Le temperature che stiamo vivendo in questa calda estate del 2023 ci rimandano all’ineluttabilità di un problema che mettiamo tra parentesi, che stentiamo ad affrontare globalmente, un fronte a cui non forniamo risposte, complice una politica ricca di uomini di marketing (su tutti Renzi) ma non di statisti. Così nell’ignavia complessiva sprofondiamo in una terra sempre più calda dove ognuno se la cava accendendo il proprio condizionatore, probabilmente acquistato nell’estate del 2003, la prima stagione dell’allarme.
Un allarme decisamente inascoltato. Per rimanere nell’attualità due esempi: il primo relativo al mese appena trascorso, il secondo all’anno di cui ci siamo sbarazzati senza rimpianti. «Il mese di giugno è stato il più caldo a livello globale, con poco più di 0,5 gradi al di sopra della media 1991-2020, superando giugno 2019 – il record precedente – di un margine sostanziale». È quanto si legge nell’ultimo aggiornamento dell’osservatorio europeo Copernicus. Semplificando, il giugno scorso è stato probabilmente il mese più caldo nella storia del mondo. Aggiungiamo che il 2022 è andato in archivio per medie meteorologiche come l’anno complessivamente più caldo dal 1850 in poi, cioè dal giorno in cui sono stati rilevati strumenti di misurazione comparativi. Dunque anche in questo caso non si può escludere che sia stato l’anno più caldo nella storia del mondo.
E due indizi non fanno un caso per gli obiettori della grande teoria del cambiamento climatico che non è evidentemente un capriccio di Greta Thunberg. Siamo su asse di disequilibrio ecologico in cui la vecchia contrapposizione massmediologica di Marshall McLuhan tra apocalittici e integrati si potrebbe rovesciare in quella molto più radicale, estrema e terribile di apocalittici e disintegrati. Il pianeta resisterà a differenza della presenza umana. Del resto non si sono estinti i dinosauri?
La politica dovrebbe rovesciare su un piano inclinato le proprie priorità partendo da questa inderogabile emergenza che è una richiesta di sopravvivenza. Ecco che di fronte a un disastro naturale, figlio di mancate scelte, appare grottesca l’assenza nel dibattito di un autentico partito verde che scavalli le antiche contrapposizioni destra/sinistra per sollevare drammaticamente l’esigenza di un cambiamento davvero radicale. Di abitudini familiari, di politica industriale, di rassemblement unitario delle grandi potenze. Di fronte alla vastità del problema appare grottesco palliativo la ratio europeista che peraltro non trova neanche un fronte concorde.
La decisione di mettere al bando i motori a scoppio nel 2035, peraltro fortemente contrastata anche in Italia, è figlia di un eurocentrismo davvero non globalizzante. E negli altri continenti perché questa non è considerata una priorità cogente? Quello che non si è fatto finora in materia rimanda a uno stretto budello di contraddizioni. Per esempio in Italia con la povertà crescente chi sarà in grado di comprare per tempo una meno inquinante auto elettrica se l’industria automotive non abbasserà i costi? E perché la Fiat, ora Stellantis, che ora produce meno della Romania e della sua Dacia, non ha pensato per tempo a munirsi di una sua autorevole linea di produzione di auto elettriche? Con i governi nostrani che si sono succeduti in questi anni mai pronti a suggerire una svolta. Siamo tutti a bordo di un Titanic che sta per andare a sbattere, con la differenza, rispetto al precedente, che siamo avvisati di quanto sta per accadere. E dunque perfettamente coscienti continuando a essere incoscienti. Nell’ossimoro c’è la contraddizione del nostro attuale stato.
Foto di apertura:Foto di Jeyaratnam Caniceus da Pixabay