Transizione ecologica e digitale, formazione e ricerca, competitività e superamento delle disuguaglianze sono sfide che non si possono affrontare solo con politiche nazionali. E la democrazia va rafforzata, riducendo l’astensionismo.
Forse ricorderete quando avete votato per la prima volta. Forse ricorderete l’emozione di quel primo segno sulla scheda elettorale, anche se forse non così forte come quella della protagonista del film della Cortellesi. E forse ricorderete le accese discussioni con i vostri coetanei per decidere per chi votare. Ecco, a giudicare dai risultati delle elezioni della scorsa settimana, sembra che tutto questo sia giudicato da molti solo un ricordo (per chi non ha mai votato neanche questo) e non una straordinaria possibilità di contribuire a scrivere il futuro del nostro Paese (e addirittura dell’Europa).
Infatti, solo poco meno della metà degli aventi diritto si sono espressi sulle proposte avanzate dalle forze politiche per il futuro dell’Unione europea e di oltre 3.700 Comuni, il che conferma una volta di più la crescente disaffezione degli italiani e delle italiane per la politica, o almeno per la politica come praticata dalle forze oggi in campo. L’astensione è stata particolarmente forte nel Mezzogiorno (dieci punti in più rispetto al Nord), nei piccoli Comuni e tra i giovani. D’altra parte, la partecipazione è stata più alta di circa 20 punti nei Comuni dove si svolgevano anche le elezioni amministrative rispetto a quella registrata dove si votava solo per le europee, il che testimonia l’esistenza di un problema aggiuntivo, cioè la distanza delle istituzioni europee percepita da una parte consistente della popolazione italiana.
Ovviamente, il futuro delle istituzioni europee è ora al centro del dibattito politico e mediatico italiano (magari lo fosse stato durante la campagna elettorale), anche perché il voto ha confermato la solidità dell’attuale maggioranza di governo, mentre ha messo fortemente sotto pressione quella di altri Paesi, come la Francia, la Germania e il Belgio. Ma prima di affrontare le questioni continentali, dedichiamo ancora una riflessione al tema dell’astensione, anche perché, dopo i commenti di prammatica espressi “a caldo” da politici e commentatori sulla gravità del fenomeno, esso scomparirà nuovamente dai radar della politica, almeno fino alle prossime elezioni.
In realtà, il problema della bassa partecipazione è straordinariamente rilevante per la qualità della democrazia nel nostro Paese, una delle componenti fondamentali del 16° Obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Le cause della disaffezione dell’elettorato (un fenomeno non solo italiano) sono numerose e il Libro Bianco “Per la partecipazione dei cittadini: come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, redatto dalla Commissione di esperti istituita dal Governo Draghi, le ha individuate con precisione, proponendo anche alcuni interventi, tra i quali quelli finalizzati a eliminare (o ridurre) gli ostacoli alla partecipazione al voto. In particolare, l’ASviS si era occupata all’inizio dell’anno della questione della partecipazione giovanile alla vita politica, sostenendo, tra l’altro, la proposta di concedere il “voto a distanza” per gli studenti fuori sede, cosa avvenuta “in via sperimentale” proprio per le elezioni europee, ma all’ultimo momento e senza una seria campagna di comunicazione volta a raggiungere capillarmente i destinatari del provvedimento. Non a caso, su una base teorica di circa 400mila unità, soltanto 23mila (quasi il 6%) hanno aderito alla sperimentazione, ma solo poco più di 17.400 hanno votato, con un tasso di partecipazione superiore al 75%.
Aver dimostrato la fattibilità tecnica dell’operazione è stato importante, ma ora il Parlamento dovrebbe rapidamente approvare una legge per rendere strutturale l’innovazione e anzi estenderla a tutti coloro i quali hanno il domicilio, per motivi lavorativi o di studio, in un Comune diverso da quello di residenza. Inoltre, il Governo dovrebbe riprendere le proposte formulate dalla citata Commissione, almeno quelle che riguardano gli aspetti che possono ridurre l’astensionismo “involontario”, un fenomeno che potenzialmente riguarda ben cinque milioni di persone. Il problema, tutto politico, è che le scelte dei giovani fuori sede hanno premiato in modo schiacciante le forze politiche europeiste e di centro-sinistra (specialmente Alleanza-Verdi-Sinistra-AVS), cosa accaduta anche nel caso degli italiani all’estero (PD-M5S-AVS hanno ottenuto il 55% dei voti). Non vorremmo, quindi, che un tale risultato facesse scattare nella maggioranza resistenze all’approvazione di una legge che in realtà potrebbe migliorare la qualità della nostra democrazia, indipendentemente dal colore della maggioranza politica pro-tempore.
