C’è una visione della politica che vede la felicità della società come fine dell’attività di governo. Al polo opposto c’è la politica quale strumento per conseguire il fine della felicità dei governanti intesa come loro intima soddisfazione per l’applicazione di quella che loro ritengono essere la ricetta giusta per i loro amministrati, elaborata secondo dettami ideologici. È il neoplatonismo sempre in agguato all’insegna della “cura delle malattie del corpo sociale” elevata a virtù suprema. È abbastanza ovvio che la felicità dei cittadini è nell’interesse nazionale mentre è più che discutibile che lo sia quella dei governanti così intesa che anzi si è spesso manifestata in forme catastrofiche per i governati, e in ultima analisi anche per i governanti stessi. Basti pensare a un Savonarola o a un Robespierre.
È implicito che il fine della politica estera è la tutela dell’interesse nazionale e quindi la felicità dei cittadini. Definire in cosa consista questa felicità è d’altra parte abbastanza complesso: la felicità è soggettiva, non necessariamente univoca e potenzialmente divisiva, riflette diversità di opinioni e di umori. È più semplice fare la lista di ciò che alla gente non piace: impoverimento, disoccupazione, fame, guerra, più tasse, il “badfare state”, privazione della libertà, censura, intolleranza. La rivoluzione francese fu scatenata dalla insostenibilità fiscale del sostegno alla rivoluzione americana sullo sfondo delle avverse conseguenze economiche della “piccola glaciazione”. L’assolutista Luigi XVI e i suoi consiglieri aiutando i democratici rivoluzionari americani in funzione antibritannica inconsciamente si scavavano la fossa.
In che direzione stiamo andando e quale può essere il ruolo internazionale dell’Italia per mantenere il livello di sviluppo e benessere senza precedenti che è stato raggiunto particolarmente nel continente europeo?
È forte il rischio di un acuirsi della contrapposizione nord-sud in cui si inseriscono le pressioni migratorie. La maggioranza dei migranti proviene da paesi ricchi di materie prime, alcuni dei quali mostrano anche tassi di crescita elevati. Sono persone che aspirano a un miglioramento delle proprie condizioni cui spesso si frappone anche la natura dei regimi al potere. Ci siamo purtroppo rassegnati a considerare normale una inaccettabile divisione del mondo in due regioni: la nostra, dove si è raggiunto un alto livello di sviluppo sociale ed economico e dove sono assicurati i diritti fondamentali, e quella in cui di fatto essi sono disconosciuti e non vi è una effettiva possibilità di equo accesso al benessere. Inoltre in molti paesi della seconda regione si sta rafforzando una presenza cinese a carattere neocoloniale, senza positive ricadute di crescita economico sociale.
Qualcosa si sta muovendo in termini di iniziative di sviluppo nei paesi di provenienza per tentare di risolvere il problema “a casa loro”. L’Italia ha annunciato il “Piano Mattei”. La scala dei problemi da affrontare è peraltro enorme. Richiede uno sforzo europeo congiunto e una effettiva transizione al sostegno di iniziative infrastrutturali e industriali piuttosto che privilegiare il mero alleviamento di emergenze umanitarie.
Sarebbe inoltre opportuno affrontare senza tabù il tema del controllo delle nascite, sensibilizzando e sostenendo i governi dei paesi interessati nell’attuazione di specifiche misure. Negare il problema rientra nella perniciosa logica della bipartizione del mondo.
A prescindere da ogni considerazione giuridica e morale, la “delocalizzazione” dell’accoglienza in centri in un paese terzo può essere una soluzione solo se la capacità dei centri stessi è sufficiente a far fronte all’afflusso, i tempi di trattazione delle richieste veloci e gli eventuali rimpatri immediati. La deterrenza è inoltre tutta da verificare, in difetto di una “opzione Nauru”.
L’impronta del traffico di esseri umani appare essere finora quella di una operazione condotta ad arte da organizzazioni criminali transnazionali che tengono conto del limite della capacità di assorbimento da parte del “sistema Italia”. Così cinque miliardi l’anno per 200.000 persone è fiscalmente, e socialmente, ancora “sostenibile”. Comporta ovviamente “erosioni” spalmate su altre voci del bilancio dello Stato – che possono andare dalla sanità alle pensioni, dalla scuola al sostegno all’imprenditoria e così via – senza peraltro avere l’effetto contundente e le ricadute politiche interne che verrebbero provocati da afflussi di ben altre proporzioni.
