UNA CRISI ALL’ITALIANA.
La situazione creatasi in Francia dopo l’ultimo ballottaggio delle elezioni per l’Assemblea Nazionale, inconsueta per i francesi della V Repubblica, lo è molto meno per l’osservatore italiano, che vi riconosce stalli per noi quasi abituali.
Da più di trent’anni la politica francese presenta un’anomalia sconosciuta, fino a poco tempo fa, agli altri grandi paesi europei: l’ampia fortuna popolare di un partito - mai sotto il 15%, e oggi oltre il 30 – di chiara ispirazione fascista. Fondato da Jean Marie Le Pen, quel “Front National” non preoccupava la società francese perché politicamente sterilizzato dal sistema elettorale e da una prassi politica, quella del “blocco repubblicano” (qualcosa di simile al nostro “arco costituzionale”), che lo rendeva infrequentabile ai fini di qualunque alleanza. Da quel cospicuo 15 – e poi 20 e più – per cento sortiva una rappresentanza politica insignificante all’Assemblea Nazionale. A questo proposito la consegna nella destra gollista era ferrea: meglio perdere che vincere in alleanza con loro. La destra francese – al contrario di quella italiana con il MSI – chiudeva a qualsiasi possibilità di accordo.
Il fatto che il sistema costituzionale e politico consentisse di sterilizzare i voti del FN non toglieva però che questo ballare sull’orlo del vulcano di un paese che conviveva, fin da prima della guerra – quindi prima di Vichy e della Shoah, e molto prima della grande immigrazione musulmana – con una corrente neanche tanto sotto traccia di antisemitismo borghese, avesse qualcosa di inquietante. Il successo elettorale, anche fra la classe operaia, di un partito fascista veniva accolto con sufficienza dagli altri partiti, come una particolarità nazionale di cui non preoccuparsi troppo. L’inconseguenza di questo voto svolgeva una paradossale funzione di stimolo e incoraggiamento provocatorio a votare FN: non serve a niente, ma almeno glie ne dico quattro. Sorta di voto di frustrazione, come c’è il fallo di frustrazione nel calcio, che accresceva il risultato elettorale di un partito che tanto non contava niente. Il succedere della figlia al padre consolidò poi il carattere familiare di questa formazione a guida dinastica e non contendibile, in un primo parallelo con la situazione italiana del partito di famiglia.
Non nasce quindi oggi quel “barrage” (quella diga) elettorale contro il FN, ora RN (Rassemblement National”). Nelle elezioni per l’Assemblea Nazionale funzionava in automatico, collegio per collegio, senza neanche bisogno di concordare quel complesso sistema di desistenze di cui si parla oggi. Quanto alle elezioni presidenziali, una prima prova c’era stata nel 2002, quando il carnevale della sinistra al primo turno aveva portato per la prima volta al ballottaggio con il presidente uscente (il gollista Chirac) non un socialista ma Jean Marie Le Pen. La sinistra festeggiò con l’inevitabile magone la vittoria di Chirac (82 a 18 per cento), a cui non aveva potuto non contribuire in massa. Cosa avrebbe potuto fare?
