Il 23 giugno, il consiglio europeo ha approvato lo status di candidato all’Ucraina e alla Moldavia. L’esito era scontato e non sono mancate dichiarazioni enfatiche dei dirigenti europei qualificando le loro decisioni ‘storiche’. Esse hanno di certo una forte valenza simbolica nei confronti della Russia ma di fatto comportano dei costi politici poco irrisori. La Turchia è un paese candidato dal 1999, la Macedonia del Nord dal 2005, e Montenegro dal 2008. Con il primo i colloqui di adesione sono stati interrotti, con gli altri due paesi non sono mai iniziati. Ciò che conta realmente, è l’avvio dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina e Moldavia e da lì si prospetta una lunga strada corredata da buone intenzioni ma con tanti ostacoli.
L’accordo raggiunto nel Consiglio europeo è ricco di simbolismo politico con lo scopo di consentire ai leader dell’UE di indulgere sul proprio ruolo storico. L’Ucraina non farà parte dell’UE subito, se mai riuscirà ad entrarne un giorno. Il più grande ostacolo all’adesione dell’Ucraina probabilmente non è nemmeno lo stato di preparazione delle sue istituzioni, ma l’UE stessa. L’Ucraina, essendo un grande paese, diventerebbe un sostanziale destinatario netto dei fondi dell’UE, a scapito di altri destinatari netti, come la Polonia. Nell’ambito dei cosiddetti criteri di Copenaghen del 1993, l’allargamento va di pari passo con le riforme del funzionamento dell’Unione europea. Il diritto di voto e il numero dei deputati al Parlamento europeo dovrebbero cambiare. Come noto, i diritti di voto sono un gioco a somma zero. Non si tratta solo del numero di voti nel sistema di voto a maggioranza qualificata dell’UE, ma anche della capacità dei paesi di formare delle coalizioni. Quanti piccoli paesi ci vorranno per formare delle coalizioni che abbiano il potere di superare il peso della Germania e della Francia? Con l’adesione (del tutto ipotetica) di così tanti paesi più piccoli, ci avvicineremmo a questo punto a quell’obiettivo. Infatti, la Germania ha già rivendicato una maggiore rappresentanza proporzionale per ridurre la probabilità di essere superata da questi paesi.
Insieme all’Ucraina e alla Moldavia, ora ci sono sette paesi che hanno lo status di candidati, tutti situati nell’est e nel sud-est dell’Europa. Bosnia e Georgia hanno presentato domanda e il Kosovo è un altro potenziale candidato. Dopo la fuoriuscita di una grande paese occidentale, l’adesione di un numero elevato di paesi potrebbe spostare gli equilibri geopolitici a scapito di altre aree dell’UE, in particolare della sponda nord del mediterraneo. È poco probabile che Francia e Germania possano mantenere il loro attuale potere in un’Unione allargata, neppure il loro ruolo informale di ‘agenda setter’.
Il centro geografico di un’Unione europea che includa l’Ucraina sarebbe da qualche parte ad est del confine tedesco. Con una popolazione di 44 milioni di abitanti, l’Ucraina è più grande della Polonia, e appena dietro la Spagna. Ucraina e Polonia insieme sarebbero più grandi della Germania. La popolazione totale di tutti i paesi candidati o potenziali candidati è vicina agli 80 milioni, senza la Turchia. Se si include la Turchia, il totale salirebbe a 150 milioni. L’adesione all’UE è un’opzione binaria: sei dentro o fuori. Norvegia e Svizzera hanno degli accordi di associazione, così come il Regno Unito. Ma questi accordi non hanno dato luogo a dei processi virtuosi dopo trattative incessanti sulle materie più diverse, dai flussi migratori alla pesca. Una strada percorribile per l’Ue potrebbe essere una ‘integrazione differenziata‘ (che alcuni hanno qualificato di processo a geometria variabile o alla ‘carte’) dove l’accento viene posto non tanto sulle deroghe (opt outs) quanto sugli opt-ins. Tra i vari discorsi di autocompiacimento, è tuttavia da rilevare la proposta avanzata dal ministro degli Esteri austriaco Alexander Schallenberg secondo la quale l’Ucraina dovrebbe aderire al mercato unico come primo passo per evitare delusioni future.