Che succederebbe se si verificasse lo scenario descritto nel 1972 da Jean Raspail ne “Il campo dei santi” con l’arrivo di due milioni in un anno?
In questo senso i flussi migratori si prestano anche a diventare una vera e propria arma di destabilizzazione interna in situazioni di confrontazioni politiche internazionali con paesi che per una varietà di motivi hanno particolare presa su alcune componenti migratorie.
Sarebbero utili interventi su tutta la filiera migratoria. I flussi migratori sono inevitabilmente strumento di pressione nelle mani dei paesi di transito che in qualche modo detengono le chiavi del loro rubinetto. Tanto vale proporre forme di cooperazione che prevedano un nostro diretto coinvolgimento nel controllo delle frontiere marittime e nella gestione dell’accoglienza insieme alle autorità locali e alle competenti organizzazioni internazionali. Una maggiore proattività dovrebbe essere esercitata per contenere il fenomeno alle radici, affiancando al sostegno allo sviluppo socio-economico iniziative concordate con i paesi di origine per avviare programmi di informazione sui rischi che derivano dal mettersi alla mercé di trafficanti per un viaggio che può anche finire tragicamente con la morte e che comunque conduce a una destinazione finale che non offre particolari opportunità di inserimento e spesso ha come unico sbocco la soggezione al caporalato e allo sfruttamento, o l’attrazione nella criminalità.
Andrebbe inoltre affrontato il tema della effettiva integrazione che non può essere ridotta a una questione di facilità di espressione nella lingua italiana. Sull’integrazione incidono convinzioni religiose e il progresso tecnologico che rende possibile il mantenimento, senza soluzione di continuità, di un rapporto permanente e istantaneo con la realtà di appartenenza originaria e favorisce in forme non immediatamente evidenti anche il proselitismo estremista. Il rischio è quello della capillare diffusione di enclave dove si seguono costumanze e comportamenti difficilmente conciliabili con l’ordine pubblico interno, e l’innesto in Italia di conflittualità ad essa aliene. Il tema è quello dei limiti in cui l’intolleranza è tollerabile ovvero dell’intolleranza dell’intolleranza come valvola di sicurezza della felicità della società nel suo complesso.
Le tensioni nord-sud si intrecciano con quelle est-ovest.
In dipendenza del conflitto in Ucraina si è rafforzato il rapporto tra Mosca e Pechino. Stiamo assistendo alla formazione di un asse che si propone come riferimento per il sud nel confronto con il nord del mondo. In tale contesto la Cina potrebbe presto essere tentata dal risolvere la questione di Taiwan nel perseguimento dell’obbiettivo dell’acquisizione del controllo dello Stretto di Malacca, arteria vitale per l’economia mondiale.
Mentre resta da dimostrare che le sanzioni applicate alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina abbiano raggiunto lo scopo, è abbastanza evidente che esse sono state un boomerang per l’economia dell’Europa. Mosca ha certamente fatto un errore di calcolo se credeva di poter contare su una sorta di mano libera in Ucraina grazie alla dipendenza energetica di paesi europei dalle proprie forniture a basso costo. Gli europei hanno imposto sanzioni alla Russia e si sono rivolti altrove. Ma al costo di negative ripercussioni sulla competitività delle attività imprenditoriali e soprattutto sul tenore di vita delle popolazioni. La Cina ha un notevole vantaggio economico industriale nei confronti dell’Europa e dell’Occidente. Controlla gran parte delle materie prime necessarie per l’attuazione della transizione verde ed è il maggior produttore di installazioni e componenti per i settori eolico e solare. Non esiste allo stato attuale un produttore alternativo che possa sostituire la Cina. Eventuali sanzioni alla Cina comporterebbero un forte rallentamento se non la fine della transizione verde e un incremento dei suoi costi oltre il limite della sostenibilità. Colpirebbero certamente l’economia cinese ma avrebbero anch’esse un effetto boomerang tale da renderne sconsigliabile l’attuazione. Pechino potrebbe raggiungere i propri obbiettivi senza subire alcuna conseguenza.
