Il maestro è nell’anima.
Vasta è la letteratura, in senso proprio e cinematografica su maestri e scolari. Per l’Italia si parte dal “vecchio libro ‘Cuore”” (Giorgio Gaber), quello che Carlo Ossola metteva, giustamente, fra i 15 libri “che hanno fatto gli italiani”, con “Pinocchio”, “Le tigri di Mompracem” e l’Artusi. Bella e famosa la riduzione televisiva di Luigi Comencini (maestro Johnny Dorelli, maestrina dalla penna rossa Giuliana De Sio), citata oggi soprattutto per la presenza, nei panni del borghesuccio Bottini, del piccolo Carlo Calenda, nipote del regista.
Ottimo fra i libri “Ricordi di scuola” di Giovanni Mosca e fra i film il crepuscolare “Scuola elementare” di Alberto Lattuada, con Billi e Riva. Poi “Lo chiameremo Andrea” di De Sica, con Nino Manfredi, Mariangela Melato e i ragazzini che ripetono in coro i Jingle della pubblicità televisiva (“porta in tavola la cosa che spuntare fa il sorriso / sulla bocca del marito, sulla bocca della sposa / il formaggino Stella!”), scritti da Zavattini. Ma tutti cedono, per importanza, davanti a un libro: “Lettera a una professoressa”, della scuola di Barbiana, e a un film: “Diario di un maestro” di Vittorio De Seta, capolavoro della nostra TV, tratto da “Un anno a Pietralata” di Albino Bernardini. Sul piano internazionale, se ve la cavate col francese e non trovate il DVD, segnalo solo lo stupendo “Essere e avere”, di Nicolas Philibert, con Georges Lopez, maestro che interpreta sé stesso: racconto di un anno nella classe unica di un paesino dell’Alvernia, una di quelle classi con bambini di tutti e cinque gli anni delle elementari, quando il numero degli scolari non consente la distribuzione in classi distinte, dalla prima alla quinta. La scuola con l’abitazione del maestro e la classe; l’autista che passa ogni mattina (guidando, a dire il vero, come un assassino) a raccogliere i bimbi dalle case sparse; il trascorrere delle stagioni e della vita di uomini e animali; il tenero dolore del distacco di chi, arrivato alla quinta, lascia maestro e compagni per andare in città. Un film fantastico.
Alice nelle città.
La “Festa del Cinema” di Roma ha un’importante sezione, “Alice nelle città”, dedicata al cinema su infanzia e adolescenza. Esce adesso, in tempo di scrutini e pagelle, il primo dei due film di argomento scolastico dell’ultima edizione, premiato con una menzione speciale dalla giuria composta di ragazzi dai 16 ai 19 anni. Prodotto dalla RAI e da “Sky documentaries”, patrocinato, fra gli altri, da Nanni Moretti, “Il cerchio”, di Sophie Chiarello, è in sala, per un breve passaggio di pochi giorni in poche sale, prima del passaggio televisivo. Con un giro di presentazioni istituzionali, attende invece la messa in onda “Cosa verrà”, prima regia del critico Francesco Crispino, prodotto dal Ministero dell’Università e della Ricerca e da quello della Cultura, presentato al festival come evento.
Ricordati di vivere.
“Il cerchio”. “Il cerchio” ha un precedente, bello e dimenticato, in un altro documentario marcato “Alice nelle città”: “Sotto il Celio azzurro” dell’anglo-salentino Edoardo Winspeare (“Galantuomini”, “In grazia di Dio”), che nel 2010 aveva dedicato un anno di lavoro e di vita all’esperienza di un asilo romano. Sul modesto cucuzzolo del Celio, alle spalle del Colosseo, un piccolo gruppo di volontari gestisce dal 1990 una piccola scuola materna che ancora oggi accoglie in prevalenza bambini immigrati e italiani in difficoltà. Un “mischione” etnico della popolazione infantile di zona con una netta, anche se non esclusiva, preferenza per quella disagiata. Vent’anni dopo, Sophie Chiarello, italo-francese di origini salentine che di Winspeare era stata aiuto regista, si sposta in via Bixio, poche centinaia di metri più in là, al centro del quartiere più multietnico della Capitale, dove c’è il plesso Di Donato di un’antica scuola elementare e media, la Daniele Manin, con sede di fianco a Santa Maria Maggiore. Se Winspeare aveva trascorso un anno al Celio, lei in via Bixio ne passa cinque, dal 2015 al 2020 (primo lockdown), con frequenza bisettimanale, girando 290 ore di materiale sintetizzato in 90 minuti.
