Cinquantacinque anni fa, sembra ieri ma è ancora, purtroppo, oggi: era il 1967 quando la radio italiana cominciava a trasmettere una canzone del Maestrone Francesco Guccini, diventata famosa con la voce di Augusto Daolio, l’indimenticabile cantante dei Nomadi. In questo clima Francesco Guccini pubblicò il suo primo disco, “Folk beat n.1” contenente sia inediti che canzoni già incise. Alcune di queste, per il fatto che non era iscritto alla SIAE, erano state depositate a firma di altri autori come per Auschwitz (scritta per l’Equipe 84) e Noi non ci saremo, cantata dai Nomadi.
In quegli anni era fortissima la paura della bomba: la guerra fredda, la corsa agli armamenti, la guerra nel Vietnam, le prime ribellioni nei campus universitari americani, manifestazioni studentesche e operaie in Italia e in Europa mettevano all’ordine del giorno una riflessione sui rischi rappresentati da quella che, quasi familiarmente, veniva chiamata l’atomica. Il cosiddetto Doomsday clock, l’orologio del giudizio universale, col quale gli scienziati segnalano la maggiore o minore vicinanza alla possibile mezzanotte dell’apocalisse atomica, arrivò nel 1968 a segnare 7 minuti alla fine. Il testo della canzone diceva: Vedremo soltanto una sfera di fuoco / più grande del sole, più vasta del mondo; / nemmeno un grido risuonerà / solo il silenzio come un sudario si stenderà / fra il cielo e la terra / per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo.
Certamente con questa sensazione e col ricordo delle atomiche americane in Giappone nel 1945, la paura del futuro stava mettendo in moto quello strano fenomeno che nel giro di qualche anno portò, a livello mondiale, al crearsi di una specie di movimento, formato da giovani, ma non solo, di tutti i continenti che cominciarono a mettere in discussione il futuro.
Era in quegli anni che gruppi, magari non molto conosciuti, mettevano in musica le paure di tanti: “I Giganti” cantavano, sembrava con ironia ”Noi non abbiamo paura della bomba / noi non abbiamo paura della bomba / atomica, atomica, atomica” e l’anno successivo lo stesso complesso si presentava a Sanremo con quello che sarebbe divenuto uno slogan di quegli anni “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”.
Oggi riflettendoci, non ci è bastata la pandemia, a tutto il mondo, milioni di morti e migliaia di malati, così per chiarirci le idee, poche settimane fa il sunnominato Doomsday clock è stato portato a due minuti e mezzo dalla mezzanotte e se continua così forse anche meno. Nel resto del mondo le tensioni e le guerre non rallentano: il medio-oriente non trova pace ed è un continuo uno contro l’altro, la Russia sembra presa da antiche nostalgie zariste; la democrazia americana, che aveva addirittura portato il primo nero alla presidenza, ha recentemente eletto una persona che parla di bombe e le distribuisce con tanta naturalezza. Inoltre in Oriente si rifanno vivi antichi desideri di accorpamento con i vicini, nemmeno si fosse tornati ai tempi della Corea. In quegli anni 60 le tensioni fra USA e URSS non si attenuavano, si parlava spesso di ricorso al nucleare, i cittadini di tutto il mondo erano sotto lo spettro di una catastrofe, dalla quale non si può tornare indietro, il pensiero di tutti era rivolto all’incertezza sul futuro.
Per levare dubbi il testo è un pugno in faccia sin dall’inizio: ci sarà qualcuno che vedrà soltanto una sfera di fuoco più luminosa del Sole, come peraltro avevano raccontato i superstiti di Hiroshima e Nagasaki – e più grande del mondo, provocata dalle innumerevoli esplosioni atomiche causate da un conflitto planetario. E poi? Silenzio, nessuna attività umana né animale, il vuoto, ma soprattutto il silenzio. Di questo rischio si paventa nei vari commenti in radio e in TV, fra amici, in famiglia: la politica europea, la NATO, l’utilizzo delle armi tattiche, il rischio che la guerra in Ucraina abbia altri intenti e obiettivi, che non termini così presto come tutti vorremmo, anche se è già troppo durata e troppi danni ha fatto.
