Il premier slovacco filo-russo Robert Fico gravemente ferito a colpi di pistola da un anziano poeta filo-ucraino; il premier polacco Donald Tusk oggetto di minacce di morte sui social; un candidato dell’SPD picchiato a Dresda in Germania da esponenti dell’AfD; in Olanda, il leader anti-Islam e anti-UE Geert Wilders annuncia la formazione di un governo che rischia di mettersi di traverso contro ogni sviluppo dell’integrazione europea; ovunque nei 27, la dialettica politica è avvelenata da incitamenti all’odio e linguaggi virulenti.
L’Europa che s’accinge al voto è ricca di fermenti e tensioni. Ma la polarizzazione dei confronti, Paese per Paese, non intacca la capacità dell’UE di calamitare le attenzioni e le aspirazioni dei Paesi che ancora ne sono fuori: le manifestazioni in Georgia contro una legge liberticida e per l’adesione all’Unione ne sono l’ultima testimonianza. Pochi, a Bruxelles, sono pronti a ‘morire’, magari solo metaforicamente, per Tbilisi e per Chisinau, e pure per Kiev; ma molti, a Tbilisi e a Chisinau, non solo a Kiev, sono pronti a morire, non solo metaforicamente, per Bruxelles.
Tra il 6 e il 9 giugno, circa 360 milioni di cittadini europei, su circa 450 milioni di abitanti, saranno chiamati alle urne per eleggere i 705 deputati del Parlamento europeo: è la decima volta che accade ed è probabilmente quella in cui la polarizzazione politica nell’Unione, e in molti dei 27, è più forte fra chi vuole proseguire sul cammino dell’integrazione e chi vuole ritornare a modelli d’inizio ‘900 capaci di innescare le due maggiori tragedie nella storia dell’Umanità: una polarizzazione che “minaccia guai”, scrive Politico.eu.
È anche la prima volta che gli europei vanno a votare con una guerra alle porte. Questo primo quarto del XXI Secolo è stato segnato, per l’Unione, da ondate di emergenze successive: gli attacchi del terrorismo, le crisi dell’economia, l’esplosione della pandemia, le deflagrazioni delle guerre; e dai problemi costanti dell’immigrazione e del cambiamento climatico.
La politica non ha sempre saputo dare risposte efficaci; e non era facile darle. Le illusorie promesse di soluzioni semplici a problemi complessi e l’istinto di seguire i pifferai di Hammelin sono le basi del successo di populisti e sovranisti: come se il ritorno al passato fosse una ricetta per rendere più digeribile il presente e migliore il futuro, come se la paura – e non la speranza – fosse il motore dell’Umanità.
Il populismo è contagioso e contamina un po’ tutti gli schieramenti politici; e non è un appannaggio dell’Europa. Donald Trump, lungi dall’essere il capostipite dei populisti, ne è stato un propulsore, dalla Brexit in poi, nell’Unione e nell’America latina – che non aveva bisogno di incoraggiamenti del genere, prima con Bolsonaro in Brasile e ora con Milei in Argentina. Negli USA, il fenomeno è appesantito dalla persistente gerontocrazia, complice la riluttanza dei figli degli anni ’80 a impegnarsi in politica – o a impegnarsi e basta. Ma anche nell’UE c’è un deficit di rappresentanza.
In vista del voto di giugno, la discriminante delle scelte, il tratto distintivo dei diversi schieramenti, è il sovranismo: tra chi, cioè, capisce che la difesa della sovranità avviene conferendo più sovranità all’Unione europea e chi difende un’idea di Europa delle piccole Patrie, ciascuna – magari – sovrana, ma impotente e irrilevante, demograficamente, economicamente, politicamente.
L’assottigliamento da impoverimento del ceto medio, la progressiva scomparsa della classe operaia, l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri tolgono ossigeno alle sinistre tradizionali, che, però, devono trovare strumenti di dialogo adeguati e leadership di riferimento carismatiche, senza snaturare il proprio messaggio di solidarietà ed equità, inseguendo o scimmiottando messaggi altrui.
UE: elezioni europee, le cartine di tornasole dell’attivismo e dei sondaggi
Attivismo elettorale, scelte discutibili, sondaggi volatili e test concreti (l’ultimo in Portogallo, dopo Polonia, Slovacchia, Spagna, Olanda, Svezia e vari altri nell’ultimo anno): l’Unione europea è in fermento, presa in un vortice di iniziative politiche ed economiche verso il voto per il rinnovo del Parlamento che prelude al rinnovo, tra l’estate e l’autunno, di tutte le sue cariche istituzionali per il quinquennio 2024/’29.
