“Che cos’è un mito oggi? Darò subito una risposta molto semplice, che si accorda perfettamente con l’etimologia. Il mito è una parola”. Roland Barthes.
“Mythologies” (“Miti d’oggi”), di Roland Barthes, è uno dei testi fondamentali del secondo novecento. “Miti d’oggi” è la raccolta di una serie di articoli scritti fra il 1954 e il 1956, accompagnata da un saggio finale che inizia con le parole che trovate sopra. E prosegue così: “Naturalmente non è qualsiasi parola: al linguaggio occorrono particolari condizioni per diventare mito; e lo vedremo subito. Ma va stabilito energicamente sin da principio che il mito è un sistema di comunicazione, è un messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, o un’idea; bensì un modo di significare, una forma”. Mi fermo perché le citazioni troppo lunghe stufano, giustamente, e questa lo è già abbastanza. Un montaggio personale di citazioni da questo testo seguirà in due blocchi distinti.
I lettori di TUTTI sono in genere grandicelli e quindi lo sanno, ma per i più piccini dirò che Roland Barthes, nato nel 1915 e morto nel 1980, investito a Parigi dal furgoncino di una lavanderia, è stato, insieme ad Umberto Eco il principale studioso e divulgatore (grazie ad una lingua meravigliosa) della scienza semiologica in Europa. Filosofo, linguista e appunto semiologo, ha scritto di retorica antica come di comunicazioni di massa; di cinema e fotografia, letteratura e moda, ma a procurargli imperitura riconoscenza e – per chi crede (non mi pare fosse il suo caso), il Paradiso – sono due libri: “Miti d’oggi” e “Frammenti di un discorso amoroso”, veri e propri libri da capezzale di milioni di contemporanei. Ma il tempo passa e ieri, volendo verificare un’informazione, ho dovuto digitarlo tutto il nome, perché l’algoritmo continuava a propormi Barthez, l’ex portiere pelatone della nazionale francese.
Quali sono i “Miti d’oggi”, le parole, le immagini degli anni 50/60? Quelli del consumo, chiaramente, che in quegli anni comincia ad essere sempre più consumo culturale. Quindi “I Romani al cinema”, “Lo scrittore in vacanza”, “I giocattoli”, il juke box, la pubblicità, il Tour de France, “La bistecca e le patate fritte”, lo strip tease, eccetera. Fra i miti destrutturati con acume e ferocia, o malinconia, da Barthes ce n’è uno bello e felice: il mito dell’Arca. Le pagine che lo descrivono hanno un titolo antifrastico: “Parigi non è stata inondata”. Antifrastico, perché nel ’55 la sua alluvione Parigi l’ha avuta, e come. La Senna è un fiume come gli altri e i fiumi, da che mondo è mondo, li fanno questi scherzi. La Senna, in particolare, li fa spesso. Ma allora, perché “Parigi non è stata inondata”?
“Malgrado i disagi e le sventure che ha potuto apportare a migliaia di francesi, l’inondazione del gennaio del ’55 ha avuto della Festa, più che della catastrofe”. Non è certo l’inizio che ci si aspetta da un articolo su un’alluvione. Pare di un matto. Il fatto è che Barthes sta leggendo le immagini dell’inondazione, le “fotografie di stampa, sola via di consumo veramente collettiva dell’inondazione” (non c’era ancora la TV), di cui pieni erano i rotocalchi e che ancora oggi costituiscono un ragguardevole repertorio in rete. Del resto si è detto all’inizio: il mito è una parola. Non un fatto, con le sue conseguenze e i suoi drammi, ma il suo racconto. E’ noto che Cesare Pavese alla domanda su chi fosse per lui il maggior narratore italiano, rispondesse: “Vittorio De Sica”, un narratore per immagini. Barthes analizza il lavoro dei fotoreporter dei rotocalchi popolari, le anonime palle quadre che l’alluvione l’avevano raccontata con i piedi a bagno e la fotografica a tracolla. O dal cielo, dagli elicotteri dei pompieri. Questa parola, neanche tanto incredibilmente, è Festa (maiuscolo). “Ogni rottura un po’ ampia del quotidiano introduce alla Festa” (R.B.). Come le grandi nevicate, che fanno dannare i grandi, con le macchine bloccate nei tunnel o per le strade, alle prese con l’inceppamento di città disabituate all’evenienza, ma entusiasmano i bambini e gli animali (non tutti). Ma anche gli stessi grandi, pure se non lo dicono, quando la guardano dalla finestra. Facilmente presagendo il “pacciugo” prossimo venturo.