Forse quelli nati negli anni 50, come me, cresciuti e vissuti in sessanta e passa anni di relativa tranquillità, pur con tutte le guerre che hanno funestato varie aree del mondo, non riescono a capacitarsi che il rischio del vuoto, del nulla è sempre presente.
Una bomba nucleare non ha confini, ovviamente, colpisce chi la lancia e il territorio che la riceve, considerando qualche migliaio di questi ordigni, in mano a svariate nazioni, il rischio, no… c’è la certezza che l’inverno nucleare duri all’infinito, anche se nel brano l’autore, forse con un soffio di speranza scrive: … “dai boschi e dal mare ritorna la vita / e ancora la terra sarà popolata, / fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà / gli spazi di sempre per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo”
La dura realtà però è un’altra: anche un conflitto nucleare “piccolo” con potenze pari a quelle di circa 100 testate nucleari da 15 kilotoni (1 kilotone= energia equivalente a 1000 tonnellate di tritolo) avrebbe conseguenze per tutto il pianeta, per la vita di essere umani e animali, per le acque, per l’aria. Pensiamo solo alle grandi quantità di polveri rilasciate in atmosfera, bloccherebbero quasi in toto il passaggio della luce solare, causando un abbassamento della temperatura, un mondo freddo, un inverno nucleare, forse piovoso, il nulla e con questo vuoto eventuali sopravvissuti dovrebbero provare a sopravvivere, già ma come? Conseguenze che non riusciamo a immaginare, forse, da studi effettuati, se sopravvivessero, il mondo si potrebbe popolare di piccoli insetti e roditori, meno soggetti alle radiazioni, ma forse…E gli esseri umani?
“E il vento d’estate che viene dal mare
intonerà un canto fra mille rovine,
fra le macerie delle città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà”
Drammatica e profetica in questo caso risulta un’affermazione che Albert Einstein fece in un’intervista del 1949 su Liberal Judaism: “Non so come verrà combattuta la Terza guerra mondiale, ma posso dirti cosa si userà nella Quarta: pietre!”
Il fatto è che, mi sembra, i vari potenti del mondo non considerano l’inutilità di una tale guerra che con certezza spazzerebbe via tanto gli aggressori quanto gli aggrediti: proprio su questo deterrente si è mantenuta una “pace armata” durata quasi tutta la seconda parte del XX secolo. Guccini nella seconda parte della canzone descrive le rovine della civiltà riconquistate dalla natura poco alla volta: come abbiamo visto, non è detto che ciò potrebbe accadere, almeno nel breve periodo, e non nelle forme che conosciamo. Gli effetti delle radiazioni si protrarrebbero per un periodo variabile da alcuni anni a millenni, a seconda dei materiali depositati dopo le esplosioni: vi sono elementi che hanno tempi di dimezzamento di migliaia di anni. Nel giro di pochi millenni, inoltre, anche le conseguenze dovute all’introduzione di gas serra nell’atmosfera dovrebbero ridimensionarsi, e così gli effetti delle sostanze inquinanti, se si escludono quelle di tipo radioattivo che come abbiamo visto possono avere un tempo di decadimento molto lungo.
Tutti ricordiamo quanto successo a Chernobyl, nemmeno a dirlo in Ucraina, nel 1986 e da poco sono stati avvistate specie animali e vegetali, definiamole selvagge, che si presentano tra le rovine, è l’ecosistema che si modifica e reagisce, ma le domande restano tante e spesso senza risposta.
Nel finale della canzone l’autore prova a descrivere una terra finalmente rifiorita con boschi e una natura che ha riparato le ferite della guerra, ma libera dalla nostra presenza. Vogliamo tutti sperare che mai avvenga nulla del genere, ma comunque sia un monito da tenere molto presente:
“E catene di monti coperte di nevi
saranno confine a foreste di abeti:
mai mano d’ uomo le toccherà,
e ancora le spiagge risuoneranno delle onde
e in alto, lontano, ritornerà il sereno,
ma noi non ci saremo, noi non ci saremo”