Il cerchio che dà il titolo al film è una pratica pedagogica in uso alla Manin: “uno spazio fisico, ma soprattutto mentale, nel quale tutto può essere detto e ascoltato” (Sophie Chiarello). La forma è quella classica dello psicodramma: i bambini seduti in cerchio (generalmente in terra, per l’occasione sulle loro sedie, con la regista al centro su una poltroncina mobile), si raccontano. E la macchina da presa è un’amica che raccoglie momenti di fragrante allegrezza o malinconia. Il tema può essere suggerito o nascere da sé; può essere Babbo Natale, come i sentimenti che sbocciano, come la propria idea di felicità (“trovare in terra un biglietto da 100 euro”, come base di partenza, sembra raccogliere un certo consenso). Esemplare il cerchio su Babbo Natale, con il conflitto fra chi ci crede, chi non ci crede, chi non ci crede ma ritiene che non vada detto, chi non sa se crederci o no e chi se ne frega, basta che arrivi. Confronto che si rivela imprevedibilmente serio e profondo per alcuni. Mia madre la vigilia di Natale si alza alle 6 per andare a lavorare, dice una bimba accalorandosi. Valle a dire, che so, che Babbo Natale è stato tirchio, e più generoso con i tuoi amici. E senti come fischia.
Circolano, com’è naturale, le sciocchezze sentite in famiglia e in giro. Dalle più buffe (“Babbo Natale è una creazione della Coca Cola”) alle meno innocenti (“la danza non è cosa da uomini”). Fonte di tormenti quest’ultima, per una delle figure che rimangono più impresse: un bambino con singolari doti di contorsionista e la passione della danza, che ha già cambiato due scuole perché bullizzato. Qui sembra trovarsi bene. La sua specialità è una posa da ragno che intorcina gli occhi solo a guardarlo. A casa, durante il lockdown, lo vediamo seduto al pianoforte.
Più che guardarci, i bambini ci patiscono. “Il cerchio”, si sarà capito, non è un film sulla scuola o sul lavoro del maestro. Cogliere nei bambini la curiosità per la conoscenza è in fondo alla scala degli interessi dell’autrice. L’unica rappresentante del corpo insegnante offre una sapiente disponibilità a supporto dell’idea di regia, tenendosi a distanza con rispetto e discrezione. “Il cerchio” è un film sulla popolazione infantile del principale quartiere multietnico di una capitale come Roma, nella fattispecie l’Esquilino, la nostra Chinatown (per non dire mondo-town). E siccome il luogo ideale in cui osservarli, dai 6 ai 12 anni, è la scuola, dove tutti passano un certo numero di ore ogni giorno, è lì che Chiarello porta la sua “camera”. I bambini, come incubatori di una società futura, sono quindi i protagonisti assoluti del film, con i loro turbamenti, i loro guai, la loro ansia di felicità. Conseguenza di questo approccio è che la scuola del film sembra pensata da Stefano Benni. I tre piani di un palazzo umbertino (cinque di uno di oggi) diventano un immenso “open space” in cui un’allegra pipinara di ragazzini si muove fra le aule sempre aperte, le scale, i corridoi, le porte, le finestre e il grande cortile-palestra con le linee del campo di basket, nella gioiosa, ribollente anarchia di una perenne ricreazione. “Una Compagnia di Celestini” che, in branco o appartati, rinnovano quotidianamente il mito di un’enorme casa famiglia in cui sciogliere per alcune ore i nodi, spesso dolorosi, delle loro vite, parlando e crescendo e legandosi gli uni agli altri, senza le limitazioni che bene o male ci sono in famiglia. Tanto meno quelle che prevede di solito una scuola.
Un anno di scuola.
“Cosa verrà”. “Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida” scriveva Gesualdo Bufalino (“Cere perse”), e proseguiva elencando le altre Sicilie (“sperta”, cioè, al contrario, “furba”; pigra, ecc). Parliamo dell’estremo sud dell’isola, fra le provincie di Ragusa e Siracusa, zona considerata a bassa intensità mafiosa e anche per questo, non so quanto paradossalmente, irrisa (non da Bufalino, ovviamente). Fra la Roma multietnica dell’Esquilino e questa Sicilia il passo è lungo. Lo ha fatto Francesco Crispino, critico cinematografico romano al suo primo film, sfruttando un piccolo finanziamento MIUR (Università e ricerca) e MIC (cultura) per un progetto in materia di educazione ad un uso limitato della plastica e alle sue forme corrette di riciclo. A ricevere il finanziamento, in ragione di apposito bando vinto, l’Istituto comprensivo Edmondo De Amicis di Floridia (SR), a due passi dal petrolchimico di Priolo di Gargallo e dal suo depuratore, sequestrato due mesi fa per “disastro ambientale” (il depuratore). Ma era l’estate del 2020; ad iniziare era l’anno più tormentato della pandemia; per gli studenti, un anno trascorso più a casa davanti al computer (DAD) che a scuola. Il tema dell’inquinamento, da plastica e non solo, trovava un contesto tale da suggerire un approccio integrato con quello pandemico di un anno così speciale. “Cosa verrà” è il racconto di un anno di scuola in una zona di frontiera che fatica a sentirsi tale e, come il calabrone, che non dovrebbe volare e invece vola, continua a vivere. E’ una scuola media, stavolta, e siamo fra alunni di terza. Una bella differenza, fanno, quei tre o quattro anni.
