Dedicato alla memoria del Prof. Ezio Burri
Prima puntata
La partenza
Mi sveglio di soprassalto nella notte. Resto a lungo con gli occhi aperti. Rifletto sul viaggio che inizierà fra poche ore: sono felice di poter andare in nuove città e in luoghi esotici, di poter scoprire cose nuove, conoscere nuove persone, effettuare attività di ricerca originali. Non posso ignorare un po’ di preoccupazione: vado in un paese ammantato di mistero e di pessimi giudizi sulla stampa, considerato nemico degli occidentali, avvelenato dalla teocrazia al potere; potrebbe succederci qualcosa? Espongo mia moglie e mia figlia a brutte sorprese?
Torno indietro con il pensiero ad alcuni mesi prima quando, con l’amico e collega Angelo abbiamo iniziato ad ipotizzare una ricerca da effettuare in Iran, insieme al carissimo Ezio, docente universitario a L’Aquila, che aveva già avviato rapporti accademici con un ateneo iraniano. Si trattava di studiare gli antichi acquedotti realizzati nelle aree desertiche, chiamati “qanat”; io sarei stato il primo a rilevare eventualmente la presenza del radon ed a pubblicare i risultati. Mi sembrava un sogno difficilmente realizzabile.
Forse l’impatto con il deserto, dove non sono mai stato prima, potrà essere impegnativo, ma il vero problema ci sembrava la burocrazia con le autorità dell’ambasciata iraniana. Infatti, anche se avevamo portato per tempo gli inviti trasmessi dall’università di Shahrood, indispensabili per poter entrare nel paese, dovemmo attendere un’eternità per ottenere il visto registrato sul nostro passaporto.
Alla fine tutto è pronto, siamo arrivati al gennaio del 2008 ed oggi si parte. Basta con pensieri e timori, i bagagli sono da tempo preparati, già l’università ha comunicato che ci invierà un mezzo per prelevarci all’aeroporto di Teheran, poi vi saranno più di 350 km da percorrere per arrivare a Shahrood, vedremo come funziona il trasferimento, speriamo vada tutto bene. Riesco a riprendere a dormire, tutto sembra essere sotto controllo, meglio così.
“Ti accompagno in aeroporto” mi dice come buongiorno la moglie. Non l’ha mai fatto in precedenza, anche per viaggi verso paesi lontani, vorrà scongiurare brutti pensieri. “Mi spiace che perdi la mattinata” le dico. “Non importa, vengo con te in taxi e torno con il trenino, hai il bagaglio pesante, poi vorrei conoscere i tuoi colleghi” mi conferma. “Va bene, ne sono contento” le rispondo ed effettivamente mi fa molto piacere.
Per questo viaggio porterò il mio trolley ed un baule con le rotelline, rivestito con una lamierina argentata su cui abbiamo attaccato con il nastro adesivo denominazione e indirizzo del nostro Istituto CNR. Contiene gli strumenti che mi serviranno per le ricerche collegate al monitoraggio del radon, i più fragili li ho avvolti in alcuni dei miei indumenti di lana o di pile. Staremo fuori più di una settimana, non sappiano bene la temperatura di gennaio in quelle aree.
L’incontro a Fiumicino, verso le tredici è nei pressi della struttura in legno e ferro ispirata all’”Uomo Vitruviano” di Leonardo da Vinci. Presentazioni, chiacchiere sui programmi, poi mia moglie, ampiamente rassicurata dai colleghi, ci lascia e noi andiamo subito al check in, anche se la partenza sarà dopo le sedici; vorremmo essere fra i primi a imbarcare i bagagli pesanti, a iniziare dal mio baule cromato.
