La Costituzione europea, vent’anni dopo

Il Consiglio europeo di Laeken, con l’istituzione di una “Convenzione sul futuro dell’Europa” nel 2001, dava formalmente avvio al processo costituente europeo. L’obiettivo, contenuto nell’omonima Dichiarazione, era di portare le istituzioni europee più vicino ai cittadini e di ricomporre la natura istituzionale dell’Unione in uno schema organizzativo più razionalizzato.

La spinta al cambiamento non era imprevista. La visione di un’Europa sempre più integrata si ispirava a un’unione politica e sociale che non fosse solo economica. A partire dal Manifesto di Ventotene del 1941, varie furono le iniziative che si presero carico di portarla avanti, tra cui la comunità politica europea del 1953, il Progetto Spinelli del 1984 col suo famoso Club del Coccodrillo, nonché il Progetto Herman del 1994. Difese con vigore dai loro sostenitori, le ambizioni degli europeisti non erano però mai sfociate in una Costituzione prima di allora.

La svolta di Laeken giungeva come un tentativo di dare una risposta ai molteplici problemi che l’Europa sarebbe stata destinata ad affrontare in vista del vasto allargamento del 2004. Dieci nuovi Stati membri avrebbero sconvolto gli equilibri politico-istituzionali dell’Unione. Si apriva, evidentemente, una questione “istituzionale” che si ergeva come un tema trasversale, permeando ogni discussione.

In effetti, pur in assenza di radicali cambiamenti, si era già avviata una costituzionalizzazione de facto, portata avanti soprattutto attraverso l’impegno dei giudici della Corte di Giustizia europea. Questa forza trasformativa, però, non poteva che essere frammentaria. Mancava quel balzo in avanti che facesse acquisire all’Europa dei petits pas una dimensione più organica.

C’era un bisogno costituzionale che non trovava risposta: «la Comunità ha bisogno di essere governata e non ha un vero governo; ha bisogno di avere leggi e non ha potere legislativo vero e proprio; ha bisogno di partecipazione popolare intorno alla sue iniziative e non ha meccanismi politici che le permettano di sviluppare con continuità le sue iniziative» (Dastoli e Pierucci, 1984).

Occorreva, dunque, correggere lo scollamento nei Trattati fra forma e realtà. Temi come la politicizzazione della Commissione europea, il rafforzamento del Parlamento, la mancanza di valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali e la frammentarietà dell’approccio alla politica estera diventavano sempre più pressanti.

All’esito della Convenzione, come è noto, fu approvato il Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Nonostante l’entusiasmo, questo “constitutional moment” – come direbbe il costituzionalista nordamericano Ackerman – si arenò definitivamente qualche mese dopo per via dell’esito negativo dei referendum popolari in Francia e nei Paesi Bassi.

A distanza di vent’anni dalla firma di tale Trattato è opportuno, allora, fare il punto sulle ragioni strutturali che hanno condotto al fallimento di quella fase del processo costituente europeo e sul perché, ancora oggi, certi nodi non siano stati sciolti.

Le crisi, sia endogene che esogene, affrontate dall’Europa nel corso del tempo sono aumentate. Basti pensare, negli ultimi anni, alla crisi del debito sovrano, all’emersione dei populismi e dei sovranismi, alla Brexit, alla pandemia da COVID-19, all’aggressione russa in Ucraina, alle ondate migratorie dall’Africa e dall’Est a cui, più recentemente, si è aggiunto il drammatico conflitto israelo-palestinese.

Queste vicende, spesso interconnesse fra loro, hanno creato una fonte costante di attrito tra gli Stati Membri, difficilmente sanabile attraverso riforme puramente “istituzionali”. Nel 2016, per descrivere questo stato di cose Jean Claude Juncker, allora Presidente della Commissione, aveva adoperato il termine “policrisi”, prendendolo in prestito dal filosofo francese Edgar Morin. Si è imparato che la policrisi richiede un approccio sistemico, e non accidentale, alle riforme. Quali sono, dunque, le sfide che si prospettano all’Unione europea come ordinamento costituzionale?

 

Il dibattito costituzionale sulla natura dell’UE

L’UE, per sua indole, sfugge a ogni tentativo di inquadramento dogmatico.

Nel 1952 essa nacque come un’organizzazione internazionale. Non può dirsi, tuttavia, che oggi sia una federazione. Cos’è, dunque?

Se alla giuspubblicistica sembra difficile concepire l’UE come un “super-Stato” o, per citare Ferry, uno “Stato Europeo post-nazionale”, nessuna delle altre due connotazioni risulta appieno soddisfacente. Sono i concetti stessi di Stato, federazione e sovranità che, nelle loro accezioni più tradizionali, non collimano perfettamente con le dinamiche da sempre in atto nell’Unione europea.