E veniamo alle questioni europee. Il risultato elettorale, come previsto dai sondaggi, non ha provocato quello sconvolgimento che alcuni leader politici, anche nel nostro Paese, auspicavano. Certo, la situazione in Belgio, in Francia e in Germania desta forti preoccupazioni, anche per i futuri equilibri nel Consiglio europeo. Certo, abbiamo un Parlamento europeo più frammentato, che quindi troverà maggiori difficoltà nell’esame dei diversi dossier. Certo, le spinte per tornare indietro su alcune politiche seguite negli ultimi cinque anni saranno più forti. Ma la maggioranza basata su popolari, socialisti e liberali dovrebbe essere confermata, con l’eventuale aggiunta di una quarta forza, più probabilmente i verdi che i conservatori. In ogni caso, credo che ci sarà una forte continuità sull’indirizzo politico generale, anche su dossier di grande rilievo come il Green Deal, magari con alcuni aggiustamenti.
Questa continuità non è necessariamente una buona notizia perché l’Europa avrebbe bisogno di fare un deciso salto verso una maggiore integrazione, il che richiede cambiamenti rilevanti “a Trattati esistenti”, ma anche una futura revisione dei Trattati. Ovviamente, una tale revisione, per avere successo, richiederebbe un preventivo forte miglioramento del “gradimento” dell’Unione da parte degli elettori, il che imporrebbe coraggiose azioni da subito. In particolare, il punto cruciale su cui si giocherà la partita politica europea dei prossimi cinque anni riguarderà, a mio parere, il ruolo dell’Unione europea come erogatrice di fondi per la trasformazione dei nostri sistemi economici e sociali, anche per assicurare competitività nei confronti di Cina e Stati Uniti. Storicamente, l’Unione è stata disegnata per essere principalmente un’istituzione di regolazione, finalizzata ad omogeneizzare le legislazioni nazionali attraverso regolamenti e direttive, a tutelare la concorrenza all’interno del mercato unico, a definire strategie comuni a medio-lungo termine. Coerentemente con questa impostazione, il bilancio comunitario è estremamente ridotto, circa l’1% del prodotto interno lordo europeo, e molte politiche sono appannaggio dei Paesi membri, i quali hanno visto spesso come troppo invadenti le legislazioni europee su tematiche quali le politiche sociali o industriali.
Con la pandemia prima e con le successive crisi l’Unione ha assunto negli ultimi anni un ruolo diverso, sancito chiaramente dall’emissione di debito comune per finanziare il Next Generation EU. Si ripeterà nella nuova legislatura questa impostazione, magari potenziata, come auspicato recentemente anche da Mario Draghi per fronteggiare la competizione con Cina e Stati Uniti, o si tornerà alla “vecchia” impostazione? Ecco la domanda cruciale, vitale direi, che bisogna porsi. Come mostrato dall’analisi comparativa dei Manifesti delle forze politiche realizzata dall’ASviS, popolari e liberali non si esprimono su questo punto, mentre socialisti e verdi lo citano in maniera esplicita. Figurarsi cosa pensano del tema le forze politiche di destra che auspicano un restringimento delle competenze europee.
Come indicato chiaramente anche nel Manifesto dell’ASviS per le future politiche europee, il futuro dell’Europa passa dalla sua capacità di investire ingenti risorse per innovare a tutto campo nella direzione delle transizioni ecologica e digitale, della formazione e della ricerca, della competitività del sistema economico, oltre che del superamento delle disuguaglianze e della realizzazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. L’Italia dovrebbe esprimersi senza esitazioni a favore di questa impostazione nelle prossime settimane e mesi, anche se una tale scelta dovesse smentire le posizioni espresse durante la campagna elettorale da alcune forze politiche della maggioranza. Molti esponenti del Governo, con riferimento al Green Deal, invocano pragmatismo e difesa dell’interesse nazionale. Ebbene, sono proprio questi gli argomenti che dovrebbero spingere l’Italia ad andare nella direzione indicata, perché solo così l’Europa farà il salto di qualità da cui dipende anche il futuro dell’Italia.