Il quarantottenne catalano Albert Serra non era particolarmente conosciuto nove anni fa, quando realizzò “La mort de Louis XIV”. Anzi, a dirla tutta, non se lo filava nessuno, almeno fuori dalla Spagna. Poi, l’anno scorso, ha diretto “Pacifiction”, che lo ha proiettato, giustamente, fra i registi di culto, ancorché di nicchia. Oggi si ripescano, con parsimonia, i pochi film precedenti ma non questo. Cosa abbastanza strana e comunque ingiustificata, se non altro in quanto ultima, monumentale interpretazione da protagonista di Jean Pierre Léaud, la cui ultima (almeno finora) apparizione sugli schermi risale a cinque anni fa: un delizioso cameo in un film (pensa te!) di Walter Veltroni, “C’è tempo”, all’interno della Brasserie Lipp di Parigi. Cioè uno dei pochissimi posti di Parigi dove si mangia fino a mezzanotte: anche d’estate nell’ex Ville Lumière, dopo le dieci e mezza, quando va bene non trovate da mangiare nemmeno prostituendovi. Da bere sì, finché volete e fino alle ore piccole; da mangiare no.

Avevo quindici anni, uno in più del protagonista, quando vidi per la prima volta “I 400 colpi” al cineforum del liceo, organizzato dai più grandi presso una sala parrocchiale dei dintorni prestata volentieri senza muovere obiezioni sulle scelte. Pochi altri film hanno marcato così indelebilmente, accompagnandola, l’educazione sentimentale di tre generazioni; in particolare della nostra, davanti alla quale si apriva una pagina di cinema e di vita (quella delle “nouvelles vagues”) che avremmo prediletto, accarezzato e riletto negli anni a venire. Film che ci avrebbero raccontato e identificato come nessuna altra carta d’identità estetica e morale. Molto oltre i termini del fascino, dell’ammirazione, dell’adesione politica, artistica o culturale. Qualche cosa che ha a che vedere con il desiderio, nel suo senso più puro, alla luce della quale avremmo perlustrato il nostro mondo. Con le mani in tasca e i piedi…. così.

Ne ha passate molte, Jean Pierre Léaud, protagonista di quel film e dei quattro che lungo un arco di vent’anni avrebbero legato personaggio (Antoine Doinel), attore (Léaud) e regista (François Truffaut, il primo ad andarsene, quarant’anni fa). Ne ha passate molte ma è ancora qui e qualche giorno fa ha compiuto ottant’anni. Il mio cento di questi giorni (magari anche migliori, via) accompagni la recensione di questo sua ultima, enorme interpretazione, sperando che la nuova fortuna del regista porti a riconsiderarla come merita.

 

La “mort de Louis XIV” di Albert Serra

È il 9 agosto del 1715. Sul suo regale scranno da passeggio, Luigi XIV rientra dalla caccia nel parco di Versailles, sospinto dai servi. Lo affligge un dolore insopportabile a una gamba e questo rimarrà l’ultimo suo pomerigio all’aria aperta. Dentro, lo aspettano l’immobilità, la cupezza di arredi e tessuti degli appartagmenti reali con i loro preziosi colori (il rosso dominante, il bruno, il verde) e i tremendi afrori della malattia e della marcescenza. Un’agonia che si concluderà il 1° settembre, quando colui che fu il “Re Sole” chiuderà la sua esistenza, a 77 anni di cui 72 di regno. A letto, in posizione semisdraiata, il volto praticamente inerte, piccolissimo dentro la grottesca cotonatura dell’immensa parrucca, il re biascica piano, lentamente, ininterrottamente. La sofferenza è atroce, lo sguardo esprime una disperazione quieta e lancinata. Intorno a lui le sue donne: Madame de Maintenon, l’ultima moglie, morganatica (Maria Teresa d’Asburgo è morta da vent’anni), e le belle Marchese di Cujas e di Sassonia sulla cui venustà (come sulle virtù: una “non molto timida”, l’altra “un po’ più impegnativa”) il sovrano scambia col medico reale, il fido Fagon, alcune complici e meste battute. A lui, che ha il privilegio professionale di auscultarne battiti e respiri, Sua Maestà chiede come andiamo a seno: “Belle eh?”. Già. Architetture lontane, per l’ex grande seduttore.

 

 

E poi la corte: il primo valletto di camera Blouin, gli ingegneri, i consiglieri, i medici Maréchal, oltre a Fagon. Altri se ne aggiungeranno, chiamati dall’Università di Parigi. Tutti più o meno come gli evocati, da Fagon, medici di Molière: purghe, improbabili pozioni e soprattutto salassi. Nessuno, se non troppo tardi, diagnosticherà la cancrena e nel dubbio se amputare o no il male farà il suo corso, fra pensose manipolazioni e pietose applicazioni di unguenti, in un infinito strazio. Da Marsiglia arriva anche uno strano, chiacchierato anti-medico, il dottor Le Brun, che vanta un rimedio infallibile e segreto all’impotenza della medicina “ufficiale”: una miracolosa pozione di “sperma e sangue di toro e grasso di rana”. Schifosissima, accompagnata e giustificata da brillanti circonvoluzioni dialettiche sulle stelle, i pianeti e la linfa vitale. Bevuto l’intruglio, il Re troverà, con le ultime forze, il fiato sufficiente per farlo arrestare. Ma non è che gli altri fossero molto meglio: quello era lo stato della medicina a disposizione dell’uomo forse più potente del mondo. Stessa cosa per l’igiene: anche a Corte, spiegano gli annalisti, le abluzioni avevano la periodicità delle eclissi di sole. Fra interessati consiglieri che cercano di ottenere l’ultima regale apertura di borsa per un’opera faraonica all’imbocco del porto di Roche, brevi pause per la messa o per una riunione con i ministri, cardinali convocati per l’estrema unzione e poi revocati (provvederà il fedele padre Tellier), il monarca berrà fino alla feccia il calice di una straziante agonia.