Se questa fosse un’organizzazione internazionale, infatti, non si capirebbe come in molte (o meglio nella quasi totalità) delle costituzioni degli Stati Membri esistano disposizioni costituzionali atte a conferire una parte della sovranità all’Unione e ad accettare che fonti prodotte all’esterno del proprio ordinamento possano primeggiare sulle leggi.

Se fosse, d’altra parte, una federazione, non si capirebbe perché non si è ancora posto rimedio alle fragilità del fondamento democratico dell’Unione. Fragilità che prima venivano etichettate come “deficit” democratico e che oggi, nonostante il processo di empowerment del Parlamento europeo, sono tornate di moda sotto mentite spoglie. Basti pensare al concetto di “democratic disconnect” (fra tanti, Benhabib et al.), che ripartisce equamente le colpe della “dissociazione” fra istituzioni e cittadinanza.

La contrapposizione fra federalisti e, si potrebbe dire, intergovernativisti, ha influito sull’evoluzione costituzionale dell’UE più di quanto si possa immaginare. Anche perché il dibattito sulla connotazione dell’Unione non ha solo una valenza politica o descrittiva ma ha anche, come è lecito immaginare, una ripercussione “normativa”, passando da un’ottica di costituzionalismo a un’altra, di politica costituzionale.

Molti sono gli argomenti spesi da coloro che hanno lungamente enfatizzato il percorso “federale” (Spinelli, Rossi, Colorni) e “costituzionale” (Weiler) dell’integrazione europea, fabbricando utili mattoncini per la costruzione dell’attuale architettura istituzionale. Da questo dibattito pluridecennale ha, da ultimo, preso le mosse la Conferenza sul futuro dell’Europa.

In genere, i federalisti sottolineano come l’UE sia un’organizzazione unica nel suo genere rispetto ad altre unioni regionali. Soltanto l’Unione, infatti, può vantare caratteristiche uniche e distintive come il principio del primato del proprio diritto. A ciò si aggiunga l’effetto diretto di alcuni suoi atti negli ordinamenti giuridici nazionali, la vincolatività delle pronunce della sua Corte anche tra i privati ma anche poteri più “tipici” di un ordinamento costituzionale. L’UE, inoltre, presta attenzione al principio di sussidiarietà, che stabilisce che le decisioni devono essere prese al livello più basso possibile. Ha istituito un sistema di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali, che si riflette nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Ha riconosciuto nei Trattati il rispetto delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, garantendo che le specificità nazionali siano tenute in considerazione.

In questa speciale comunità di diritto, alcuni studiosi concordano sull’idea che stia maturando una forma di governo sempre più “parlamentarista”, dove il Parlamento europeo si starebbe dotando di un ruolo sempre più di rilievo nel processo decisionale, riflettendo un “diritto al Parlamento” come attributo imprescindibile della cittadinanza europea (Lupo e Manzella).

Sull’altro versante, le deduzioni degli intergovernativisti (Moravcsik, Hoffmann) hanno da sempre costituito un ricco serbatoio per quei tribunali costituzionali nazionali – come ad esempio, ripetute volte, la Germania (basti pensare al Lissabon Urteil) o la Polonia – che hanno scelto di assicurarsi in via giurisdizionale degli spazi di manovra dalle “invasioni” di campo del diritto europeo.

Gli accademici che si oppongono all’idea dell’UE come ordinamento nel quale un giorno possa maturare effettivamente un processo federativo sostengono che, pur con le sue eccentricità, l’Unione Europea resta comunque un’organizzazione internazionale che riunisce paesi sovrani. In questo senso, la sovranità è vista, mutuando dalla dottrina tedesca, come un concetto indivisibile. Per cui, come una porzione di essa può essere trasferita, egualmente la si può revocare.

Anche in virtù dell’articolo 50 TUE e del suo primo storico precedente (la Brexit), si è accettata l’idea che gli Stati possano non solo minacciare, ma persino effettivamente portare a compimento, in qualsiasi momento, la scelta di ritirare la propria adesione. Non si tratta, dunque, di un atto di “secessione” ma di una legittima scelta sovrana. Gli Stati – altra peculiarità – sono le vere unità costituenti del processo di integrazione europeo: questi, e non invece un’assemblea costituente di eletti, manovrano attraverso i velluti della diplomazia le redini del cambiamento dei Trattati.