“La piena non ha solo scelto e spaesato certi oggetti – automobili ridotte al semplice tetto, lampioni troncati con la sola testa galleggiante a fior d’acqua come un nenufaro” (una ninfea), “case troncate come cubi di bambini, un gatto bloccato per giorni su di un albero – ma ha sconvolto la stessa cinestesia del paesaggio” (le sensazioni fisiche che trasmette: il calore dell’immagine di una spiaggia o il brivido di una distesa gelata). “L’organizzazione ancestrale degli orizzonti, le linee abituali del catasto, le cortine di alberi, le file di case, le strade, perfino il letto del fiume, tutto è stato cancellato. Il fiume, causa di tutto questo sconvolgimento, non c’è più: il suo nastro, questa forma elementare di ogni percezione geografica, passa dalla linea al piano. Una sostanza piana che non va da nessuna parte. Nel centro dei riflessi ottici la piena porta il suo scompiglio, ma questo scompiglio non è visivamente minaccioso. L’appropriazione dello spazio è sospesa, la percezione è stordita, ma la sensazione globale resta dolce, placida, immobile e morbida; lo sguardo è trasportato in una diluizione infinita; la rottura del visivo quotidiano non è dell’ordine del tumulto: è una mutazione di cui si avverte solo il carattere compiuto, e questo allontana l’orrore.” (R.B.)
L’articolo che avete davanti nasce da una forma di turbamento e da una constatazione, sorprendente per molti, meno per me. Il turbamento è quello procuratomi da questa foto. L’abbiamo vista per giorni alla televisione e avrebbe dovuto, immagino, trasmettere orrore. Solo che è bellissima. Io sono emiliano, non romagnolo, ma quei luoghi li attraverso ogni anno più volte, lungo l’orrore – quello sì – della E45. A quattro km dal confine superiore della Romagna (cioè della provincia di Ravenna) e a venti dalla fattoria Guiccioli, dove morì Anita Garibaldi, passo da trent’anni e passa le vacanze. In comune di Comacchio, cioè al centro di una delle zone umide più estese d’Europa, fra parchi e oasi del WWF, parte inferiore di quel delta del Po che arriva fino a Chioggia e si prolunga nella laguna. Panorami e paesaggi familiari, che attraversano la provincia di Ferrara e riprendono oltre Modena, seguendo la via Emilia e il corso del grande fiume, lungo quegli argini e quei filari di pioppi che abbiamo visto splendidamente ritratti di recente nel film di Giorgio Diritti su Ligabue (“Volevo nascondermi”). E da “Paisà” fino al recentissimo “Delta”, di Michele Vannucci, con Alessandro Borghi e Luigi Lo Cascio, in decine e decine di film. Siamo una terra di registi, oltretutto. Aggiungo che quella colpita dall’alluvione è gente che un secolo fa è andata a riscattarli, questi paesaggi, a prezzo della malaria, e a riprodurne perfino la cinestesia (appunto) a Ostia, Maccarese e Fiumicino, nella prima delle due grandi bonifiche (per l’altra vennero da Ferrara e Rovigo). Non credo che molti desiderino uno di quei “casoni” come abitazione, ma pochi paesaggi muovono meno di questo a un istintivo orrore e ripulsa. E’ una foto che io attaccherei al muro e non mi stancherei di guardare. Come le meravigliose foto di uno dei grandi poeti del Delta, Luigi Ghirri.
“A questa pacificazione della vista corrisponde evidentemente tutto un mito felice dello scivolamento. Davanti alle fotografie dell’inondazione ogni lettore sii sente scivolare per procura. Donde il grande successo delle scene in cui si vedono barche avanzare nella strada. Queste scene sono molte, giornali e lettori se ne sono mostrati ghiotti. Dopo millenni di navigazione la barca resta ancora un oggetto sorprendente: provoca voglie, passioni, sogni: bambini nel loro gioco o viaggiatori affascinati dalla crociera, tutti vi vedono come lo strumento stesso di una liberazione: la soluzione sempre stupefacente di un problema insolubile per il buon senso: camminare sull’acqua. L’inondazione rilancia il tema, gli dà la cornice stuzzicante della strada di tutti i giorni: si va in barca dal droghiere, il parroco entra in barca nella sua chiesa, una famiglia va a fare provviste in canoa. Le case si sono ridotte a cubi, le ferrovie a linee isolate, le greggi a masse trasportate ed è la barchetta, il giocattolo superlativo dell’universo infantile ad essere diventate il modo possessivo di questo spazio distribuito, spiegato, e non più radicato.”
E siamo alla constatazione, all’”euforia di ricostruire il villaggio o il quartiere, di dargli nuovi percorsi”. Ciò che ha sorpreso gli osservatori della catastrofe romagnola, gli spettatori della televisione, i navigatori del web (che ha moltiplicato per un miliardo i materiali fotografici) è stata la sorprendente, quasi costernante, assenza di qualsiasi ancorché minimo tratto di autocommiserazione nelle vittime della sciagura. Sostituita da un fervore, spirito di condivisione, progettualità, sguardo avanti al prossimo caldo e alla stagione estiva. Ringraziando il cielo che questo non sia successo a gennaio perché sarebbe durato mesi l’orrendo puzzo di carogne, di pesci e d’altro, che per un paio di settimane ha infettato la zona con il ristagno delle acque. Stranivano l’osservatore le espressioni perfino affabili e sorridenti. Sembravano il “vilàn” di “Ho visto un re”, la canzone di Jannacci e Fo. Quello che gli han portato via la casa, il cascinale, il violino, la scatola di cachi, i dischi di Little Tony, la moglie, il figlio militare, gli hanno ammazzato anche il maiale e ancora ride. Le idiozie sui clandestini che a spalare non si sarebbero visti le hanno diffuse i coglioni da fuori. Dall’interno, solo pale, pompe, idrovore al lavoro, accudimenti, allestimento di tende e mense. Come a Parigi, settant’anni fa.