Dietro la decisione di assegnare lo status di candidatura immediata all’Ucraina c’è stata un’aspra lotta per l’inizio dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania, i due paesi che sono rimasti nell’anticamera dell’UE per anni. I negoziati di adesione con la Macedonia del Nord e l’Albania sono stati bloccati dalla Bulgaria per pura tattica politica. Il 24 giugno, il Parlamento bulgaro decise di sbloccare il suo veto al fine di risparmiare al Consiglio l’imbarazzo di dover dire ancora una volta “no” a questi due paesi. Il governo austriaco voleva che l’UE concedesse lo status di candidatura alla Bosnia, ma gli è stato promesso che il Consiglio avrebbe affrontato la questione in un’altra occasione.
Dietro questi equilibri fragili e interessi contrapposti, la vera posta in gioco riguarda il futuro dell’UE. La conferenza sul futuro dell’Europa che si è conclusa il 9 maggio 2022, dopo un anno di lavoro, ha fatto emergere 49 proposte ripartite in oltre 300 misure concrete scaturite da oltre 40.000 contributi per cambiare l’UE. Per alcune misure, – tra le quali la fine del diritto di veto, la facoltà di concedere al Parlamento europeo il diritto di iniziativa su alcune leggi europee, allargare la maggioranza qualificata ad altre materie, la possibilità di organizzare dei referendum a livello europeo e la creazione di una competenza condivisa in materia di salute – la modifica dei trattati sarebbe necessaria. Le istituzioni dell’UE sembrano aperte a tale prospettiva. Il 4 maggio, i deputati europei hanno votato una risoluzione a favore di una revisione dei trattati, pur accogliendo l’insieme delle misure proposte. Il 9 maggio, la presidente della Commissione europea ha annunciato che era favorevole ad una riforma dell’UE, anche “cambiando i trattati se necessario”. Tale posizione è stata anche adottata dal presidente Macron in veste di presidente del consiglio dell’UE riferendosi alla convocazione di una convenzione per la riforma dei trattati europei. Il presidente francese ha pure sostenuto la presa di decisione alla maggioranza qualificata al Consiglio (anche se tale proposta è stata rifiutata da 13 paesi dell’UE).
Macron aveva inoltre accennato all’idea di una “comunità politica europea”, una formula alquanto vaga, che molti analisti hanno interpretato come la fine dell’allargamento che invece consentirebbe ai paesi candidati di rimanere associati al funzionamento dell’UE senza tuttavia farne parte integrante. Come ci insegna la storia recente dell’Ue, l’asse della bilancia oscilla, tra le velleità di un approfondimento economico, monetario e sociale, e le spinte verso allargamenti futuri. Tuttavia, sia l’uno che l’altro richiedono un ripensamento profondo e inedito di fronte alla tragedia della Storia. L’Unione Europea deve dotarsi di un nuovo assetto istituzionale che le consenta di poter funzionare in modo sovrano e democratico senza diventare ostaggio del diktat della regola dell’unanimità. Essa è chiamata a svolgere un ruolo storico per affrontare le sfide di un nuovo mondo multipolare instabile ed incerto in cui le molteplici crisi scatenate dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica all’insicurezza alimentare, attendono delle risposte urgenti ed immediate. Il futuro dell’Europa risiede più che mai nella costruzione di nuove solidarietà de facto, da quella energetica, al clima, la salute e la difesa cioè quei beni comuni europei che riavvicinano i cittadini all’UE e rispondono alle loro profonde aspirazioni e bisogni.
Foto di apertura libera da Pixabay