In linea con questo modo di vedere le cose, questa scuola di pensiero rimarca il ruolo chiave dei rappresentanti dei governi nelle decisioni fondamentali dell’Unione – le quali, non a caso, sono sovente all’unanimità –, e in questo senso non sottovalutano il ruolo di impulso del Consiglio europeo, un unicum nel panorama delle forme di governo.

Nel suo saggio “Europa senza illusioni”, Moravcsik osserva che l’UE è principalmente un’arena in cui gli Stati Membri cooperano e negoziano, piuttosto che un’entità sovrana capace di agire indipendentemente. Questo modello intergovernativo si riflette nelle istituzioni dell’UE, come il Consiglio Europeo e il Consiglio dell’Unione Europea, dove gli Stati Membri hanno un ruolo predominante nelle decisioni.

La mancanza di un’autorità centrale forte, che possa agire in modo indipendente dagli interessi degli Stati Membri, è uno dei principali ostacoli all’evoluzione dell’UE verso una forma federale. Così come l’assenza di un’autorità fiscale centrale limita la capacità dell’UE di finanziare e implementare politiche comuni in modo efficace.

Moravcsik non nega che l’UE abbia compiuto progressi significativi nel processo di integrazione. Tuttavia, sostiene che le dinamiche istituzionali dell’UE non possono essere facilmente trasformate in quelle di uno stato federale senza una riforma sostanziale e un’ampia accettazione da parte degli Stati Membri.

Impossibile, quindi, intaccare il domaine réservé dello stato nazionale. Si capisce, in quest’ottica, perché, ad esempio, la figura del “Ministro degli Affari Esteri dell’UE” non sia sopravvissuta a Lisbona, ma sia stata “camuffata”, per motivi politici, dalla denominazione di Alto Rappresentante. O perché si sia attuata una dinamica di cosmesi agli atti legislativi dell’UE che formalmente avrebbero dovuto essere rinominati “leggi” ma che, con un passo indietro, sono rimasti regolamenti e direttive.

 

Dal demos al telos

Se queste considerazioni non bastassero, gli antagonisti del percorso federativo costituzionale hanno un argomento che potremmo definire “nucleare”: l’inesistenza, in radice, di un popolo “europeo”.

L’illusorietà di un demos e il carattere artificiale della cittadinanza europea non potrebbero essere colmati da nessuna riforma. Un difetto talmente grave, insomma, da impedire persino di concepire l’UE come ordinamento giuridico “autonomo”, legittimato dal basso. Se, dunque, non vi è un popolo, non può esservi una Costituzione: anzi, si rischia la “decostruzione giuridica” (Itzcovich).

Eppure, non si possono sempre applicare al contesto europeo gli stessi standard degli Stati nazionali. La Costituzione, legge suprema e superiore alle leggi ordinarie, come sancito fin dal 1803 in Marbury v. Madison, resta un “arnese” tipico dello Stato-Nazione. E come tale, incompatibile con gli stilemi di un’organizzazione sovranazionale, composta invece da Stati che restano “sovrani”.

L’UE riposa su un meccanismo di legittimazione di doppio ordine grazie all’intreccio dei due principi sanciti dall’art. 10 TUE: nell’Unione devono essere rappresentati non solo i cittadini, ma anche gli Stati. Questa struttura non va a soppiantare le singole democrazie degli Stati, ma si aggiunge ad esse dando luogo a un sistema “composito” (Besselink).

Su un altro fronte, poi, la Corte di Giustizia europea, con la sua giurisprudenza, ha concretizzato l’altro fattore immancabile di un ordinamento giuridico: il telos, il fine ultimo. Quello dell’UE è racchiuso dall’art. 3, comma 1 TUE (“L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”): la norma designa, dunque, un ordinamento a finalità generali, non particolari.

Ogni azione dell’UE deve essere improntata al raggiungimento di questi obiettivi fondamentali, una funzionalizzazione che traspare fra le righe di note sentenze, come Costa v Enel (1964), che ha rivendicato il carattere autonomo dell’ordinamento UE, o Les Verts (1986), che ha qualificato l’UE come una comunità di diritto, dotata di un Trattato avente “carattere costituzionale”. Sentenze le quali, non a caso, per anni hanno dovuto fronteggiare una consistente resistenza delle corti costituzionali nazionali al primato del diritto europeo.

 

Un ordinamento costituzionale per metà

Non solo – si è detto, – la sua vocazione a fini generali si scontrerebbe palesemente con la settorialità delle sue politiche (Itzcovich), ma, inoltre, l’UE sarebbe carente di alcuni importanti elementi “pre-giuridici”. Non ci sarebbe nessun patto sociale, nessun “contratto” promosso e accettato dai consociati. Nessuna “consuetudine di riconoscimento” in base alla quale, come Hart insegna, tutti gli attori rilevanti della società condividono le aspirazioni di fondo dell’ordinamento e accettano di assoggettarsi alla sua autorità.