È come se fossimo sotto scacco matto. Una via d’uscita non può prescindere da un’azione di contenimento. Teoricamente sarebbe essenziale un “recupero” della Russia che storicamente ha anche svolto un ruolo di baluardo orientale dell’Occidente. È un baluardo che certamente può non piacere ma in questa fase il rischio è di trovarsela come baluardo occidentale dell’Oriente. L’argomento è ostico ma inevitabilmente arriverà il momento in cui gli Stati Uniti – per motivi di politica interna – decideranno che è giunta l’ora di chiudere negozialmente la questione ucraina – mettendo ovviamente tutti i necessari paletti – e accordarsi con la Russia, essa stessa prona a trovare un accordo per motivi interni, come quando l’Unione Sovietica si rese conto che non poteva tenere il passo con il programma di guerre stellari di Ronald Reagan. Tale quadro potrebbe offrire l’opportunità per affrontare con i russi anche il tema di una rimodulazione del loro rapporto con Pechino e in una simile prospettiva l’Italia potrebbe certamente avere spazio per dare il proprio apporto a eventuali discussioni con i propri alleati.
Per l’Africa – che è diventata terreno di penetrazione economica e politica cinese, oltre che russa – l’Italia può essere esempio e stimolo per l’Unione Europea per l’avvio di un vasto programma per favorire la crescita economica e lo sviluppo sociale.
Sul piano globale, cruciale è l’intensificazione dei rapporti bilaterali – fondamenta di ogni attività nei fori multilaterali – anche con riferimento a paesi in aree lontane dai nostri tradizionali interessi.
Sulla questione palestinese gravano le incognite di forti connotazioni escatologiche e la contrapposizione di interessi regionali oltre a quella tra Stati Uniti e Russia. È ovvio che Teheran non vuole la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Israele né tantomeno uno stato palestinese. Serve invece un fattore di instabilità e tensione permanente. Hamas è uno strumento di cui gli iraniani si avvalgono e i palestinesi stessi sono vittime manipolate da decenni. Nell’ottica di Hamas il “danno collaterale” è necessario e voluto per esigenze di propaganda: più bambini muoiono meglio è. Si può argomentare che in un mondo ideale Israele non dovrebbe cadere nella trappola della provocazione, ma un dato di fatto è che Hamas ha come obiettivo la distruzione dell’“entità sionista” e che il 7 ottobre ha fatto un salto a ritroso in un medio evo fatto di stragi, stupri e ostaggi. D’altra parte in questi ultimi anni – per decomprimere tensioni sempre pronte a esplodere – si sarebbero dovute esercitare pressioni su Israele ad astenersi da ulteriori insediamenti di coloni nei territori.
Il rischio immediato per il nostro interesse nazionale è rappresentato da possibili derive verso il nostro paese non solo terroristiche ma anche sotto forma di mobilitazioni di massa che possono far leva soprattutto su settori dell’immigrazione sensibili alla narrativa di Hamas. Questi ultimi nel medio termine potrebbero anche incarnarsi in formazioni politiche con rappresentanza parlamentare. Che fare?
C’è una questione che bisognerebbe affrontare. È in atto una offensiva in più sedi a livello internazionale contro la libertà di espressione in nome della prevenzione della diffusione di notizie ritenute false o di opinioni considerate improprie. È facilitata dal progresso tecnologico e si inserisce nell’alveo della digitalizzazione del controllo dei cittadini e di ogni loro attività. È espressione dell’ideologia dello “stato badante”. Paradossalmente l’Occidente sta assumendo connotati non proprio compatibili con i valori per i quali tradizionalmente esso veniva identificato, raggiungendo livelli di controllo sociale e coartazione comportamentale che non erano stati nemmeno immaginati in Unione Sovietica. Rischiamo di diventare il mondo descritto oltre cento anni fa da Yevgenij Zamyatin in “Noi”. Non proprio il massimo della felicità.
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