Con il suo stile molto americano e poco europeo, Politico.eu aveva collocato il Vertice europeo ‘speciale’ di metà aprile, l’ultimo prima del voto, sotto il motto provocatorio: “Munizioni e non api”, che in inglese è quasi un gioco di parole, ‘bullets, not bees’. Questo perché l’UE, negli ultimi mesi, ha mostrato la tendenza elettoralistica ad affossare le scelte verdi – sotto le spinte convergenti d’interessi economici, al fondo negazionisti del cambiamento climatico e delle istanze corporative di agricoltori e allevatori – e a valorizzare, invece, quelle dell’Europa della Difesa, intesa però come rafforzamento dell’industria degli armamenti, in funzione pro-ucraina, o anti-russa, più che come creazione di una capacità di difesa autonoma integrata nella NATO.
Per giustificare la sua affermazione, Politico.eu spiegava che “Una bozza delle priorità dell’Unione per i prossimi cinque anni insiste sulla difesa e menziona appena il cambiamento climatico”. C’è tutta una serie di prese di posizione recenti dell’UE – migranti, clima, agricoltura – che antepongono interessi elettorali immediati a scelte politiche lungimiranti. Decisioni talora contraddittorie di impegni già assunti e di convergenze politiche consolidate.
Guardiamo al problema dei migranti. L’Unione torna alle scelte, elettoralmente magari redditizie, ma devastanti dal punto di vista sociale e dei diritti umani, degli accordi con la Turchia perché si tenga i profughi siriani in accampamenti lungo il confine o di quelli – tutti italiani – con la Libia, perché blocchi la partenza dei barconi (senza troppo curarsi di torture ed estorsioni cui i migranti, una volta lì giunti, sono esposti). E avalla l’illusione che patti come quelli con la Tunisia e l’Egitto, recentemente abbozzati, siano un freno all’emigrazione (e non un aiuto a regimi repressivi e autoritari).
UE: elezioni europee, giochi di personalità
Da quando è in campagna per un secondo mandato alla guida della Commissione europea, cioè almeno dalla scorsa estate, la presidente Ursula von der Leyen, forte adesso dell’investitura del PPE, fa scelte che sembrano essenzialmente finalizzate non a portare avanti l’integrazione, ma piuttosto ad assicurarle il consenso necessario a essere confermata. Con il risultato che la disinvoltura con cui va sottobraccio a conservatori poco europeisti e molto di destra le aliena più consensi di quanti non gliene procuri.
Eppure la concorrenza non è particolarmente agguerrita: i socialisti candidano l’attuale commissario agli Affari sociali, il lussemburghese Nicolas Schmidt, un ‘signor nessuno’; e i verdi puntano su due loro eurodeputati, la tedesca Terry Reintke e l’olandese Bas Eickhout; i liberali s’astengono, ma Emmanuel Macron, presidente francese, pensa a Mario Draghi alla presidenza della Commissione (e, in subordine, alla premier estone Kaja Kallas a capo della diplomazia europea). Conservatori e sovranisti studiano come diventare influenti nelle scelte dell’Unione: cosa che è loro raramente riuscita, nella legislatura ormai conclusasi.
Nei discorsi programmatici, von der Leyen dice che l’UE deve mantenere la sua democrazia “sana e sicura”, mentre la Russia rielegge con un plebiscito Vladimir Putin a un quinto mandato e gli USA rischiano di rimandare alla Casa Bianca l’imprevedibile e inattendibile Trump, uno che mette sopra ogni cosa il suo ego e chiuderebbe volentieri l’alleanza con l’Europa in un cassetto della storia.
I sondaggi danno in ascesa i sovranisti con venature di xenofobia di Marine Le Pen in Francia (ma non quelli della Lega loro alleati in Italia) e i conservatori di Meloni in Italia (ma non i loro alleati in Polonia e Spagna). L’esito del voto in Portogallo promuove la destra, senza troppo penalizzare i socialisti, ma vede, soprattutto, un balzo in avanti dell’estrema destra. E, in Germania, i neo-nazisti di AdF vengono ‘antagonizzati’ da un nuovo partito di sinistra guidato da Sahra Wagenknecht. Queste, almeno, alcune proiezioni di Europe Elects per Euractiv.
In Italia, la partita delle europee non si gioca per coalizioni, ma è un ‘tutti contro tutti’, specialmente un ‘Lega contro Fratelli d’Italia’, perché si prevede che i rapporti di forza del 2019 fra i due partiti siano rovesciati. Così, il leader della Lega Matteo Salvini contrasta le mosse di Meloni ed esclude, ad esempio, un voto per UvdL, mentre Meloni coltiva l’amicizia con l’ex ministro della Difesa tedesco. Salvini insiste “per una maggioranza senza i socialisti” in Europa (e, fin qui, Meloni ci può stare), ma spara anche ad alzo zero contro il PPE e von der Leyen, soprattutto per quelle che definisce “politiche folli pseudo-green” – la nuova frontiera negazionista delle scelte ambientaliste, alimentata dalle proteste contadine. Come se un pianeta arido e torrido giovasse all’agricoltura.
