In questa II puntata del racconto dei nostri viaggi in Iran per studiare i qanat, ricordiamo gli eventi che portarono all’avvento della teocrazia in Iran e, nel frattempo, arriviamo, dopo il lungo viaggio in minibus, nella città di Shahrood dove la locale università ci ha ospitato. Iniziamo a conoscere persone del posto ed alcuni dei comportamenti locali, piuttosto diversi dai nostri. Buona lettura, continuate ad accompagnarci lungo le strade, i villaggi ed i deserti persiani.

Dedicato alla memoria del Prof. Ezio Burri

 

Pietro Ragni

 

Breve digressione storica

 

Nella puntata precedente avevamo raccontato l’arrivo in Iran, la partenza con il minibus verso Shahrood e la breve sosta, dopo l’uscita dall’area aeroportuale, effettuata davanti al Mausoleo dedicato all’Ayatollah Khomeini. Mi sembra utile, anche per comprendere alcune delle situazioni inusuali che abbiamo incontrato in Iran e purtroppo perdurano, riassumere gli eventi avvenuti alla fine degli anni Settanta e tali da cambiare drasticamente la storia e la vita del Paese.

 

Kapuscinski, nel suo libro “Shah in Shah”, descrisse gli ultimi anni di regno di Reza II Palhavi, figlio dello Shah citato nella I puntata, che a causa della forte pressione russa e britannica, fu costretto ad abdicare nel 1941 passando al figlio la corona. Nei primi anni il giovanissimo (22 anni) nuovo Shah si impegnò a garantire la costituzione; nel 1943 collaborò nell’ospitare la Conferenza di Teheran dove si incontrarono Roosevelt, Churchill e Stalin e stabilirono le linee strategiche da seguire per vincere la guerra e le aree di rispettiva competenza successiva, fra cui il nuovo assetto della Polonia e la suddivisione della Germania.

Reza II, finita la guerra mondiale, continuò a favorire l’occidentalizzazione della società iraniana, soprattutto nelle grandi città. Poi, per mantenere saldamente il potere, passò a comportamenti dittatoriali: la corruzione, le violenze e le torture della polizia segreta, le cattive condizioni di gran parte della popolazione in contrasto con l’opulenza senza limiti della corte divennero insopportabili. Una larga parte della popolazione si rivolse agli esponenti del clero, unica autorità non asservita al potere, sperando in un cambiamento che fermasse gli abusi e l’oppressione.

La Rivoluzione iraniana iniziò nel 1978 con manifestazioni guidate dai fedayyin marxisti e dai mujaheddin islamici, alleati nella lotta contro la dittatura dello Shah. Quest’ultimo, per tentare di bloccare le manifestazioni, nominò un primo ministro democratico che ripristinò la libertà di stampa e indisse elezioni libere, ma Khomeini, massima autorità del clero sciita, in esilio a Parigi, non riconobbe il nuovo governo; le manifestazioni continuarono. Lo Shah abbandonò il paese a metà gennaio 1979, due settimane dopo l’Ayatollah (termine che significa grande teologo, maestro e interprete del Corano) arrivò in Iran e in breve prese il potere. All’inizio coinvolse un primo ministro civile, ma questi si dimise alla fine dell’anno, non approvando la gestione del problema degli ostaggi dell’Ambasciata USA, presi da fanatici religiosi non smentiti dal clero.

 

Nuova bandiera dell’Iran adottata nel 1980

 

La neonata Repubblica Islamica da allora viene gestita dalle autorità religiose sciite: la Guida Suprema ed il Consiglio dei Saggi. Subito entrò in vigore la nuova costituzione basata sulla “sharia” (legge religiosa islamica) che, fra l’altro, previse di bandire l’uso di bevande alcooliche, il gioco d’azzardo e la prostituzione; reintrodusse l’uso del velo per le donne in modo che fossero coperti capelli e braccia; stabilì la persecuzione contro gli omosessuali. Infine fu istituita la milizia dei “pasdaran” (guardiani della rivoluzione) che rispondono solo alla Guida Suprema e “difendono” la teocrazia; fra loro furono selezionati i “basji”, esponenti armati che assumono il ruolo di “polizia morale” e girano le strade per arrestare “criminali” come le donne che non mettono il velo in modo corretto o fidanzati che fanno effusioni in pubblico…

Le prime scelte politiche furono quelle di avviare pesanti espropriazioni dei beni e delle imprese private per nazionalizzarle; di condannare e giustiziare centinaia dei dirigenti del precedente regime e di perseguire i marxisti, che pure erano stati gli alleati nel fronte rivoluzionario. Insomma avvenne proprio quello che diceva il detto “dalla padella nella brace”, per gli iraniani non c’è stato respiro.

