Vivere nelle città o nelle metropoli comporta l’affrontare quotidianamente problemi di convivenza, di accettazione e di tolleranza, situazioni che nascono dalle inevitabili complessità che si creano. Cercare livelli di compromesso implica l’esigenza di accettare alcuni disagi e necessariamente conviverci. Il rispetto, la tolleranza e l’equilibrio sono valori fondamentali per il futuro delle metropoli, che devono tendere alla ricerca di una nuova identità della convivenza civile. Gran parte del disagio che proviamo quando dissertiamo di “etica e metropoli” sta nel fatto che osserviamo una situazione schizofrenica che ci inquieta e ci turba.
Viviamo in città che ci uniformano ma, contemporaneamente, ci rendono troppo individualisti, in cui ognuno segue i propri interessi personali e non comprende l’alterità e la diversità culturale e comportamentale del prossimo. Per capire meglio, basta osservare la dinamica principale della città moderna: l’ordine che pretende di imporre al suo interno crea disordine altrove, in luoghi già collocati naturalmente al suo esterno o che devono essere creati appositamente all’esterno. Con la naturale ricorrenza che ogni incremento di ordine in qualche parte interna comporta un incremento di disordine in qualche parte esterna.
Uno dei tanti modelli di pianificazione urbana tende a controllare la produzione di nuovi ordini facendo ricorso alla nozione di gerarchia. Le città che si sono delineate dall’Ottocento in Europa si sono basate su una precisa gerarchizzazione dal centro alla periferia, in una sequenza di aree residenziali, specializzate, produttive e marginali, dividendosi in sottosistemi. Le differenze architettoniche, economiche, culturali e sociali delle diverse zone hanno determinato una realtà complessa, molto più complessa nel caso di una città polietnica. Tuttavia, al momento attuale, soprattutto nelle città più importanti e vivaci del pianeta, questa strategia sta mostrando i suoi limiti e si assiste a una sorta di degrado diffuso, al crollo del progetto etico della città moderna, dove l’idea di un’accessibilità reciproca delle sue componenti, del rapporto tra i suoi abitanti e le loro esperienze, si scontra con il modello cognitivo di uno spazio urbano omogeneo che invece si rivela estremamente differenziato.
Ora viviamo in un mondo di teleconferenze e di reti di informazioni che si trasmettono e si distruggono in tempo reale, producendo rapporti di dialogo in tutto il mondo, ma come contropartita registriamo la massima incomprensione, estraneità o addirittura ostilità nel nostro stesso vicinato. Ci siamo trasformati in terminali sensibili, emittenti e ricettori di una grande quantità di informazioni che utilizziamo nell’ambiente di lavoro, nei rapporti interpersonali, nei rapporti affettivi, nel tempo libero.
La molteplicità dei messaggi che dilatano le nostre esperienze cognitive indebolisce i nostri punti di riferimento fisici (nella città) e affettivi (nella famiglia). Negli stessi spazi urbani possono convivere alta tecnologia e alto degrado, massima omogeneizzazione e massima differenziazione; vi si muovono rampanti economisti e bande malavitose. Queste situazioni pongono importanti interrogativi al nostro immaginario collettivo.
Dobbiamo credere in un modello diverso, in una città che disfa e crea continuamente, che si assume il compito etico di accettare la sua continua trasformazione, che garantisce di poter gestire i molteplici livelli di accessibilità tra i suoi sottosistemi riconoscendo la trasformazione delle differenze. Ma soprattutto, se vogliamo disegnare una nuova etica della città, dobbiamo distogliere lo sguardo dal passato cui siamo stati ostinatamente aggrappati e vivere più elasticamente un quotidiano che si fa multiplo e discontinuo, con i ritmi variabili imposti dal flusso e dalla qualità delle informazioni che riceviamo, in cui la nostra percezione si dilata e si restringe continuamente, rendendo difficile mantenere un’identificazione stabile con un gruppo o una cultura.