Tutto bene, ci hanno dato sedute vicine, io ho chiesto quella presso il finestrino perché, come al solito, in viaggio di sicuro mi addormenterò. Al duty free compriamo qualche souvenir per il rettore, il prorettore e qualche professore o operatore con cui avremo sicuramente contatti durante il nostro soggiorno. Per sicurezza compriamo anche panini, snack e cioccolata per noi; arriveremo nella notte fra volo e un’ora e mezza in più per il fuso orario; dovremo poi viaggiare per altre cinque ore almeno e non sappiamo come siano le strade, né come sarà il mezzo che ci trasporterà o cosa troveremo nel posto dove saremo ospitati, meglio essere previdenti.
A bordo, il volo è Air Iran, noto che molti degli altri viaggiatori hanno un aspetto “orientale”, leggermente diverso da quello medio degli italiani. Le donne molto truccate e con bellissimi capelli ondulati corvini, gli uomini tutti con i baffi, se non con la barba, alcuni in giacca, nessuno ha la cravatta, sembra abbiano un atteggiamento truce o arrabbiato.
Gli amici mi risvegliano per la cena a bordo: uno spezzatino di vitello, piuttosto speziato, anche se non piccante, abbondante riso come complemento; poi una crostatina industriale; offrono una specie di yogurt (sulla carne???), io opto subito per l’acqua. Purtroppo ho provato a chiedere una birra, ero sovrappensiero, Angelo mi ha dato una gomitata e la hostess ha subito sottolineato che non c’era alcool a bordo. Piccola gaffe.
Il viaggio trascorre velocemente, passiamo sopra l’Anatolia, alcuni fanno foto, ma è buio. Ad un certo punto lo speaker comunica nelle varie lingue che “da ora è strettamente proibito effettuare foto ed il divieto permarrà anche all’interno dell’aeroporto dove atterreremo”. Evidentemente stiamo entrando nello spazio aereo iraniano e si inizia a sentire l’effetto di un regime chiuso verso l’esterno.
Arrivo in Iran
È notte e avvertiamo l’aereo che inizia la discesa. Il comandante annuncia che a breve atterreremo al “Imam Khomeini International Airport” di Teheran, chi non l’ha fatto deve completare la compilazione del documento d’ingresso, la cintura dev’essere chiusa, non si possono utilizzare le toilette.
Tutto avviene come sempre a bordo di un aereo in atterraggio, l’importante ed inaspettata diversità è che le donne si affrettano ad indossare un giacchettino o una specie di leggero impermeabile (poi impareremo che viene chiamato “manteau” alla francese e che è proprio obbligatorio fra le tante regole della Repubblica Islamica). Subito dopo si coprono i capelli con un velo. Su questo ci sono differenze, le più anziane e forse le più conformiste (o meglio con padre o marito fanatico) indossano il “chador” che è una stoffa leggera, spesso nera, che ricopre capelli, spalle ed il busto, lasciando visibile solo l’ovale del volto. Le altre si coprono i capelli con un velo spesso e di colore scuro, oppure, le più intraprendenti, usano i classici foulard di marche europee conosciute, forse hanno un uomo di casa più spigliato e meno “bacchettone”.
All’arrivo vi è una lunga fila per mostrare i passaporti e poi per i controlli d’ingresso, ovviamente i funzionari controllano soprattutto che non ci siano alcool oppure pubblicazioni erotiche o politiche. Il mio baule attira l’attenzione, ma spiego di cosa si tratta e non ci sono ulteriori problemi, visto l’invito dell’università.
Già dall’ampia vetrata abbiamo visto un signore che ci salutava, era la guida incaricata dall’università e subito ci ha avvicinati quando siamo usciti dai controlli. Ci ha portati fuori dall’aeroporto, eravamo avvolti nello scuro della notte, poche luci attorno e nessuna in lontananza; freddo ma non troppo diverso che da noi, bella la luna, sembrava più grande, più vicina.
Ci attendeva l’autista dell’università con un vecchio e acciaccato minibus Mercedes. Sempre poche luci, poche automobili in movimento. Carichiamo i bagagli e partiamo. Percorriamo una bella strada larga, una vera e propria autostrada, ci dicono che la chiamano “otoban”. Mi sorprende il suono della parola, sembra il nome dell’autostrada in tedesco.
