sensibilità dei cattolici?), ma riguardava altri aspetti. Quanto bastava, comunque, per invitare a nozze l’autrice del romanzo – e cosceneggiatrice del film – in una delle sue celebri intemerate.  Sembra non passare il tempo per Barbara Alberti, ancora identica a quella che trent’anni fa animava con la propria verve le serate del Maurizio Costanzo Show. Vedremo: con i luminosi “liberali” del nostro Ministero della Cultura (Popolare) e l’aria che tira su ogni pretesto che coinvolga la religione, tutto può succedere. Bisogna avere molta voglia di offendersi per riuscirci, ma “nil difficile volenti”.

 

Walter Chiari e Tatti Sanguineti, suo biografo. Foto di Fulvia Farassino

UN SECOLO (QUASI) DI CENSURA.

Se quella sulla stampa, espressamente vietata dall’articolo 21 della Costituzione, ha sempre incontrato una forte reattività politica e sociale, la censura sul cinema non ha mai suscitato un’opposizione altrettanto convinta. Per di più godeva, in coda allo stesso articolo 21, di un potente appiglio normativo: “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. Per quanto il vincolo riguardasse anche le pubblicazioni a stampa, la preoccupazione principale di chi aveva spinto per una specifica tutela del “buon costume” era evidentemente lo spettacolo. Di cosa si occupava la “Buoncostume”, intesa come forza di polizia, se non di sesso – reale o rappresentato – esposto o esercitato? Per mezzo secolo, in sostanziale continuità con il ventennio fascista, la censura avrebbe massacrato il cinema italiano (e le edizioni italiane di quello estero) attraverso una politica dei tagli su larga scala. Di qui la battuta di Fernandel sulla tenia di cui avrebbe sofferto una censura così vorace di nitrato d’argento. Se pochi furono i casi di rifiuto del visto, innumerevoli le pretese di tagli. Ci furono casi internazionali, come il divieto di circolazione imposto nel 1981, per intervento diretto di Andreotti (!), a “Il leone del deserto”, ricca produzione internazionale cofinanziata da Gheddafi su un eroe libico della resistenza al colonialismo italiano. Probabilmente privo di particolari pregi, variamente giudicato dal punto di vista storico (diverse, pare, le obiettive falsità e inesattezze), il film fu giudicato offensivo dell’Italia e delle sue Forze Armate e rimesso in circolazione anni dopo in occasione della visita a Roma di Gheddafi. Un inchino al capo di Stato libico peggiore del trentennale “sequestro”.

“Totò che visse due volte” di Ciprì e Maresco

Erano ormai casi eccezionalmente sporadici. Il penultimo, nel ’98, per “disprezzo del sentimento religioso” e molto altro. Seguì denuncia per vilipendio della religione. Ad essere colpito, “Totò che visse due volte”, di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Il divieto durò una settimana, il processo (con finale già scritto) tre anni. Non erano più i tempi di “Ultimo tango a Parigi”. Il caso convinse però il Governo – ministro Veltroni – a presentare un progetto di legge che prevedeva l’abolizione della censura per i maggiorenni. Non ebbe seguito se non per quella teatrale (già abbondantemente teorica). Nel 2011 l’ultimo rifiuto del visto avvenne all’unanimità per “Morituris”, un horror di eccezionale violenza “di genere”, cioè verso disgraziate stuprate e torturate in varie e repellenti modalità. Seguito dalle consuete polemiche sulla violenza fine o non fine a sé stessa. Per quel che mi riguarda comincio ad averne le tasche piene anche di quella non fine a sé stessa. Capita, quand’uno invecchia.

“Totò e Carolina” (Anna Maria Ferrero)

Nessuno ricorse in appello. Due anni dopo il film uscì in DVD e buonanotte. Poi, nel 2021, l’abolizione ufficiale. Rimanevano, come di fatto già da quarant’anni, solo i divieti ai minori di 14 e 18 anni, oggi pressoché scomparsi anche quelli (ed è sbagliato), applicati a capocchia in casi sempre più rari da commissioni che i vari governi continuano a nominare. Commissioni di scioperati (si scherza) di cui nessuno vuole più far parte, per non passare da censore anche per il più ragionevole dei divieti ai minori di 14 anni. Ma da vent’anni, a proposito di censura, il mondo dei vivi parlava d’altro.

Gli ultimi tagli di Pompei. Nel 1995 si erano aperti gli archivi. Non perché l’Archivio del Cinema Italiano – ideato e coordinato da un grande critico e storico, Aldo Bernardini, per conto dell’ANICA (l’associazione dei produttori di cinema) – non fosse già a disposizione degli studiosi, ma perché fu in quell’anno che Pier Luigi Raffaelli, storico e archivista romano, presa visione dei fascicoli originali delle pellicole sottoposte a visto di censura e archiviate presso il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, ebbe l’idea di un progetto immane: ricostruire le “vicende censorie” di ogni pellicola distribuita in Italia dal 1913 in poi. Qualcosa come centomila fascicoli.

Nino Manfredi e Virna Lisi “Le bambole”

Nasce il progetto “Italia Taglia”. Verrà portato a termine dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con il Ministero per i Beni Culturali, l’ANICA e di volta in volta le altre istituzioni del cinema (Cineteca Nazionale, Istituto Luce, Cineteca Italiana di Milano, ecc.) nel corso di alcuni anni. I tagli di censura archiviati al Dipartimento dello Spettacolo vengono depositati presso la Cineteca di Bologna. Quella che ne emerge è un’autentica Pompei cinematografica. La prima esposizione del progetto, al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna del ‘98, si intitolerà “Gli ultimi tagli di Pompei”, e saranno quelli degli anni novanta. Ma il patrimonio è immenso: centinaia, forse migliaia di chilometri di pellicola proveniente dai tagli di decine di migliaia di titoli. Non è un’iperbole: sono 650 solo i metri tagliati a un film come “Totò e Carolina” di Mario Monicelli. Gli archivi bolognesi s’impegnano nel lavoro di catalogazione e conservazione dei materiali. Centinaia di film verranno ricostruiti nella loro integrità e restaurati. Ne esce una storia critica del costume del nostro paese, dalla nascita della censura nel 1913 fino al 2000. Una vastissima produzione di materiali critico-storici accompagnerà questi restauri sotto la guida di Tatti Sanguineti, geniale critico e storico, anima e direttore del progetto.  Qualcuno lo ricorderà attore nei primi film di Moretti e poi nel “Caimano” o in “Belluscone”, di Franco Maresco.

 

Enzo Jannacci e Claudia Cardinale “L’udienza” di Marco Ferreri

 

Archeologia. Tutto quanto precede richiama alla memoria un mondo che portiamo nel cuore e nei gesti come nessun altro, ma lontano dal nostro quanto la Troia di Schliemann. E nulla commuove ed esalta quanto questo chinarsi di tecnologie modernissime sulle testimonianze di un mondo lontanissimo e pure cosi fondativo di storia e carattere. Ci sembra di essere il piccolo ET sulla bicicletta dei suoi amici americani, o in cerca di un telefono che comunichi col suo pianeta, mentre seguiamo le tracce della memoria del mondo con dita sempre più leggere. “Nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani tanto piccole”, dice il verso di E. E. Cummings usato da Woody Allen per una dedica da innamorati in “Hannah e le sue sorelle”.  Ed è da innamorati questo lavoro minuzioso di collegamento fra mondi lontanissimi, questo andare avanti e indietro, giorno dopo giorno, finché l’astronave che ci ha dimenticati qui non verrà a recuperarci e saluteremo dal finestrino.