È morta Gena Rowlands e noi siamo più poveri. Da tempo l’avevamo persa di vista, ben prima che la malattia di Alzheimer la cogliesse, ormai quasi novantenne, rubandole gli ultimi anni. Dal 1989, ormai vedova, lavorava quasi esclusivamente per i due figli registi: Nick, in particolare, e Zoe (un solo titolo, “Broken English”, inedito da noi). Qualche eccezione, quasi in via amicale, per Terence Davies, Lalle Hallström, Jim Jarmush (il primo episodio di “Taxisti di notte”; in un altro c’era anche Benigni), Forest Whitaker. Ma quei trentacinque anni di cinema e di vita con John Cassavetes avrebbero riempito qualunque esistenza, lasciando ai successivi memoria, figli e universale eredità d’affetti.

Si erano conosciuti giovanissimi all’Accademia Americana di Arti Drammatiche, lei figlia di un deputato del Wisconsin, lui di immigrati greci a New York. Sposati nel’54 a ventiquattro e venticinque anni, quattro anni dopo avevano già fondato la loro scuola di recitazione off-Broadway, diretta da lui, già con un bel bagaglio di piccole parti alle spalle e idee molto precise di quel che voleva.

Lo aveva visto in Europa il suo cinema, in quegli anni: occhio semi-documentario, camera a mano in strada, pochi soldi, pochi amici ma conoscere tutti, case e famiglie mobilitate. “Scuola di New York””, l’avrebbero chiamata, dopo il sorprendente esordio di “Shadows”, girato fra gli afroamericani di Manhattan: 16 mm, una colonna sonora di Charlie Mingus a dare il ritmo e stesso dominio dell’improvvisazione anche nello stile. Tema: le relazioni fra giovani di pelle bianca (anche afroamericani) e di pelle scura. Cinquanta sfumature di nero. Due versioni: buona la seconda e scartata la prima, che verrà addirittura persa e ritrovata, anni dopo, dentro uno scatolone in una stazione della metro da uno che passava di lì. Ma né l’uno né l’altra erano fatti aderire a una scuola. Neanche a quella che quasi naturalmente si offriva loro, nati com’erano in quell’ambito, del “New American Cinema”, l’underground californiano e newyorkese. Meglio essere compagna e musa, lei (ma la cosa li avrebbe fatti ridere), e padre lui, forever young, di quel tipo di cinema che gli americani chiamano oggi “indie” (indipendente). A modo loro dei capiscuola. Quanto al “forever”, è ancora in rete quella famosa mezz’ora di “Match”, conduttore Alberto Arbasino (chi riuscirebbe oggi a immaginare un “talk” del genere?), in cui un giovane, supponentissimo Moretti bullizzava un fin troppo paziente Monicelli e dove l’unico riferimento in grado di unire i due contendenti era proprio lui, John Cassavetes. Era il 1977.

Con “Ombre”, arrivarono gli amici di una vita: Peter Falk (il tenente Colombo), l’altro Italo-americano Ben Gazzara, il baffuto Seymour “Moskowitz” Cassel (co- produttore di “Shadows”), l’aria perenne del dropout, è più tardi l’ebreo russo-ucraino Alan Arkin.. Con loro i primi grandi film di un periodo bellissimo: “Volti”, “Mariti”, “Minnie e Moscowitz”. Tutto bene? No, per niente. Ma quel che non andava, quel che avrebbe portato lui a morire a neanche sessant’anni, divenne canone, non solo artistico, dei loro film migliori. Primo dei quali, nel 1974, “Una moglie”” (“A woman under the influence”). Il capolavoro. Questo, avevano in mente Moretti e Monicelli.

 

 

Il titolo inglese di “Una moglie” non riguarda l’influenzabilità, almeno nel senso che diamo noi a questo termine. L’influenza di cui si parla nel film è quella dell’alcool. Mabel Longhetti (americana sposata a un italiano) è una donna con tre figli piccoli, fortemente esaurita, che beve troppo. Il marito, un Peter Falk monumentale nel suo yankee con influenze italiane, è un operaio edile; un brav’uomo che arriva dove può e le riempie la casa – già affollata di madri e padri, suocere e suoceri, fratelli e sorelle, italiani e americani (tutti, figli compresi, rigorosamente Cassavetes&Rowlings) – di amici e compagni di lavoro di ogni sorta in una piedigrotta che manderebbe nei matti chiunque al posto di quella disgraziata che si sente sull’orlo della follia (e non è un film di Almodovar). Ci vorrà un ricovero in clinica e un ritorno a casa in cui si sfiorerà la tragedia, perché Nick prenda coscienza (quanto provvisoria?) dello stato di sua moglie e provveda, in una sequenza memorabile, a liberare bruscamente casa da quell’assurdo carnevale di madri, amici, zie, bambini (no, i bambini no), operai e fancazzisti assortiti (tutti ottimamente disposti, per carità) per restituirle pace ed equilibrio.

Quella che aspetta ora Mabel e Nick è una situazione a cui non sono preparati, che lei soffre atrocemente e lui no, ma da cui possono riuscire solo insieme. Da tempo però John e Virginia (detta Gena) devono affrontarne una simile; con la differenza che fra loro quello “under the influence” é lui, anche se non dà di matto. Per dieci anni Cassavetes racconterà cose importantissime su tutti noi, sulle relazioni fra i sessi e su amori e buoi (pochissimi i buoi) dei paesi altrui. E tanto altro. Lo farà strutturando intorno a lei, in tre mosse e tre film, uno psicodramma familiare in cui quella che ha bisogno di aiuto è lei e il suo sostegno, più o meno adeguato, é lui; direttamente o per interposto protagonista come Peter Falk in Una moglie. Per dieci anni (soprattutto in “La sera della prima”; poi, in “Love streams”, sarà già una cosa un po’ diversa, tra fratello e sorella) cercherà di imparare da lei ribaltando teatralmente la situazione reale. Le metterà in spalla la sua scimmia e la guarderà dibattersi e ribellarsi. Lui che aveva rifiutato da giovane le suggestioni del metodo StrasbergActor’s Studio, ritenendolo più una terapia che una tecnica di recitazione, insofferente di quella che riteneva un’invadenza della psicanalisi, volse in una direzione simile il suo metodo. Componendo arte e vita in una di quelle grandi partite di scacchi in cui ad ogni accenno di stallo di uno dei due si gira la scacchiera e il più forte cerca di riportare la situazione in equilibrio subentrando nella posizione dell’altro. Per quindici anni l’hanno rivoltata questa scacchiera e il gioco di arte e vita riprendeva. Poi è stata la cirrosi a rovesciare il tavolo.

Si è chiusa a cinquantanove anni la partita di John. Non c’è diagnosi dell’infelicità più inesorabile di quel referto: cirrosi epatica. Insieme, un uomo e una donna giovani e bellissimi hanno strappato alla scimmia ubriaca gli anni di una grande avventura. Entusiasti e innamorati hanno rubato all’infelicità di lui il tesoro di un pugno di anni, di figli e di film meravigliosi, che ritornano in mente tutti, uno dopo l’altro nel loro smagliante corteo, oggi che anche lei non c’è più e noi siamo tutti quarant’anni più vecchi.