 

 

Oltre che al pensiero del seno della marchesa di Cujas, due sole volte lo vedremo sorridere. La prima davanti ai suoi cani: due magnifici cani da caccia, come quelli di ogni sovrano del tempo, che si fa portare accanto al letto quando ha voglia di distrarsi dalla gente che ha intorno – contraddicendo il parere dei medici, convinti che portino malattie. La seconda davanti al piccolo pronipote destinato a succedergli. Un’epidemia di vaiolo, il male che lo aveva risparmiato da bambino, gli aveva falcidiato la famiglia: figlio (il Delfino) e nipoti maschi. Sarà quindi un pronipote il quindicesimo dei Luigi, che come lui e come suo padre riceverà la corona a cinque anni. Bisognerà attendere Luigi XVI, quello della Bastiglia, per vedere dopo un secolo e mezzo un Re di Francia incoronato a vent’anni e non in età pediatrica. Al piccolo pronipote, a lui carissimo, il Re trasmetterà la Corona, con un abbraccio e una raccomandazione che sembra provenire più dall’interprete che dal personaggio: “Figlio mio, sarai un grande re. Non imitarmi nella passione che ho avuto per i grandi edifici e neppure in quella che ho avuto per la guerra, piuttosto stai in pace con i tuoi vicini. Rendi a Dio quanto gli devi, fallo onorare dai tuoi sudditi, cerca di migliorare la situazione del tuo popolo”. Un lascito impegnativo per un Luigi, ma forse il ragazzo vi si avvicinerà. Verrà considerato infatti un Re debole; lo si accuserà di avere abbassato il prestigio della Francia nel mondo. Il contrario del bisnonno ispiratore, che da dove si trovava probabilmente sorrise.

 

 

Nella parte del sovrano, forse la sua prima, vera, interpretazione da molti anni, Jean Pierre Léaud è straordinario. Inappetente – un brodino, un uovo a la coque, un biscotto e poi il fastidio, la nausea – con i cortigiani e le donne che lo applaudono come un bambino che mangia il biscottino. Bruciato dall’arsura, le ultime flebili tracce dell’usata autorità spese con i valletti nella richiesta di un bicchier d’acqua o di un cappello piumato (che, ricevuto, prova e restituisce immediatamente con una smorfia). L’angoscia delle notti. Abbandonato come un animale ferito, docile nelle mani dei medici – ventre, gambe, piedi – seduto, sdraiato, nei brevi sempre più faticosi tentativi di alzarsi. Attonito, perduto lo sguardo nelle progressive, silenziose assenze di un uomo non più padrone di sé; quieto in un delirio che è deliquio come verso un approdo, una liberazione. I tremori, e ancora il biascicare lento, continuo degli automatismi neurologici. E poi la paura della morte, le messe, il tentativo di riappacificarsi col cardinale che aveva cacciato e che non vuole più vederlo, la scelta dei documenti da bruciare e intorno tutti quei velluti, broccati, parrucche, camiciotti e il sudore, il senso di pesantezza di ogni cosa, gli umori, gli afrori, il buio di una messinscena che fonde pittura olandese e contrasti caravaggeschi. L’aria bagnata. E un paradosso, che si affaccia alla mente di chi guarda: neanche la morte – reale – di Nicholas Ray nel “Nick’s film” di Wenders era apparsa così “vera”. Uno di quei casi in cui pensi: o è morto davvero, o recita da Dio. Come modello d’interpretazione pare l’altra faccia della luna rispetto a quella rappresentata da Antoine Doinel, ma è l’altra faccia della vita. Sono passati dieci anni, il re è morto, ma Antoine è ancora qui e lotta insieme a noi.

 

 

Dopo “La mort de Louis XIV”, Léaud è tornato in pista con due film, usciti in Francia non in Italia, su cui è difficile trovare informazioni non sommarie. Il primo si intitola“Le lion est mort ce soir”, come la canzoncina di Henry Salvador (da noi: “Il leone si è addormentato”): “dans la jungle, terrible jungle…”. Il regista è Nobushiro Suwa, giapponese caro ai francesi e ignoto agli italiani, che diresse Juliette Binoche nell’episodio: “Place des Victoires (II arrondissement)” di “Paris, Je t’aime”; anch’esso inedito da noi nonostante la presenza nel cast di Sergio Castellitto e, fra gli autori, dei fratelli Coen, di Assayas, Cuàron e altri nomi di pari lignaggio. Dalle poche immagini reperibili sul web non potrebbe essere più diverso dal film di Serra. I colori sono quelli mediterranei di Provenza e lui è alle prese con una banda di ragazzini in un clima solare e gioioso. L’altro è “Alien Crystal Palace”, di Arielle Dombasle, attrice per Rohmer, Ruiz, Kahn, RobbeGrillet e regista di un pugno di film di non pari rinomanza. Di nobili lombi per parte di madre, oggi è la bella moglie di Bernard HenryLévy. Del film si sa ancora meno che di quello di Nabushiro. Come in “Le lion est mort ce soir”, Léaud non vi ha una parte da protagonista. Per ora non vi sono progetti in vista. Buon compleanno, Antoine!