Parlare oggi di minaccia alla libertà di stampa mi sembra fuorviante e poco comprensibile per quanti, vivendo nell’epoca dei social, di notizie e informazioni delle quali è stracolmo qualsivoglia “dispositivo” o medium, sono portati a considerare che per “stampa” si intenda qualsivoglia aggregato di parole, anche solo verbali (radio ecc.). Occorre selezionare, prescegliere, analizzare fenomeni peraltro “velocissimi”, spesso istantanei, che contraddistinguono tutto il sistema della comunicazione verbale scritta, ancorché congiunta alle immagini, come a quella genericamente definita televisiva e quella che passa per altri canali social.
Siamo semmai immersi in un flusso inarrestabile di discorsi verbali. Se poi si intende analizzare o anche solo riflettere sulla realtà della stampa periodica (quotidiani, riviste), di quella online, di radio e TV, diciamoci francamente e alla luce della storia (quella vera) che l’industria editoriale nazionale non è mai stata “libera” nel senso che essa, sin dal suo primo sorgere e consolidarsi nel Regno d’Italia, è stata giustamente e spesso orgogliosamente espressione di “gruppi”, di schieramenti, di movimenti anche, ma non solo politici.
L’editoria, nel senso concreto del termine, è stata da sempre “costosa” nel senso che essa, per concretizzarsi, ha bisogno di sostegni finanziari indispensabili per passare dal discorso verbale orale a quello scritto, stampato e diffuso. Da qui l’intreccio tra editoria e finanza. Per poter essere stampata e diffusa, “La Voce”, fondata a Firenze da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, ebbe necessità di finanziamenti atti a sostenere collaboratori quanto costi della tipografia e di distribuzione delle copie, generosamente offerti, tra gli altri, da Alessandro Casati e Benedetto Croce. I quotidiani nazionali di fine ‘800 trovarono nella réclame di quarta pagina, ovvero nella pubblicità più diversa di prodotti o realtà commerciali, un utile strumento di finanziamento. Fenomeni letterari e artistici non certo secondari trovarono nella stampa periodica, anche di quotidiani, un utile strumento di concretizzazione e diffusione già nell’ultimo ventennio dell’Ottocento: basti pensare alla diffusione della letteratura (quella che si studia a scuola) “in appendice” (cioè nella parte bassa della prima pagina e a puntate) o con un formato idoneo “breve”, la novella. Si vedano, ad esempio, le edizioni critiche (quelle serie, ovvero prodotte da studiosi e ricercatori seri) delle novelle – che so io – di Giovanni Verga o le tante (fin troppe) edizioni di testi di D’Annunzio (poetici e “mondani”) pubblicate in prima edizione in quotidiano o settimanale e di poi “raccolte” in “libro”.
Nel corso della mia più che quarantennale attività di ricerca, credo di aver sfogliato più giornali e periodici che libri, ivi compresi i “fogli” a stampa ove si concretizzava un grande e travagliato dibattito religioso, quello del cosiddetto “modernismo” cattolico di inizio Novecento, nei quali articoli anonimi o firmati da pseudonimi (seppur “riconoscibili” agli addetti ai lavori: gli estensori dell’Enciclica Pascendi li riconobbero tutti e li scomunicarono…) affrontavano questioni cruciali non solo “ecclesiali”.
Anche l’uso dello pseudonimo fu una caratteristica della nascita e dello sviluppo della stampa italiana: identità fittizie (e sovente “brillanti” nome de plume: elencare quelle di D’Annunzio prenderebbe molto spazio) che agivano tuttavia da “richiamo” per i lettori e assai più per le lettrici. Insomma: la stampa periodica nacque e si diffuse realizzando un formidabile obiettivo, creare e consolidare la nuova categoria dei LETTORI, del lettore di linguaggi verbali scritti, anche solo appena alfabetizzato. Lettore di aggregati di parole scritte anche sotto forma di poesia e di narrativa, italiana e straniera in traduzione. Ho anche ripercorso, anni addietro, la storia della nascita e dello sviluppo di ciò che chiamiamo sport in Italia: fenomeno intimamente connesso via via negli anni alla sempre più viva presenza di trafiletti, articoli e di poi “rubriche” consacrati alla nascente attività atletica e ludica nei più diversi settori “agonistici” allora poco più che dilettanteschi.