Fu modificata anche la bandiera nazionale; restarono i tre colori verde bianco e rosso con bande orizzontali, il precedente simbolo centrale persiano fu sostituito da un nuovo simbolo grafico rosso che rimanda al nome di Allah e ai cinque pilastri della religione islamica; su entrambi i bordi della banda bianca sono riportate 22 volte le parole “Allah akbar” che significa Dio è grande.

 

Arrivo a Shahrood

 

Finalmente arriviamo a destinazione, in lontananza si vedono le montagne, il sole sorge con una grande luminosità, pochissima la vegetazione. Ci fermiamo nei pressi di un palazzo di tre piani, sembra simile alla nostra edilizia popolare. Ci aiutano a portare i bagagli nell’appartamento assegnatoci per la settimana. Tutto sommato non siamo delusi, le stanze sono dignitose, senza grandi ornamenti, abbastanza decenti; la cucina piccola, nel frigo varie bottiglie sigillate d’acqua e di un liquido bianco. Sui letti vi sono lenzuola e plaid con motivi floreali. Il bagno è piccolino, ovviamente con “vaso alla turca”, cioè con un gabinetto composto da una maiolica a livello del pavimento con un foro di scarico centrale ed affianco ad esso due pedane rialzate ove poggiare le scarpe. Non esiste il bidet, ma d’altra parte è difficile trovarlo anche in molti paesi europei; in compenso vi è un tubo giallo con al termine una “doccetta” utile per i bisogni igienici personali, ma anche come “scopino ad acqua”.

 

Studio la mappa dell’Iran nella sala comune dell’appartamento dove siamo stati ospitati dall’Università di Shahrood (foto di A. Ferrari)

 

Scelte le stanze, ci riuniamo in cucina, i nostri ospiti hanno pensato anche alla colazione: bustine per il tè, biscotti della marca “La Mamma” (in seguito ci dissero che la marca esisteva anche prima della rivoluzione, l’unica novità è nel velo aggiunto al volto femminile sulla confezione) e poi le bottigliette del liquido bianco. È il “dough”, storica bevanda nazionale, composta di yogurt, sale, acqua e, a volte, estratto di menta. Ci racconteranno che durante i viaggi nel deserto i cammellieri appendevano un otre colmo di dough al collo dell’animale, in modo che, con il movimento, il liquido si miscelasse e diventasse cremoso. Il dough oltre a dissetare, per la sua composizione, riusciva a reintegrare in parte le sostanze perse dal cammelliere con la forte sudorazione durante il tragitto nel deserto.

 

Decidiamo di costituire una cassa comune; in Iran non si possono utilizzare le carte di credito, né il bancomat (lo troveremo nel ‘17 ma solo a Teheran); pertanto, come ci era stato consigliato, avevamo portato una buona riserva di dollari ed anche di euro, ma scoprimmo presto che non è molto ben accetta la nostra moneta. Decidiamo di costituire un fondo di 300 dollari per pagare i viveri o altro da suddividere, anche se i nostri ospiti saranno molto generosi, evitandoci quasi ogni spesa di vitto e alloggio.

 

Primo giorno a Shahrood

 

Mentre terminavamo la colazione arriva un funzionario dell’università, gentilissimo, si informa del nostro viaggio, lo ringraziamo per l’appartamento in cui veniamo ospitati. Subito ci comunica il programma della giornata da loro elaborato: visita dell’università, incontro con il Rettore e altri docenti, visita al bazar, pranzo ad uno dei ristoranti convenzionati. Nel pomeriggio un paio di ore di riposo, poi incontro con il Prefetto della città di Shahrood e a seguire con i funzionari della Sezione Provinciale delle Acque. L’obiettivo è farci subito ambientare, presentarci alle autorità locali e definire con precisione la attività da svolgere per studiare i qanat. Dopo cena saremo ospiti presso la nuovissima piscina dell’università, anzi saremo fra i primi ad inaugurarla. Poi da domani inizieremo il lavoro con i qanat.

Siamo molto contenti del ricco programma proposto e anche se siamo un po’ stanchi, non vediamo l’ora di iniziare. Chiediamo un po’ di tempo per prepararci ed alle dieci siamo già pronti, tutti e tre in giacca e cravatta. Il funzionario ci accompagna in università con la sua auto. Nelle strade c’è pochissimo traffico, vi sono invece tanti pedoni e qualche bicicletta.

