Uno statista dovrebbe guardare al futuro di un paese e progettarlo per tempo. L’Italia, invece, è piena di operatori di un marketing politico che guardano al massimo al giorno dopo. Ecco perché, sul drammatico calo demografico della popolazione, invece di impiantare un serio e programmatico studio, la risposta è la messa al bando dei migranti “che ci portano via il lavoro”. Contraddizione evidente. Risposta incongrua e paradossale.

Così quest’Italia, dalle finanziarie misere, perde di vista gli obiettivi primari e a lunga gittata. Un dato illuminante: in 13 anni 550 mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato il nostro paese per trasferirsi all’estero. Vale a dire gli abitanti di Genova e un po’ meno della metà della popolazione di Milano. Volendo quantificare la perdita di capitale umano, parliamo di 134 miliardi in meno per l’economia nazionale. Una cifra enorme che tiene conto di quanto è stato speso per la loro istruzione specializzata (comprensiva anche di studi post-laurea) e di quanto si è perso in termini di progresso e investimento con la loro fuoriuscita.

Più di mezzo milione di ragazzi o ex giovani non ha visto futuro nel paese e ha preferito abbandonarlo per un viaggio all’estero probabilmente senza ritorno. Ma nel dato fenomenico ci sono anche lavoratori stranieri che, dopo qualche anno di permanenza, hanno intuito che questo non è più il paese del Bengodi che, per esempio, gli albanesi immaginavano vedendo, dall’altra parte dell’Adriatico, le televisioni del Biscione, ricche di esplicite seduzioni (anche sessuali).

Infermiere rumene si trasferiscono in Svizzera, rendendo più acuta la crisi della sanità, che per il loro comparto richiederebbe l’assunzione di ulteriori 60.000 soggetti. Ovvio, in Svizzera lo stipendio è il triplo rispetto a quello italiano, insidiato dalle lusinghe della sanità privata a cui ammicca persino un sottosegretario di governo con estremo sprezzo del pudore.

Il made in Italy non è fatto solo di “fuga di cervelli”, ma, dall’Erasmus in poi, impiantato nella ricerca di una vita benestante in cui sia possibile conciliare un lavoro decoroso con la crescita, con la fusione in una famiglia, nei figli, in un rapporto organico e non schizofrenico con la nazione che ci accoglie.

Una diaspora tutta italiana è in atto e di cui ora cogliamo tutta la pesantezza. Il rapporto della Fondazione Nord Est, in combinato disposto con quello della Fondazione Migrantes, ci restituisce allo specchio l’immagine di un’Italia svuotata e prostrata, con poche speranze rivolte al futuro. Un paese da cui persino i pensionati rifuggono, visto che i loro introiti, magari già bassi, vengono svuotati da una tassazione Irpef da lavoro dipendente incongrua, cercando più fertili sbocchi in situazioni alternative (Portogallo, Tunisia) senza che, d’altra parte, l’Italia sappia offrire ai pensionati stranieri condizioni altrettanto favorevoli.

Così l’Italia perde valore e abitanti. Generalizzando, da 61 milioni a 59, complice anche la deriva biennale del Covid, ancora non completamente debellato. Sei milioni di italiani, con una grossa fetta di “fuga giovanile”, hanno scelto l’estero. Una migrazione da “mobilità plurima” che cambia la cittadinanza e svuota parzialmente di contenuto l’identità nazionale.

Sono chiamati “cittadini globali” quelli che, senza più illusioni per un profondo radicamento nel paese che li ha visti nascere, scelgono il meglio o il “meno peggio” secondo una logica realista che non si può che condividere.

Nel solo intervallo gennaio-dicembre 2023 si sono iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) ben 90.000 italiani, di cui due terzi celibi o nubili. Il richiamo demagogico alla famiglia, ventilato da componenti di governo, in genere divorziati, è slogan vuoto di fronte a queste cifre.

Dal 2011 al 2021, 451.000 italiani hanno lasciato il paese con un saldo migratorio negativo per 300.000 unità. E il trend di uscita sembra in crescita, senza che una politica senza statisti faccia un plissé.