No: la libertà di stampa in Italia non è minacciata affatto. E scambiare il solito papocchio RAI per un attentato alla vera, autentica “libertà” di espressione pubblica, ovvero pensata e diretta da un emittente al destinatario ignoto, è un errore. Semmai è la dignità di stampa che conta e, troppo spesso, i “lettori” di quotidiani (oggi online) o “telespettatori” o radioascoltatori, sono costretti a farsi largo tra un pattume bizzarro e scomposto di cosiddette “notizie”, di cosiddetti “servizi”, di cosiddette “interviste” per tentare di ottenere informazioni anche banali o legate ad aspetti della vita quotidiana di noialtri italiani, a cominciare dai necrologi (in via di sparizione).
Far di un brillante scrittore (e collega universitario) un martire della censura (quella vera non c’è: ho studiato e non poco la stampa d’epoca fascista e poi di regime, analizzando e pubblicando anche materiale conservato nell’Archivio Centrale dello Stato, ivi compreso nel Fondo “Segreteria particolare del Capo del Governo” e di poi del “Duce” comprendente la corrispondenza di autori e scrittori, direttori e giornalisti e massaie in ingresso e… in uscita) è un po’ troppo. È un eccesso tanto più che essa si sarebbe esercitata nei corridoi e scrivanie RAI (pensa un po’!) onde bloccare un “pezzo” che ancora una volta intendeva affrontare e risolvere un problema inesistente, ovvero quello della sconfessione di una nostalgica e inappropriata militanza “fascista” da parte di protagonisti della vita istituzionale nostrana che non intendono sconfessare un bel nulla.
Perché qui ci sarebbe molto ma molto da dire sull’uso di termini quali “fascismo” e “antifascismo” con i quali si è inteso raggrumare un universo mondo quale fu quello della storia, cultura, civiltà, società nazionale e cospicue sue dimensioni concrete (umane) prima ancora che ideologiche o ideali: un universo mondo assai articolato al suo interno ma per fortuna analizzato, studiato e reso pubblico, ovvero “pubblicato”, grazie a una imponente massa di studi che abbracciano i più diversi campi del sapere, ivi compresa la gastronomia. Non c’è campo o aspetto concreto del fascismo e dell’antifascismo, della Resistenza e della Liberazione che non sia stato studiato e reso “pubblico” in Italia e all’estero. Si tratta di pubblicazioni frutto del lavoro di ricerca universitario, dunque quelle “barbose”, fitte di note a piè di pagina e di imponenti quanto indispensabili, doverose bibliografie. Apparato mancante nel “pezzo” del brillante scrittore (e collega) chiamato dunque a offrire il suo personale punto di vista, il suo sentire, la sua interpretazione di fatti e misfatti, non da storico né da studioso, ma da scrittore di libri creativi nel contesto di un “programma” o meglio palcoscenico televisivo, ove come in tanti (troppi) palcoscenici TV va in scena il teatro di varietà, nelle forme preconizzate da F.T. Marinetti all’epoca del futurismo. Il quale, di poi, divenuto Presidente del Sindacato Nazionale Fascista Autori e Scrittori, onde “inquadrare” la produzione editoriale nazionale ed “esaltare la spiritualità italiana ingigantita dall’Impero”, proponeva nel 1936 di controllare ed eventualmente censurare (questa sì era censura: non si stampava) la “diffusione delle opere letterarie straniere in Italia” non ritenute ideologicamente idonee e insieme di favorire il sorgere di una grande “letteratura coloniale” nazionale, spedendo nelle nostre colonie aspiranti scrittori che lì dovevano restare per almeno un anno a trarre ispirazione e a concretarla in parole scritte, “dando espressione di poesia alle terre dell’Africa Orientale Italiana”. E ciò in effetti avvenne… con risultati editoriali, con linguaggi verbali i più diversi che non hanno lasciato traccia in quanto non degni, ovvero forzatamente piegati al potere dominante e dunque dittatoriale. Opere e testi di poi comunque analizzati e studiati, resi nuovamente “pubblici” per quanti – lettori – siano interessati a conoscere il nesso tra “libertà” di stampa e “dignità” di stampa. E gli scrittori creativi non si censurano mai: è il lettore che ha in mano l’arma e ad esso – vero protagonista di qualsivoglia forma di comunicazione scritta – resta ferma in mano perché chiuda il cerchio della comunicazione e si costruisca le SUE idee.