Le premesse ideologiche su cui è stata fondata l’Unione sarebbero, infatti, deboli e frutto di un “mito fondativo” durato circa cinquant’anni, poi crollato con il fallimento della Costituzione per l’Europa. La verità, sostiene Moravcsik, è che nel secondo dopoguerra l’integrazione europea era geopoliticamente necessaria per regolare l’interdipendenza economica e finanziaria e disciplinare la messa in comune di alcune risorse cruciali, come l’acciaio o l’energia atomica. Inoltre, serviva ottenere la democratizzazione della Germania (e della stessa Italia) per scongiurare l’avanzata comunista, da un lato, e mitigare l’“onnipresenza” militare statunitense sul continente, dall’altro.

Con un tale scenario geopolitico, quindi, era naturale che emergesse una sorta di “consenso permissivo” (Hurrelmann), visto come l’accettazione sommessa e strisciante delle popolazioni coinvolte. Così, dunque, l’Europa, per ragioni esistenziali, si doveva reggere e costruire su una società eterogenea, figlia della storia, frammentata fra vari stili di vita, confessioni religiose e condizioni economiche, pur sotto il segno delle “comuni radici giudaico-cristiane”.

Sembra quasi che non si possa sfuggire alla lettura internazionalista della natura dell’UE, che interpreta l’integrazione come un processo “a singhiozzo”, subordinato all’incedere lento e farraginoso delle riforme dei Trattati che, da Maastricht a Lisbona, sono sempre dipese dalle ratifiche degli Stati membri alla stregua di una “banale” organizzazione internazionale.

Tale lettura, a mio avviso, resta parziale. Non coglie, infatti, quello che è oggi l’Unione europea. Non è solo un mercato comune. Non è solo uno spazio di libertà di circolazione o un’unione doganale. Ma è soprattutto una comunità fondata sullo stato di diritto. È un’organizzazione anche politica, la cui democratizzazione può essere giudicata acerba, ma comunque in fase di avanzamento. Basti pensare, ad esempio, al processo degli Spitzenkandidaten e al rafforzamento del Parlamento europeo. L’UE sta formando, genuinamente, il proprio popolo: è proprio sotto il segno del motto “Uniti nella diversità” che si sono portati avanti programmi come l’ERASMUS, che hanno fatto maturare una generazione di giovani facendoli crescere e studiare “in Europa”. È, ancora, un’organizzazione che punta a portare l’integrazione sino al cuore del costituzionalismo nazionale: non si scordi, infatti, l’impatto di strumenti di rilancio economico e coesione sociale come i fondi Next Generation EU e il PNRR sulla forma di governo di ciascun paese (Lupo). Ma allora perché la Costituzione del 2004 è fallita?

Le ragioni del fallimento della Costituzione del 2004

La domanda è mal posta. L’aver bocciato questa Carta, infatti, non ha portato, come si vedrà tra poco, all’arresto del processo di costituzionalizzazione dell’Unione. Semplicemente, questo processo è tornato ad avanzare in una dimensione fattuale.

Il filosofo inglese sir Larry Siedentop, in un famoso libro, “Democracy in Europe”, sosteneva che l’Unione Europea avrebbe dovuto avere i suoi “James Madison” per avviare un genuino processo federale. Solo con una costituzione discussa pubblicamente e condivisa si poteva sperare di costruire un’Europa democratica, all’altezza delle pressioni che sarebbe chiamata a sostenere.

Eppure, l’Europa ha avuto fin troppi Madison. Basti pensare ai padri fondatori, da Schuman a Monnet, da Spaak a Spinelli, da Rossi a De Gasperi, agli accademici convinti come Habermas e Giddens. O ancora a Herzog, presidente della Convenzione del 1999 che redasse la Carta dei diritti fondamentali, e agli stessi leader della Convenzione europea del 2002-2003, come Giscard d’Estaing, Amato e Dehaene, per citarne altri. Eppure, la Costituzione per l’Europa era stata scritta a tavolino. La Convenzione europea non poteva emulare la Convenzione di Philadelphia, pur condividendo lo stesso appellativo: non ebbe un ruolo costituente, ma soltanto consultivo.

Certo, il processo alluvionale di costituzionalizzazione, sviluppatosi attraverso regole informali, convenzioni e pratiche, aveva bisogno di essere razionalizzato. C’era, quindi, come si è detto, un bisogno di Costituzione.