In effetti poi i colleghi di Shahrood mi racconteranno la ragione di questa contaminazione filologica. Negli anni Trenta Reza I Pahlavi, un militare che con un colpo di stato nel 1921 aveva preso il potere, fino a farsi nominare nel 1926 re (Shah) dell’Impero Persiano, aveva avviato un grande processo di modernizzazione del paese, anche ispirandosi ad Ataturk in Turchia. Governando come dittatore illuminato favorì l’accesso all’istruzione dei giovani, accelerò l’industrializzazione, proibì l’uso del chador (inimicandosi i fanatici del clero sciita). Stipulò un accordo con Hitler, che lo accolse con tutti gli onori in Germana, in proiezione anti britannica, per impedire che continuassero a sfruttare i pozzi di petrolio senza contribuire opportunamente; decise infine nel 1935 di cambiare il nome del paese da Persia a Iran (Terra degli Ariani). In questo contesto alcuni ingegneri tedeschi furono invitati per progettare le prime “autobahn” dentro la stessa città di Teheran.
In viaggio verso la destinazione
Chiediamo noi subito di fermarci, sulla destra, poco dopo l’uscita dall’area aeroportuale c’è una grande moschea, questa tutta illuminata, con alti pinnacoli ed un’enorme cupola, non possiamo ignorarla. È il Mausoleo dedicato a Khomeini, il leader della rivoluzione che spazzò via il regno dello Shah.
Ovviamente il Mausoleo è chiuso, sorprende per le dimensioni e le tante luci; ci dedichiamo a fotografarlo da lontano. Ne approfitto per fumare un sigaretto (al tempo usavo quelli sottili e ritorti con il bocchino), vedo che l’autista mi guarda con intenzione, subito gliene offro uno che accetta con un grande inchino. Poi saprò che i sigari non si vendono in Iran e pertanto vengono considerati un oggetto di gran lusso. Decide di non finire il sigaretto e ne salva la metà. Ripartiamo, ma dopo poco l’autista si ferma in uno spiazzo dove sono aperte due baracche con bevande e alimenti e ci sono un paio di carretti con la frutta. Ci dice che gli gira un po’ la testa, gli amici mi accusano ridendo di averlo drogato, la guida insiste perché beva acqua. L’autista si riprende e possiamo finalmente ripartire.
La nostra guida ci fa presente che per tutta la notte restano aperti i negozietti lungo le strade importanti, in caso avessimo bisogno di qualcosa. Ne restiamo sorpresi e chiediamo se avviene solo vicino alla capitale, ci risponde che i negozietti di viveri restano aperti sempre durante l’anno; bisogna lavorare e ci si dà il cambio in famiglia per garantire l’apertura, quasi tutti hanno una branda nel retro della baracca per riposare. Siamo stanchi e tutti e tre ci addormentiamo, mancano almeno cinque ore alla meta.
NOTA – Questo racconto si basa sulle attività di ricerca sui qanat in Iran che effettuammo fra il 2008 ed il 2017. Ci andammo quattro volte; i tre ideatori del progetto e fondatori del team ribattezzato “Qanat Project” furono Ezio Burri, Professore di Geografia presso l’Università di L’Aquila; Angelo Ferrari ed io, ricercatori dell’allora Istituto di Metodologie Chimiche del CNR con sede nell’Area di Ricerca di Montelibretti. Di volta in volta si sono aggregati a noi altri colleghi che non ho nominato nel racconto.
Chiaramente quanto narrato non è un resoconto, ma una rielaborazione di avvenimenti, incontri, situazioni effettivamente avvenuti durante i soggiorni in quel bellissimo Paese. Per ovvie ragioni cerco di non esprimere troppi giudizi di carattere politico o morale, lasciando che parli l’evidenza dei fatti occorsi; in ogni caso i giudizi espressi sono strettamente personali e me ne assumo la responsabilità. Infine i vari colleghi e conoscenti iraniani li nomino con ruoli e nomi di fantasia.