A tutte le donne del mondo,
alle loro sofferenze e ai loro dolori,
alla loro resilienza e alla loro forza,
e a tutte le bambine del mondo,
ai loro occhi innocenti,
ai loro sogni…

(25 novembre 2024, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne)


Buio e silenzio, silenzio e buio. Non vedo niente, non odo nulla. Forse non sono ancora nata, forse questo è il grembo materno, ma è freddo e non fluttuo.

Ho paura e cerco mia madre e cerco Dio. Dio, però, non c’è per me: ci ho litigato da bambina. Gli ho detto che lo odiavo perché lui amava mio fratello e disprezzava me. Amava mio padre e non aveva considerazione di mia madre.

Me lo ricordo il giorno in cui, coi pugni stretti, col cuore infranto, con l’anima dilaniata, con il dolore in ogni parte del corpo, gli ho urlato contro e gli ho detto che non ero più sua figlia.

Ho urlato così forte che ho perso i sensi e sono svenuta.

Ho riaperto gli occhi e ho visto i volti di tante donne. Io protestavo perché ero solo una bambina e non volevo sposarmi, non volevo un marito, ma mia madre mi mise una mano sulla bocca a soffocare un urlo che mi sarebbe scoppiato e morto dentro. La donna più anziana, invece, mi guardò con saccenteria e disprezzo, senza un briciolo di pietà né negli occhi né sul volto.

Io ero solo una delle tante bambine obbligate a sposarsi, a cui veniva strappata in modo criminoso l’infanzia per poi gettarla come “spazzatura” chissà dove.

Dopo la mia prima notte di nozze, nell’incuria generale, ho sanguinato per giorni e avuto dolori lancinanti per un tempo che mi è sembrato infinito.

È stato lì che ho odiato Dio. Gli ho chiesto perché puniva me, che ero bella e intelligente, e non mio fratello, che era brutto e stolto. Lui non mi ha mai risposto: è rimasto muto in quel silenzio assordante, lo stesso che sento oggi.

Il silenzio e il buio, il buio e il silenzio.

Il buio del grembo di mia madre, il buio dell’attimo prima di aprire gli occhi, il buio dell’istante prima di distinguere bene i colori, il buio del giorno in cui mi hanno obbligata al velo. Mi sono sentita soffocare, mancare l’aria, di nuovo quella mano sulla bocca per non farmi respirare, per non farmi urlare. Niente sole accecante a inondarmi il viso, a illuminarmi l’anima. È così che piano piano ti mitigano, ti ammutoliscono: il silenzio entra a far parte della tua vita, il buio della quotidianità.

Quando ho iniziato ad andare a scuola, ho capito che siamo fatti anche di passione e, malgrado avessi perso una parte di me che nessuno mi avrebbe più restituito e di cui forte sentivo la mancanza, ne avevo trovata un’altra che era chiusa in me come un mistero e che aveva bisogno di essere custodita e protetta.

Ero la più brava della classe, curiosa e piena di domande, cosa che spesso infastidiva i miei insegnanti. Mi interessavo a tutto, a ogni cosa, tranne alla religione: di Dio non volevo sapere nulla.

Uno dei miei docenti fu particolarmente colpito da me e dalle mie capacità e disse ai miei genitori che sarebbe stato giusto che io avessi continuato a studiare. Così fu. Mi sono iscritta all’Università di Azad, alla Facoltà di Letteratura Francese. Mi appassiona molto la letteratura francese, ricca di pathos e venata di quello spirito rivoluzionario che da sempre anima quel popolo.

Quella mattina sono uscita di corsa, era tardi, e probabilmente non mi sono resa conto che l’hijab si era posizionato in modo scorretto. Si è avvicinata la polizia morale e, con i loro modi poco gentili, mi hanno ordinato di rimettere bene l’hijab.

Ho guardato il buio e ascoltato il silenzio e poi ho chiuso gli occhi.

Ho iniziato a spogliarmi, pezzo dopo pezzo, finché non sono rimasta coperta solo dalla mia pudica biancheria intima e ho iniziato a camminare. Ero libera, proprio come nell’istante in cui sono venuta al mondo, come prima di perdere quel pezzo di me. Ho visto il sole accecante e ho capito che l’aria possiamo percepirla solo se mettiamo il nostro viso nel vento. Ero io, solo io e il mio corpo, io nell’autodeterminazione di me stessa donna. Intorno sentivo i ghigni delle altre donne, i sorrisi, vedevo le telecamere dei telefonini puntate su di me e allora mi sono ricordata che avevo vissuto ventiquattro anni nel buio e nel silenzio e adesso, in quel momento esatto, io potevo essere ogni cosa di me e da me, anche il mio buio e il mio silenzio. E così è stato. Ero tutto, ogni cosa. Forse ero anche il mio Dio.

Quando ho riaperto gli occhi, ho sentito delle mani sudicie e rudi su di me. Erano gli uomini della polizia morale: mi hanno presa, strattonata e buttata in un’auto per portarmi via, per mettermi di nuovo una mano sulla bocca e dirmi che sono pazza.

È di nuovo buio e silenzio. Ho cercato Dio, ma Dio non c’è. Eppure io sono Ahoo Daryaei e sono certa di essere sua figlia.


Io sono una donna che dispera

Che non ha pace in nessun luogo mai,
che la gente disprezza, che i passanti
guardano con attesa e con furore;
sono un’anima appesa a una croce
calpestata, derisa, sputacchiata:
mi son rimasti solo gli occhi ormai
che io levo nel cielo a Te gridando:
toglimi dal mio grembo ogni sospiro!

(Alda Merini)

 

 

*L’articolo è stato costruito dalla scrittrice come un puzzle. Una parte di esso contiene le poche informazioni certe che si hanno della donna iraniana a cui è stato attribuito il nome di AHOO DARYAEI.  Il resto è stato scritto, invece, grazie a mesi di lettura di testi, documenti e interviste relativi alla condizione delle donne iraniane. Si è voluto in questo modo restituire al lettore, partendo dal gesto di una donna, un quadro completo della vita di molte.