Tuttavia, la Convenzione fu un organo configurato in modo da non poter reggere alle aspettative. Il suo mandato era delimitato, sia in entrata che in uscita, dalla volontà degli Stati Membri. Questo “doppio sindacato” toglieva autorevolezza ai suoi esiti.

Anche per composizione e modalità deliberative, essa era lungi dall’assomigliare a un’assemblea costituente. Era, infatti, formata da varie delegazioni: membri del Parlamento europeo e della Commissione, ma anche membri delegati dai parlamenti nazionali e dai governi, persino membri di paesi candidati, tutti con sensibilità diverse e con un disarticolato bilanciamento delle istanze politiche. Ma la composizione di una costituente, come si è visto con il processo di riforma cileno, è un fattore fondamentale per il successo di una revisione. Se manca una componente politicamente coesa che si impegna a sostenere il progetto, la Costituzione rimane orfana.

Anche il metodo di deliberazione nella Convenzione europea si è distaccato dalla tradizione costituente. La scelta di far luogo al “consenso” ha escluso il voto finale, togliendo autorevolezza al testo. Si ambiva all’assenza di opposizione, di fatto rimettendo nelle mani dell’organo di presidenza della Convenzione le scelte più rilevanti, come quella di accettare in discussione gli emendamenti (Guerrieri). Il consenso, però, non equivaleva ad assenso.

Il testo così approvato passò all’esame dei rappresentanti dei governi nella CIG, che in gran parte lo recepirono. Ma il risultato finale era un monstrum giuridico di quasi 450 articoli, un Trattato omnibus che della Costituzione possedeva solo il nome.

Mentre da un lato, infatti, si erano riprese in maniera quasi pedissequa le norme sulle politiche economiche dai Trattati allora in vigore, dall’altro lato non si era creato un versante parallelo di politiche “sociali”, in un periodo in cui la popolazione di molti paesi chiedeva a voce alta la realizzazione di misure di sostegno.

La Costituzione per l’Europa non coglieva quest’esigenza e rimaneva schiacciata su una dimensione artata, priva di spessore.

Dove va l’Europa?

La situazione di “policrisi” ha reso ancora più manifeste le carenze del processo decisionale (e, alla base, istituzionale) europeo. In un recente scritto sul “futuro dell’Europa”, il politologo Crum sostiene che l’UE soffre un “dilemma post-funzionalista”: gli obiettivi politicamente possibili non sarebbero democraticamente raggiungibili e viceversa. Secondo Lenaerts, però, il bilanciamento fra l’unità e la diversità nel contesto europeo è un obiettivo che deve restare nelle mani della politica: non può spettare al costituzionalismo. Altrimenti è facile dire che il costituzionalismo in Europa ha fallito.

Peraltro, gli argomenti di opposizione al progetto di integrazione restano gli stessi di sempre: le decisioni fondamentali vengono percepite dai cittadini come frutto di conventicole opache, lontane, tecnocratiche. Al contempo, gli sforzi dell’UE per promuovere la partecipazione civica, la consultazione degli stakeholder e un coinvolgimento più ampio delle parti sociali restano in secondo piano.

Si può dunque tentare di trovare una chiave di lettura per comprendere l’attuale stallo nella riforma dei Trattati: c’è, forse, paura di riaprire (veramente) il vaso di Pandora sul futuro dell’Europa. E ciò risveglia automaticamente un’altra paura: l’innesco di nuovi referendum oppositivi che rafforzino populismi e sovranismi.

Occorre, dunque, trovare una via intermedia fra i due corni del dilemma. Non si può scegliere un compromesso politico a scapito del processo democratico e non si può privilegiare il confronto democratico lasciandolo privo di appoggio politico. Entrambe le esigenze devono essere tenute in considerazione. Non resta, nelle more, che affidarsi alla vis espansiva dell’attuale “Costituzione”, data non solo dalla somma del TUE e del TFUE ma anche da tutta una serie di regole non scritte grazie alle quali, senza alcuna valenza simbolica, ma soltanto pratica, l’Europa, nonostante tutto, va avanti.

 

Bibliografia

 

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  1. Guerrieri, Luci e ombre del processo costituente europeo negli anni 1999-2005, in Le Carte e la Storia, 1/2019.
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J.H.H. Weiler, The Constitution of Europe: ‘Do the New Clothes Have an Emperor?’ And Other Essays on European Integration, Cambridge, Cambridge University Press, 1999.

 

Questo articolo è già stato pubblicato su “Le Sfide“, rivista periodica della Fondazione Craxi