Quando nel 2022 ero a Mosca a capo della nostra rappresentanza diplomatica e Putin aveva scatenato il suo attacco militare in territorio ucraino, denominandolo “operazione speciale”, avevo trascorso intere giornate in contatti con i colleghi a Roma, con gli ambasciatori europei e di altri Paesi accreditati a Mosca e con i funzionari di più alto livello del Ministero degli Esteri russo, il leggendario MID, che si trova in un alto e un po’ lugubre edificio di architettura sovietica nelle vicinanze della nostra Ambasciata. In particolare, ai colleghi russi trasferivo tutte le nostre critiche per l’iniziativa adottata da Putin che tornava a violare l’integrità territoriale dell’Ucraina. Ripetevo loro con convinzione che questo conflitto avrebbe prodotto solo conseguenze negative sul piano politico, economico e sociale per la Russia. Come molti in quel tempo, avevo sottovalutato la durata e la portata della guerra scatenata da Putin. I fatti ci hanno dimostrato tutto il potenziale devastante della guerra moderna, dove nuove tecnologie dei droni, degli attacchi cyber e l’utilizzo dei satelliti si intrecciano con l’elemento umano fatto di centinaia di migliaia di morti e feriti da entrambe le parti ed enormi devastazioni delle infrastrutture civili e delle città ucraine. Poi c’è la parte forse ancor più insidiosa: la guerra di propaganda fatta di mistificazioni da entrambe le parti, di operazioni mediatiche dirette a scavare solchi di odio e diffidenza sia tra le nazioni in guerra che, più in generale, tra la Russia di Putin e quello che a Mosca viene denominato “l’Occidente collettivo”. Noi europei, con gli alleati americani, abbiamo sostenuto il Paese aggredito con sostanziosi aiuti economici e militari e, nei fatti, stiamo conducendo una “guerra per procura” contro le forze russe di invasione in territorio ucraino. In un certo qual modo, come in alcune fasi del tardo impero romano, l’Occidente aiuta un popolo ai confini dell’Impero contro invasori orientali, ma sul campo di battaglia, ai confini dell’Europa democratica, non ci sono truppe NATO, ci sono gli ucraini che si battono tra mille difficoltà contro un nemico numericamente e militarmente più forte.
L’esercito di Zelensky ha in questi giorni attaccato a sua volta la Russia nella zona di Kursk. Si è scritto e dibattuto a lungo in Occidente se quest’iniziativa costituisca un errore perché pone l’Ucraina nella stessa categoria della Russia di Putin, e cioè tra i Paesi aggressori, o se invece l’iniziativa sia pienamente lecita, rispondendo alla logica della legittima difesa o comunque al principio dell’autotutela di un Paese aggredito nei confronti dell’aggressore. L’Ucraina si è mossa con spregiudicatezza, occupando centinaia di chilometri quadrati di territorio russo lungo i confini settentrionali, perseguendo l’obiettivo militare di alleggerire il fronte del Donbass e distruggere centri di logistica che alimentano le truppe nel fronte settentrionale, dove i russi guadagnano terreno, quello psicologico di portare la guerra e le distruzioni in Russia facendo provare ai russi che questa guerra non mette in sicurezza il Paese (come dice Putin), ma lo espone invece a morte e distruzioni, e quello diplomatico consistente nel preparare i futuri negoziatori ucraini a un duro negoziato territoriale con la Russia, avendo qualcosa da scambiare con i territori attualmente conquistati dai russi. Da non sottovalutare anche l’aspetto mediatico consistente nel riportare l’attenzione nell’area quando i social, la stampa e i telegiornali si concentrano sugli sforzi negoziali per la soluzione della crisi di Gaza e le minacce dell’Iran, e quello politico: dimostrare ai membri del Congresso e all’opinione pubblica americana, in vista delle prossime elezioni presidenziali, che gli ingenti fondi finora spesi in aiuti militari all’Ucraina stanno producendo nuovamente dei risultati.
Due anni e mezzo di guerra, un enorme dispendio di risorse finanziarie da entrambe le parti, oltre a morti, feriti e distruzioni, hanno dimostrato che l’opzione militare per risolvere la crisi ucraina è fallita. La pressione per l’avvio di una soluzione diplomatica crescerà in Occidente. Il grande peso finanziario di questa guerra non può essere sostenuto ad oltranza senza un obiettivo definito e condiviso, e la recessione economica della Germania, la più grande economia d’Europa, è una realtà sempre più concreta. In America la partita è aperta, ma è evidente che, nonostante i notevoli guadagni delle aziende legate all’energia e all’industria della difesa, lo sforzo bellico non può essere sostenuto senza un orizzonte definito. Il logoramento dell’apparato bellico di Putin è stato in parte acquisito, ma non l’isolamento diplomatico ed economico della Russia, che vanta molte sponde tra i Paesi BRICS, in Africa e nel mondo arabo, nonostante il regime sanzionatorio imposto dall’Occidente.
Putin da parte sua non può più immaginare la teorizzata “denazificazione” dell’Ucraina. La sua partita politica sembra persa e l’Ucraina difficilmente tornerà ad essere parte dell’orbita “pan-slava” che il presidente russo vorrebbe contrapporre all’“Occidente collettivo”, né i suoi strateghi militari sembrano disponibili ad esporre le truppe russe a logoranti e inutili assedi di grandi città ucraine (il caso di Kharkiv), esponendosi a guerriglia urbana dove le unità ucraine, addestrate da istruttori NATO, hanno dimostrato la loro efficacia.
Ma l’offensiva a Kursk ha riportato le lancette indietro, allontanando i tempi di un auspicabile trattato che ponga fine alle ostilità e avvii un negoziato di pace. Le polemiche a Mosca traspaiono sui social come nelle emittenti televisive: è il momento degli elementi più nazionalisti che vogliono una “punizione” di Zelensky.
Dopo le elezioni americane e dopo ulteriori deprecabili e inutili massacri, spero che la ragione prevalga e l’iniziativa passi di nuovo alla diplomazia.