Di carcere si parla ancora poco, nonostante sia considerata – da tutte le forze politiche – una delle emergenze del nostro Paese. E, poi, se ne parla molto spesso anche in modo scorretto. I pregiudizi ed i luoghi comuni sono la regola. I media di vasta diffusione forniscono informazioni inesatte che contribuiscono ad alimentari nell’opinione pubblica malintesi ed equivoci di ogni genere, soprattutto quando affrontano il tema dei detenuti che – nel rispetto della normativa vigente – escono dal carcere per motivi di lavoro e/o di studio prima di aver scontato tutta la pena.

È bene ricordare subito che non si devono etichettare le persone per gli errori che hanno commesso. La persona detenuta “non è un reato che cammina”. Per chi commette un reato deve certamente essere prevista una sanzione anche detentiva se non è possibile applicare misure alternative, ma tale sanzione deve avere un senso, deve avere una sua utilità. Se viene a mancare la rieducazione, la pena detentiva diventa solo afflizione, diventa espiazione, diventa punizione.

La funzione rieducativa della pena

Si precisa che la funzione rieducativa della pena trova il suo riconoscimento nella nostra Costituzione: il terzo comma dell’art. 27 stabilisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

La prima parte di questa disposizione afferma, in buona sostanza, che la pena non si può concretizzare in trattamenti volti a umiliare o mortificare la persona condannata o a ferire la sua dignità.

Nella seconda parte del terzo comma il legislatore si è limitato ad stabilire che le pene devono avere come obiettivo la rieducazione del condannato. È opportuno soffermarsi sul verbo ”tendere”, in quanto la persona detenuta ha la possibilità di decidere – di sua spontanea volontà – se partecipare o meno ad un progetto di rieducazione. Anche il detenuto, infatti, va sempre considerato titolare di diritti, motivo per cui egli ha la possibilità di decidere di non partecipare a alcun percorso di rieducazione e risocializzazione, ma, nonostante ciò, non dovrebbero essere consentiti agli operatori atti mirati alla sua emarginazione.

Malgrado l’ordinamento italiano sia incentrato sul principio rieducativo della pena, in realtà, in concomitanza all’art. 27 della Costituzione, non è stata promulgata una vera e propria legge che rendesse effettivo tale principio. Ciò è avvenuto solo nel 1975 con l’entrata in vigore della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

La legge n. 354/1975 ha segnato una vera e propria svolta, perché ha sostituito definitivamente il regolamento carcerario del 1931, che vedeva nelle privazioni e nelle sofferenze fisiche gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo.

La legge n. 354/1975, entrata in vigore dopo circa trent’anni dalla promulgazione della Costituzione, ha messo in pratica un dettato costituzionale, rimasto per anni inosservato. Per tale ragione, in quel trentennio di attesa, non si è avuta una legge che regolasse la materia e rendesse applicabile la finalità rieducativa della pena. In quegli anni, il sistema penitenziario si è retto semplicemente su un regolamento ministeriale che non riconosceva diritti al singolo detenuto.

Il trattamento penitenziario

Uno dei pilastri della normativa del 1975 è stata l’introduzione del trattamento penitenziario ispirato ai principi di umanità e dignità della persona.

Il trattamento penitenziario, in base all’art. 13 della legge n. 354/1975 (Individualizzazione del trattamento), deve:

  • rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto;
  • incoraggiare le attitudini;
  • valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale.

Nei confronti dei condannati, è prevista l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento.

Nell’ambito dell’osservazione, è offerta all’interessato l’opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare alla vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa.

Per ciascun condannato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione. Deve essere favorita la collaborazione dei condannati alle attività di osservazione e di trattamento.

 

Il lavoro dei detenuti

L’art. 15 della legge n. 354/1975 individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato è assicurata un’occupazione lavorativa.

Le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa delle persone in stato di detenzione sono definite dall’art. 20, come riformato dai d.lgs. n. 123 e n. 124/2018.

Si sottolinea che lo svolgimento dell’attività lavorativa:

  • non è obbligatorio, in ragione del principio di libera adesione al trattamento;
  • non è afflittivo;
  • ha una funzione risocializzante coerente con il dettato costituzionale;
  • deve favorire l’acquisizione di una formazione professionale adeguata al mercato.

I detenuti che lavorano sono remunerati, hanno diritto alle ferie e alle assenze per malattia retribuite, ai contributi assistenziali e pensionistici. Nel nuovo quadro normativo, il lavoro svolto dalle persone detenute è sostanzialmente allineato a quello svolto dai cittadini liberi.

Il lavoro dei detenuti può svolgersi:

  • sia alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria;
  • sia alle dipendenze di soggetti esterni.

Le categorie si distinguono in base all’organizzazione dell’attività lavorativa, ma hanno la stessa natura giuridica, riconducibile allo schema del rapporto di lavoro subordinato di diritto privato.

Il lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria è di tipo domestico, industriale e agricolo.

 

Il lavoro alle dipendenze di soggetti esterni.

Il DPR 30 giugno 2000 n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) ha introdotto la possibilità per imprese e cooperative sociali di avvalersi di manodopera detenuta e di organizzare e gestire le officine e i laboratori all’interno degli istituti.

Per promuovere l’ingresso di attività esterne nelle carceri sono previsti degli incentivi per gli imprenditori quali la concessione di locali in comodato con l’utilizzo gratuito delle attrezzature esistenti, nonché sgravi economici.