La frenesia elettorale non favorisce scelte a medio e lungo termine, ma porta a pecette sui migranti, l’energia, il clima; e riduce, come già detto, la prospettiva dell’Unione della Difesa, che le guerre alle porte rendono attualissima, a un’Unione dell’industria degli armamenti. Nel sostegno all’Ucraina, si leggono venature di stanchezza: da una parte, ci sono le scaramucce di retroguardia dei coltivatori polacchi contro l’import di cereali ucraini; dall’altra, le reiterate – e avventurose – fughe in avanti di Macron, che evoca l’eventualità di presenze della NATO in Ucraina (gli altri leader occidentali frenano; Putin, all’atto dell’insediamento per un quinto mandato, nel giorno della parata della Vittoria sulla Piazza Rossa il 9 Maggio, avverte che sarebbe la Terza Guerra Mondiale, l’olocausto nucleare).
UE: Vertice di aprile, le ansie internazionali distraggono dagli scenari europei
All’ultimo Vertice europeo pre-elezioni, a metà aprile, è successo, come accade spesso, che l’attualità ha fatto deragliare un incontro che doveva tratteggiare il futuro dell’UE, dal miglioramento della competitività al completamento, mai perfezionato, del mercato unico, traendo linfa dai lavori preparatori affidati a due ex premier italiani, Draghi ed Enrico Letta.
A dare pepe all’appuntamento, il fatto che Draghi è oggettivamente in corsa per uno degli incarichi di punta delle Istituzioni europee nella prossima legislatura 2024-2029: la presidenza del Consiglio o la presidenza della Commissione, dove le chances di Ursula von der Leyen, inattaccabile fino alla primavera, sono in caduta libera in questo momento, tra diffidenze politiche e incidenti di percorso. Ad avere “sguainato i coltelli” contro la presidente uscente – l’immagine, che è attuale a Bruxelles, evoca le Idi di Marzo – sono socialisti, verdi, liberali, indispettiti dall’insistenza con cui UvdL corteggia i conservatori; ma c’è fronda anche nel suo partito, i popolari europei.
Tutta la prima giornata del Vertice di aprile è stata occupata dalle crisi internazionali: l’Ucraina, dove il presidente e il ministro degli Esteri di Kiev Volodymyr Zelensky e Dmytro Kuleba rinnovano pressanti appelli ad avere più armi e più munizioni, specialmente per la difesa aerea, mentre il loro Paese è sempre più esposto agli attacchi russi su obiettivi militari e infrastrutture energetiche e industriali; e, soprattutto, il Medio Oriente, dove il botta e risposta tra Israele e Iran e l’ostinazione israeliana per l’offensiva militare su Rafah ingigantiscono i timori di un allargamento del conflitto.
In assenza di volontà di pace tangibili dei protagonisti dei conflitti e di iniziative di pace concrete internazionali, i leader dei 27 hanno, in realtà, poco margine d’azione e di reazione, come, del resto, i consessi mondiali, dal G7 all’ONU, paralizzati volta a volta da logiche di contrapposizione e/o dalla regola dell’unanimità. Ne scaturiscono solo giri di vite alle sanzioni contro la Russia e l’Iran: sono 27 mesi, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che la politica estera europea si riduce sostanzialmente alle sanzioni, con effetti scarsi o nulli e qualche autogol.
Eppure, le sortite anti-NATO di Trump e la morte in carcere dell’oppositore russo Alexei Navalny potevano dare un impulso all’Europa della Difesa: evocano lo spettro di un disimpegno degli USA nei confronti degli alleati europei e rinnovano la minaccia per la libertà rappresentata dal Putin. L’auspicio, intuitivo e immediato, di un colpo di reni europeo di fronte agli eventi internazionali aveva trovato qualche riscontro a febbraio, a Monaco di Baviera, al Forum della Sicurezza, dove UvdL aveva detto che, se sarà confermata presidente della Commissione, creerà un commissario alla Difesa: un gesto significativo, ma allo stato simbolico.
Sarebbe, infatti, illusorio pensare che basti nominare un commissario alla Difesa per fare un’Unione della Difesa: dal 2009, c’è un capo della diplomazia europea (ora, Josep Borrell), ma non per questo c’è una politica estera europea. Per arrivarci, alla politica estera come a quella della difesa, bisogna conferire all’Unione poteri adeguati e abolire, su questi temi, il vincolo dell’unanimità: e sarebbe meglio, anzi è inevitabile, partire non a 27, ma da un nucleo ristretto, coeso e determinato, come s’è fatto con l’euro e, prima, con la libertà di circolazione delle persone.
Se l’Unione vuole avanzare sulla via dell’integrazione, deve approfondire la propria coesione prima di procedere ad ulteriori allargamenti che, con le regole attuali, avranno solo effetti paralizzanti; o ci deve essere un nucleo di Paesi più coesi e più compatti che esplori percorsi dell’integrazione finora non disboscati sui terreni della politica estera e della difesa, dell’immigrazione e dell’integrazione, dell’energia e del clima. Per l’Italia, la sfida, come già ai tempi dell’euro, è di riuscire – e volere – essere nel nucleo forte.