Guardando l’esito delle elezioni al parlamento europeo, si potrebbe pensare a torto o a ragione che parlare di “shock” sia esagerato. L’equilibrio complessivo in parlamento non si è spostato molto. A livello europeo, i socialdemocratici e la sinistra rimangono stabili. Il gruppo dominante di centro-destra del PPE ha aumentato il numero di seggi. In questa configurazione, da un punto di vista aritmetico, ci sarebbe una maggioranza (senza i Verdi) a sostegno della riconferma di Ursula Von der Leyen.
Ma questa immagine di continuità può risultare ingannevole. Le elezioni del 9 giugno hanno fatto pendere l’ago della bilancia politica europea a favore dell’estrema destra. In Francia, il Rassemblement National si afferma di gran lunga come il primo partito mentre in Germania l’AfD diventa il secondo partito ( e il primo nei lander orientali) . Questi risultati hanno delle implicazioni profonde per il futuro dell’Europa per varie ragioni. La prima è che i partiti tradizionali (a parte la CDU-CSU) ne sono usciti indeboliti e questo pesa sulla democrazia europea. La seconda ragione è che l’asse franco-tedesco, che è stato tradizionalmente il motore dell’integrazione europea, non avrà più quella forza trainante che ci ha permesso di realizzare i progressi in materia economica, monetaria e sociale. L’ultima ragione è che l’Europa si ritrova senza una vera leadership per orientare l’agenda politica dei prossimi anni in un contesto di forti tensioni geopolitiche e di incertezze economiche. Una chiara implicazione delle elezioni è lo spostamento degli equilibri politici europei a sfavore del Green Deal che è stato un punto di riferimento importante durante gli ultimi cinque anni.
Come è stato rilevato da numerosi analisti politici, i grandi perdenti delle elezioni sono i partiti ecologisti che nella passata legislatura hanno fortemente influenzato le politiche climatiche dell’Unione europea. Tuttavia, è molto improbabile che il Green Deal venga smantellato se continuerà a essere sostenuto dalla coalizione dei partiti tradizionali. Mentre l’estrema destra che ha cavalcato l’onda anti-ambientalista e anti – migranti chiederà di rinegoziare gli accordi assunti in sede di Consiglio e Parlamento per ragioni prettamente opportunistiche.
Tuttavia, ciò non significa che l’Unione Europea – e la Commissione in primis- adotterà una posizione scettica nei confronti delle politiche climatiche. Ma lo spostamento delle priorità politiche dovrà fare I conti con dei trade off difficili da affrontare, in particolare sul dilemma tra competitività e sostenibilità. Da questo punto di vista è da notare che esiste in Europa una fetta consistente dell’opinione pubblica ( e quindi degli elettori) preoccupata per il costo della vita, che vuole mantenere le sue auto con motore a combustione interna ( che saranno bandite a partire dal 2035) e che simpatizza con gli agricoltori nella loro opposizione alla legislazione ambientale europea. Le elezioni hanno messo in rilievo che questi gruppi avranno un peso maggiore in seno al Parlamento europeo. In un certo senso, hanno vinto la vecchia industria tedesca e gli agricoltori legati a modelli del passato.
Gli eventi degli ultimi anni hanno rivelato le fragilità del continente europeo e le sue dipendenze strutturali nei confronti della Russia per il gas e della Cina per gli sbocchi commerciali. L’UE ha potuto grazie a un consenso tra i suoi stati membri disfarsi del gas russo quasi interamente, ma a differenza degli Stati Uniti, non è disposta a un ‘decoupling’ delle sue relazioni economiche con la Cina. Data la sua geografia economica, l’UE ha un bisogno vitale di stabilire delle relazioni più forti con i paesi vicini nel continente euro asiatico e con l’Africa che gli Stati Uniti. Al tempo stesso non esiste una maggioranza politica affinché l’UE possa affermare i suoi interessi a livello globale.
Se venisse eletta, Von der Leyen continuerebbe come ha fatto fino ad oggi, ma con molta meno enfasi sulla legislazione verde e più sulle politiche industriali, e alimentando il ruolo geopolitico dell’UE – pur tuttavia senza la sostanza necessaria per renderlo effettivo. E’ il caso di ricordare che questa è ancora un’Unione europea con un bilancio complessivo pari all’1 per cento del PIL. L’Unione europea, così come è costituita oggi, non può fare le cose che servono come: gestire un esercito; impegnarsi nella stabilizzazione macroeconomica; salvare il settore bancario in una crisi finanziaria; mantenere lo sforzo di innovazione nei settori chiave per ridurre il gap tecnologico con gli Stati Uniti e la Cina.
In questo scenario chiaroscuro, prevarrà una linea meno favorevole alle aree metropolitane più sensibili al cambiamento climatico e più propensa a soddisfare le richieste degli agricoltori e dell’industria per ridurre il loro carico burocratico. Non c’è dubbio che questo tipo di politiche non avrà nessun impatto sul divario crescente di produttività con gli Stati Uniti. Se il Green deal fosse destinato a perdere peso, sarebbe soprattutto a causa dell’inazione dei governi che tenderanno a rallentare gli investimenti con la conseguenza di ripercuotere i maggiori costi sui consumatori. Ma almeno porta con sé la promessa di una leadership tecnologica in un’area importante: quella delle tecnologie verdi.
L’Unione Europea si trova dinnanzi a una minaccia esistenziale. Avevo scritto un anno fa che stiamo assistendo a un interregno dei populismi. In effetti non c’è nessuna fatalità nell’ascesa dell’estrema destra in Europa. E’ il momento di una riforma radicale dell’UE che dovrà essere sociale per la sua stessa natura. Solo con delle politiche più eque e un maggiore ascolto delle preoccupazioni reali dei cittadini si potrà far fronte alla polarizzazione sociale che mette in pericolo le fondamenta della democrazia e i nostri valori comuni europei.