“Beh, credo che se vincono, meriterò tutto il credito”. Così Donald Trump il giorno prima dell’elezione di midterm in un’intervista alla NewsNation. L’ex presidente ha continuato dicendo che “se perdono, non sarà colpa mia”. Dichiarazioni “sincere” di Trump per descrivere la sua partecipazione al sostegno dei candidati repubblicani alle recenti elezioni di midterm.

Gli esiti non avranno fatto piacere a Trump poiché secondo la Cnn, citando ma senza identificare uno dei suoi consiglieri, era “furibondo” e “gridava a tutti”. Non c’è stata l’ondata rossa prevista dai media e i sondaggi. Adesso si cerca il capro espiatorio e tutti gli indizi puntano a Trump, sempre più vulnerabile.

Si credeva che i repubblicani avessero vinto con un margine di trenta o più parlamentari e con ogni probabilità anche una maggioranza al Senato. Alla Camera Alta i democratici hanno già 50 seggi. Ciò vuol dire che in casi di votazioni uguali la vicepresidente Kamala Harris qualifica al voto e quindi farebbe pendere le decisioni a favore del Partito Democratico. Da aggiungere anche che in Georgia vi sarà il ballottaggio il 6 dicembre perché né Raphael Warnock né Herschel Walker hanno superato la soglia del 50% richiesta dalla legge statale. Una probabile vittoria di Warnock farebbe respirare di più i democratici. Alla Camera i repubblicani hanno ottenuto la maggioranza (221 seggi), solo 3 al di sopra del minimo di 218.

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Questa smilza vittoria dei repubblicani si deve alla scelta dei candidati determinata in grande misura da Trump. Per vincere le primarie repubblicane è stata necessaria l’accettazione della grande menzogna dell’elezione rubata e l’illegittimità di Joe Biden a presidente. Quelli che si sono rifiutati di farlo come Liz Cheney del Wyoming sono stati sconfitti e messi da parte. La vittoria delle primarie in grande misura si traduce in vittoria all’elezione generale poiché solo meno di un terzo dei seggi sono veramente competitivi. Vincere l’elezione alle primarie spiana la porta alla vittoria in ambedue i partiti poiché i distretti parlamentari sono creati dagli Stati in maniera da favorire uno o l’altro partito. I repubblicani controllano buona parte delle legislature Statali e quindi fanno il bello e cattivo tempo con la delineazione dei distretti. Si spiega in questo modo il fatto che l’80 percento dei candidati selezionati da Trump hanno avuto successo.

Ciononostante la sconfitta di alcuni candidati di spicco è stata fondamentale per la limitata vittoria repubblicana. In Pennsylvania, per esempio, Doug Mastriano e Mehmet Oz sono stati ambedue sconfitti principalmente perché troppo estremisti. Il primo, candidato a governatore, era stato presente all’insurrezione del 6 gennaio negli assalti al Campidoglio ed aveva fatto non poche affermazioni antisemite. Oz, candidato a senatore, star televisivo ai tempi del notissimo programma di Oprah Winfrey, risiedeva nel New Jersey ma si era comprato una casa in Pennsylvania per qualificarsi all’elezione. In Arizona, Corey Lake, la più fedele di Trump, è stata sconfitta per la carica di governatore dalla democratica Katie Hobbs.

Anche in Georgia Trump scelse un’altra celebrità nella selezione di Walker. In questo caso si tratta di un ex giocatore di football americano accusato di ipocrisia per avere pagato gli aborti di due donne ma professando di essere contrario all’aborto. Walker potrebbe ancora spuntarla al ballottaggio ma gli esiti in Arizona e Nevada potrebbero condizionare l’entusiasmo degli elettori georgiani a ripresentarsi alle urne.

Se Trump esce dalle primarie decisamente sconfitto Joe Biden invece se la cava con una leggera ammaccatura. Guardando indietro a precedenti elezioni di midterm, per esempio, Bill Clinton perse 54 seggi alla Camera nel 1994 e Barack Obama addirittura 64 nel 2010. L’attuale inquilino alla Casa Bianca potrebbe ridurre la sconfitta a una decina di seggi o forse ancora meno. Difficilissime le prospettive per i democratici di mantenere la maggioranza alla Camera anche se gli esiti definitivi, disponibili fra una settimana, potrebbero rivelarsi sorprendenti.

Se i repubblicani hanno “perso” alle elezioni di midterm considerando le aspettative, un vincitore del GOP è emerso. Ron DeSantis è stato rieletto governatore della Florida con un margine di 20 punti. Già si crede che stia accendendo i motori per una sfida a Trump, sempre più astro cadente del Partito Repubblicano. Nonostante la sua popolarità con la base del Gop un sondaggio della Nbc ci informa che il 62% degli elettori repubblicani non si identifica con Trump come candidato presidenziale nel 2024. I sostenitori di DeSantis hanno già intuito. Alla recente festa di vittoria hanno urlato “ancora 2 anni” suggerendo che non completerà i 4 anni di mandato di governatore perché si candiderà a presidente nel 2024.

Ron DeSantis – Foto pubblico dominio da wikipedia.org

Trump lo ha già intuito e per questo ha iniziato la sua campagna per denigrarlo. L’ha cominciata inventandogli il nomignolo di “Sanctimonius”, (ipocrita) giocando sul cognome del governatore. DeSantis però non sarebbe l’unico possibile sfidante. Mike Pence, già vice del 45esimo presidente, Nick Haley, ex governatrice del North Carolina, Glenn Youngkin, governatore della Virginia, e Tim Scott, senatore del South Carolina, stanno considerando un’eventuale sfida a Trump. L’altra sfida più pericolosa sarà quella legale. Merrick Garland, ministro della Giustizia, sarebbe quasi pronto a incriminare Trump di spionaggio per il possesso illegale di documenti top secret. Trump ha deciso che per crearsi uno scudo da queste indagini la migliore strada è quella di annunciare la sua candidatura a presidente. Lo ha fatto perché come candidato potrà insistere di essere perseguitato per le sue attività politiche. Allo stesso tempo ha cercato di sbilanciare possibili rivali per la nomination. Inoltre l’annuncio della sua candidatura mira a togliere i riflettori dalla recente elezione la cui “sconfitta” gli viene attribuita da quasi tutti. Ma forse la ragione più importante sono i soldi: i suoi sostenitori continuano a riempire le sue tasche cercando di mantenere vivo il suo improbabile ritorno alla Casa Bianca.

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