 

Il lavoro all’esterno

Ai sensi dell’art. 21 della legge n. 354/ 1975, i detenuti possono anche essere assegnati al lavoro all’esterno.

I detenuti assegnati al lavoro all’esterno sono avviati a prestare la loro opera senza scorta, salvo che essa sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza. Anche gli imputati sono ammessi al lavoro all’esterno previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria.

Quando si tratta di imprese private, il lavoro deve svolgersi sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto a cui il detenuto è assegnato, la quale può avvalersi a tal fine del personale dipendente e del servizio sociale. Per ciascun condannato il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno diviene esecutivo dopo l’approvazione del magistrato di sorveglianza.

Dovrebbe essere ovvio che il detenuto che, per alcune ore, lascia il carcere “per lavoro”, non esce “in permesso”, come si continua a leggere e a sentire, ma per svolgere un’attività (lavorativa) finalizzata alla sua rieducazione ed al suo reinserimento lavorativo e sociale a fine pena, e ciò nell’ambito di un programma disposto dalla direzione dell’istituto ed autorizzato dall’autorità giudiziaria.

 

Il modello Bollate

In Italia, il 62% dei condannati conta almeno una carcerazione precedente e addirittura il 15% ne conta almeno 5. Questo dato scende drasticamente al 2% per coloro che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale, in quanto i detenuti che – nel corso della permanenza in carcere – hanno avuto modo di apprendere una professione, raramente e difficilmente, torneranno a delinquere una volta in libertà, a differenza degli ex detenuti che non hanno avuto modo di essere reinseriti lavorativamente nella società. Quindi, il lavoro durante il periodo di detenzione può trasformarsi in uno strumento assai efficace di riabilitazione.

Attualmente, nelle carceri italiane solamente il 36% dei detenuti è impegnato in attività lavorative, ma nella quasi totalità si tratta di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria attraverso mansioni domestiche, industriali e agricole. Solo l’1% è alle dipendenze di imprese private.

Rispetto al panorama nazionale, la Casa di Reclusione di Bollate rappresenta un caso virtuoso. Secondo gli addetti ai lavori, il carcere di Bollate è diventato un esempio di innovazione nel sistema penitenziario italiano.

Fondata nel 2014, questa struttura è stata progettata con l’obiettivo di rieducare i detenuti e prepararli per una vita migliore una volta scontata la pena.

I detenuti della Casa di Reclusione di Bollate che lavorano sono oltre 700:

  • 174 all’interno del carcere, ma assunti da soggetti privati;
  • 350 circa impegnati alle dipendenze della stessa Amministrazione Penitenziaria,
  • 211 all’esterno ex art. 21 legge n. 354/1975.

La recidiva delle persone che, scontata la pena, escono dal carcere di Bollate si attesta intorno al 16% rispetto al 70% della media nazionale. Pertanto, dati alla mano, il carcere di Bollate è l’esempio di un modello di rieducazione da condividere e (provare a) replicare in tutte le carceri italiane. Non servono più carceri, ma occorre occuparsi di più e meglio del carcere che c’è, proprio come si sta facendo a Bollate.

Sempre a proposito di Bollate, inoltre, non è da sottovalutare il fatto che, su un totale di 1300 detenuti, oltre 200 contribuiscono al loro mantenimento, svolgendo un’attività lavorativa retribuita, che, peraltro, consente a molti di loro anche di risarcire le vittime. Il carcere di Bollate rappresenta, insomma, un modello che tende in modo concreto alla rieducazione dei condannati nel rispetto delle norme previste dall’ordinamento penitenziario.

Il carcere di Bollate si distingue nettamente dalle carceri tradizionali per il suo approccio umanitario e orientato alla rieducazione (piuttosto che alla semplice punizione), approccio che mira a ridurre la recidiva ed a promuovere il reinserimento sociale dei detenuti.

A Bollate vengono offerte ai detenuti concrete opportunità di formazione professionale e programmi educativi, al fine di prepararli per una vita produttiva una volta scontata la pena. Quando i detenuti acquisiscono competenze e conoscenze durante il loro periodo di detenzione, hanno maggiori chance di trovare un lavoro e di reintegrarsi nella società una volta scontata la pena. Inoltre, la rieducazione aiuta i detenuti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie azioni, favorendo un cambiamento positivo nel loro comportamento.

Inoltre, il carcere di Bollate si differenzia dalle carceri tradizionali anche per il suo approccio alla gestione dei detenuti, che sono coinvolti attivamente nel processo di reinserimento sociale, partecipando a programmi di lavoro all’interno dell’istituto e collaborando con il personale nella gestione quotidiana della struttura. Questo approccio favorisce un senso di responsabilità e autostima nei detenuti e contribuisce al processo di riabilitazione.

In conclusione, si può affermare che il valore aggiunto del lavoro in carcere è triplice:

  • per le persone detenute garantisce un impiego positivo del tempo della detenzione, un accrescimento dell’autostima legata alla possibilità di esercitare un ruolo positivo nella società ed il consolidamento di una cultura del lavoro legata al perseguimento di un obiettivo;
  • per la collettività consente la valorizzazione del capitale umano, la riduzione della recidività e maggiore sicurezza sociale;
  • per le imprese consente di collaborare con persone motivate e generare un impatto sociale rilevante associato alle attività dell’azienda, oltre alla fruizione di incentivi contributivi e fiscali.