Crispino è molto bravo ad adattare lo stile al tema, all’ambiente, ai volti. In un morbido bianco e nero molto nouvelle vague (diciamo Jean Rouch) rotto solo da due sequenze a colori (la grande tartaruga di terra e le sue uova sporchi di residui tossici e la colonia dii fenicotteri rosa nelle saline di Priolo), racconta un anno di scuola, dalla campanella del primo giorno fino all’esame e ai saluti. Dalla consegna di un oggetto personale, richiesta agli alunni il primo giorno (con la richiesta di chiarire le ragioni di questa predilezione) al ritiro dell’oggetto, rimasto in “pegno” tutto l’anno, nell’ultima bellissima sequenza – la terza a colori – cha accompagna i titoli di coda. Un anno di scuola, come il racconto di Giani Stuparich e il film di Franco Giraldi sulla prima ragazza ammessa al liceo – e di lì all’università – nel 1909 a Trieste.
Non è così strano il confronto. Questo piccolo film siciliano è più “europeo” della maggior parte della nostra produzione. Il trio dei ragazzi è perfetto. Eric, il giovane africano nato con otto o dieci fratelli in un paese in guerra, esfiltrato piccolissimo in Sicilia per un’adozione, che parla un italiano fantastico in un accento più siculo di quello di Montalbano; Sarah, la bella biondina, affilata, dai lunghi capelli e Alice, la morettina dai grandi occhiali, sensibile e loquace, che si muove in modalità “amica”, sempre un passo indietro, convinta che Eric sia attratto da Sarah, e capisce che invece è lei la preferita e che è il momento di fare un passo avanti. E poi la scuola, quando c’è, con il lavoro teatrale sulla leggenda di Colapesce (si legge la versione di Benedetto Croce, si accenna a quella di Sciascia) e le puntualissime discussioni sul lieto fine. Le uscite in bicicletta o a piedi nella città deserta dove tutti si conoscono, tutti con la mascherina.
Fitta la trama di citazioni, imprescindibile per un critico come Crispino, occhio da documentarista finito e cuore da bambino. I bellissimi campi lunghi nella campagna che ricordano quelli di Pasolini in “Uccellacci”, con Totò e Ninetto piccoli piccoli sullo sfondo della Basilica dei Santi Pietro e Paolo all’Eur, all’inizio dei sessanta, quando “qui era tutta campagna”. Qui lo sfondo è il petrolchimico, e quei passaggi di vecchi che attraversano la scena dietro a chi è inquadrato rimandano a certe cose di Ciprì e Maresco. C’è anche molto Bertolucci: il bianco e nero di “Prima della Rivoluzione” con la sequenza a colori e Eric in bicicletta affiancato dall’amico in surf lungo la strada deserta del paese. Ma magari fossero tutte così le citazioni, assorbite nel tessuto stilistico e non messe lì come cartelli segnaletici.
Finisce con due ragazzi innamorati. Con gli esami: la poesia di Saba sui due portieri dopo il gol (a proposito di Trieste), la tremarella, le piccole silenziose isterie, le magliette di Keith Haring, gli strilli, gli abbracci a due, a tre, a quattro. E con la consegna dei giudizi: ad ogni ragazzo un quadernetto con la valutazione dell’insegnante scritta a mano sulla prima pagina. Questa è la prima pagina del cahier di Giuseppe:
“Caro Giuseppe, la tua maturità insieme alla tua gentilezza ti porteranno lontano. Proponi sempre le tue idee con consapevolezza e responsabilità, perché un giorno vorremo sentire parlare di te. Le tue prof.”.
E questa quella di Alice:
“Dolcissima Alice, ancora così acerba e già così complessa. Sorprendente nelle tue intuizioni da grande e adorabile nelle tue conclusioni da bambina. A te, che cerchi sempre te stessa, questo sei e tanto altro ancora. Accetta ogni sfumatura, coltiva i tuoi pregi, convivi con i tuoi difetti e sarai completa. Le tue prof.”
Direi che può andare, no?