“Minacciando Parigi, la piena ha potuto anche avvilupparsi nel mito quarantottardo: i parigini hanno alzato barricate, hanno difeso la loro città con l’aiuto delle selci contro il fiume nemico. Questo modo di resistenza leggendaria ha sedotto molto, sorretto da tutta una serie di immagini: il muro di arresto, la trincea gloriosa, il baluardo di sabbia che i bambini erigono sulla spiaggia gareggiando in velocità contro la marea. Era più nobile del pompaggio delle cantine, da cui i giornali non hanno potuto ricavare grande effetto. Meglio sviluppare l’immagine di una mobilitazione armata, il concorso delle truppe, i canotti pneumatici a motore, il salvataggio “dei bambini, dei vecchi e dei malati”, il rientro biblico delle greggi, tutto questo fervore di Noè che riempie l’Arca. Perché l’Arca è un mito felice: l’umanità può prendervi le sue distanze nei confronti degli elementi; vi si concentra e vi elabora la coscienza necessaria dei propri poteri, facendo scaturire dalla stessa infelicità l’evidenza che il mondo è malleabile.” (R.B.)
LA VERIFICA FILMATA. UNE HISTOIRE D’EAU.
1958, un’altra alluvione inonda Parigi. François Truffaut parte per l’Ile de France con 600 metri di pellicola per girare un documentario sull’avvenimento. Porta con sé l’amico Jean Claude Brialy e una ragazza, Caroline Dim, che non diventerà uno dei volti della Nouvelle Vague ma lascia alla storia del cinema un quarto d’ora di incanto. Truffaut lo gira il film e però sembra non sapere che farne. Affida il girato a Godard, che lo monta in maniera frenetica e spiritosa, pensando a Mack Sennett e alle comiche del muto. Sceglie le musiche, senza dire quali (prevale il jazz), e affida alla protagonista un racconto-commento fluviale (è il caso di dirlo) in prima persona, che accompagna tre quarti del film. Ne fa una studentessa di lettere che condisce il racconto con un centone di citazioni da Aragon a Poe, da Omero a Baudelaire, da Petrarca a Chandler, da Matisse a Wagner. Una divertente, saltellante séance alla Oscar Peterson fra l’alto e il basso, l’antico e il moderno, il pulp e il sublime, le barzellette sceme e i Fiori del Male. Quel tipico saltellare dei ricochets (i balzelli di un sasso piatto lanciato di striscio sul pelo dell’acqua) sulla superficie delle cose e della cultura. Quelle cose che al tempo di “La cinese” avrebbero mandato in bestia Sartre.
Piccola storia d’amore. Lei vive in campagna e l’alluvione le impedisce di prendere il bus per la Sorbona. Vestita bene – è un classico francese la signora o signorina in gonna, calze e tacchi alti sulle passerelle durante le inondazioni – accetta gli stivali di un cugino e sguazzando nell’acqua raggiunge la strada. Pollice su, ferma un giovanotto elegante che in auto va a Parigi, o ci prova. Per la strada, tutto il panorama delle fotografie di Barthes: c’è un uomo seduto su un tetto che aspetta che scenda l’acqua e saluta. Gli passano davanti tre o quattro volte. Lui parla solo di macchine, che palle. Si piantano e provano a piedi. Lui cerca di sedurla, la bacia. Lei tocca e lascia, lascia e raddoppia. Finalmente sono a Parigi, la tour Eiffel è circondata dall’acqua. “La Francia può finire sott’acqua, ma io sono felice”. Stasera dormirà da lui. Le sue barzellette fan cagare, ma il resto va bene. La giornata non è andata persa. Il gioiellino ha un titolo spiritoso; “Une histoire d’eau”. Per i Cahiers dura venti minuti; per Farassino (e Wikipedia) diciotto, ma la versione disponibile in rete (di cui al link) ne dura dodici. Apparentemente è integra; dove sian finiti gli altri sei (o otto) non è chiaro. Ma è niente, confronto al non sapere dove sia finita Caroline Dim. E’ l’unico film firmato a quattro mani dai due dioscuri, il loro esordio. Vive nel segno di quell’euforia che ai francesi dà la pioggia. “Il pleut / Je suis heureux toutes les fois qu’il pleut” (Maurice Chevalier). E così Trenet, Brassens, Montand, è un coro. Si divertono come dei matti quando piove.
Non credo che in Romagna condividano. Ma sanno che ce la faranno.