 

Parte dell’Università di Shahrood (Foto di A. Ferrari)

 

Fanno molta impressione le tante donne che indossano non solo il chador nero, ma sono tutte vestite di nero. Scopriremo poi che vengono classificate, dai ragazzi più estroversi di Teheran, con un epiteto offensivo “susk” (scarafaggio). Sono le donne molto tradizionali o soggette a uomini della famiglia molto bigotti. Nelle città di provincia sono in gran numero, soprattutto le signore più anziane; a Teheran non ne troveremo quasi nessuna che vestisse così, la gran parte delle donne opta per un foulard.

Per completezza aggiungo che dai giovani iraniani, insofferenti della attuale situazione politica, l’epiteto “susk” viene usato anche per indicare i basji, i sadici membri della polizia morale. Per contestualizzare ai nostri giorni sono proprio quelli che hanno portato alla morte Mahsa Amini nel settembre 2022 ed hanno insanguinato i susseguenti movimenti di protesta al grido di “Donna, Vita, Libertà”, uccidendo o imprigionando tanti protestanti, in particolare ragazze.

 

Incontro con il Rettore all’Università Tecnologica di Shahrood

 

Entriamo nell’università e la prima cosa fatta è la visita alla moschea interna all’ateneo. Modernissima, bella e ampia, poco frequentata per l’ora, ci dà un assaggio in anticipo dell’università stessa, che fu fondata nel 1973 come college dedicato agli studi minerari e poi nel 1994 è stata consacrata come entità pubblica con il nome di “Università Tecnologica di Shahrood” (SUT) ed è via via stata ampliata ed arricchita di nuovi palazzi, della casa per gli studenti (solo uomini), della zona dello sport con la nuova piscina.

 

Interno della Moschea dell’Università di Shahrood (Foto A. Ferrari)

 

L’appuntamento con il Rettore è piuttosto formale, sulla grande tavola, attorno a cui ci sediamo, hanno posto le bandierine di Italia ed Iran e quelle con il simbolo dell’Università. Sulla parete, alle spalle del Rettore, ci sono le foto di Khomeini e del suo successore come Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei; vi è poi un quadretto con i primi versi del Corano. Su un’altra parete vi è una stampa di grande formato con il render dell’università con le costruzioni già terminate e quelle future. Davanti a ciascun partecipante sono disposti un piattino con due mele (offrire frutta è gesto di cortesia e segno di benessere, in una zona arida), un bicchiere d’acqua e una scatoletta con fazzoletti di carta. Oltre a noi tre italiani, al Rettore ed alla guida-traduttore vi sono anche il responsabile dei rapporti internazionali e tre professori della facoltà di studi minerari.

L’incontro è stato incentrato sulle attività da condurre. Ezio ha presentato le ragioni della nostra missione, i tipi di rilievi idrografici e topografici che intendiamo effettuare e le analisi quali-quantitative da realizzare per le acque dei qanat. Io, in breve, ho spiegato il motivo delle misurazioni sulla concentrazione del radon nei pozzi e nell’acqua dei qanat. Angelo ha sottolineato l’importante impatto culturale e turistico che potrebbero avere i qanat, essendo dei manufatti originali del Medio Oriente e dell’Iran in particolare, che hanno avuto e tuttora hanno un significativo impatto sulle società locali. Infine abbiamo manifestato il nostro piacere nel collaborare con professori dell’università iraniana; sarà un modo per produrre poi insieme articoli da pubblicare sui giornali scientifici e per dare informazioni utili alle autorità locali.

Il Rettore ha approvato le ipotesi di lavoro, ha presentato i due professori che ci accompagneranno durante le misurazioni (li indichiamo con nomi di fantasia: Farbod e Ali) e ci ha chiesto di concordare un accordo formale fra la sua università e le due istituzioni italiane, l’Università di L’Aquila e il CNR, da poter firmare formalmente quando ritorneremo in Iran per completare l’attività di ricerca.

Piccola digressione: Farbod, uscendo dal rettorato, ci spiega che in Iran non si usa la cravatta, considerata un simbolo della forzata occidentalizzazione; in genere si chiude anche l’ultimo bottone della camicia, quello sul collo. Comunque non è considerato offensivo se gli occidentali usano la cravatta. Appresa questa usanza, in futuro decidiamo di non utilizzare più la cravatta negli incontri ufficiali.