Completamente diversa la situazione dei due ballottaggi tra Emmanuèle Macron e Marine Le Pen. In entrambi i casi un’unione delle sinistre (un eventuale NFP) avrebbe potuto portare Jean Luc Mélenchon al ballottaggio, ma niente era più come prima. Non c’era più il Partito Socialista, minato dalla guerra politica e familiare tra i coniugi Holland– Royal, distrutto dal disastroso quinquennio presidenziale del primo, svuotato infine dal transfuga Macron che, come Fortebraccio nell’Amleto, arrivò a chiudere le casse lasciando in vita una crisalide politica ormai utile solo a eleggere il sindaco di Parigi. Ma non c’era più neanche un partito gollista, finito fra le faide di anziane prime donne e giovani comprimari. Al loro posto, il nuovo partito di Macron, “En Marche”: formazione politica né di destra né di sinistra, puro e semplice supporto all’azione presidenziale. In questo contesto di spoliticizzazione, quella di cui parlava Pasolini, in cui a combattere un populismo di destra ne serve uno di sinistra, ad assumere il ruolo dell’anti Macron della gauche è un altro ex ministro socialista, Jean Luc Mélenchon, con la sua creatura politica “La France Insoumise” (la Francia indomita). Nome retorico, immancabilmente nazionalista (sempre la Francia nel nome, sempre la Marianna di Délacroix, “guidant le peuple” nel mito), ignaro del fondamentale ragguaglio di Barthes (il mito sta SEMPRE a destra), paradossalmente simile al nostro “Fratelli d’Italia” (solo nel nome, chiaramente). L’uomo è in gamba e popolarissimo, tribunizio con margini di ambiguità. Dichiaratamente massone, quando comincia ad avvicinarsi al “grande gioco” politico si dimette dal Grande Oriente, ma mostra fin dall’inizio un’eccezionale capacità di raccogliere finanziamenti per le sue campagne elettorali. In poco tempo supera il 20% nei sondaggi e poi nelle urne, partendo da un pugno di voti (ma alle parlamentari, come alle europee, la percentuale si dimezza). Durante la crisi dei gilet gialli cavalca la rivolta, esattamente come Marine Le Pen e con la stessa efficacia, “da sinistra”, stringendo Macron in una morsa. Lei con l’immigrazione e la guerra alle élite, lui con la pensione per tutti a sessant’anni e l’innalzamento del salario minimo. Al primo ballottaggio con Le Pen, Mélenchon (terzo) ancora sta saggiando la sua forza, Macron è poco più di un oggetto misterioso, la “diga” è ancora nei fatti e larga è la vittoria di Macron: 66 a 34%. Ma i suoi primi cinque anni di Presidenza scavano un solco nel sentimento popolare. Alle elezioni successive l’unione delle sinistre si rivela come al solito impossibile e il risultato del primo turno è una beffa: contro ogni previsione il capo di LFI fallisce il ballottaggio per un soffio: poco più dell’1% lo divide da Marine Le Pen. Molti militanti gli chiedono a questo punto il “non expedit”: rifiutare l’automatico sostegno a Macron. Ognuno voti come gli pare; se vince lei non è peggio che se vince lui. Basta col soccorso rosso, anche il RN ha una bella base popolare. Anzi, quasi quasi… Mélenchon tace, nicchia, ma il responso è inequivoco: “non uno dei nostri voti vada a Le Pen”. Non andrà proprio così. Più stentatamente del solito: 56 a 44%, Macron vince ancora, ma Il sostegno questa volta è decisivo e matura un vero e proprio credito politico nei suoi confronti.
La verifica arriva dopo le europee, quando, con il RN al 32%, Macron scioglie il Parlamento e indice nuove elezioni a tre settimane. Quel fronte della sinistra che non si era riusciti a mettere insieme in trent’anni nasce in otto giorni e dopo il primo turno è il Presidente stesso a chiamare al “blocco repubblicano” contro la minaccia dell’estrema destra. Ne suggerisce anche la forma, in un sistema di desistenze che lasci campo libero, in ogni collegio, all’avversario meglio piazzato del RN e la parola ai francesi.
Per la prima volta il Presidente invita i suoi elettori a votare il candidato del NFP – anche se è quello di LFI, il più abissalmente lontano da lui – dove abbia maggiori possibilità di vittoria e Il NFP invita a sua volta i propri militanti a lasciare campo libero (e i suoi elettori a votarli) ai candidati di “En Marche” dove fossero loro in posizione migliore per battere il FN. Non ci vuole molto a capire che ognuno dei due chiede ai suoi un sacrificio quasi paradossale. Altro che “mal di pancia” o “turarsi il naso”! Il patto, che da noi non reggerebbe un giorno, incredibilmente tiene. Ci sono defezioni, qualcuna di più nella coalizione presidenziale che ottiene un risultato molto migliore del previsto, ma il patto regge. Il NFP contro ogni previsione, vince, ma molti deputati dei due schieramenti risultano eletti anche grazie ai voti del principale avversario politico. “Quando un grave pericolo è alle porte / le vie di mezzo portano alla morte”, diceva Brecht. E i francesi, prendendo molto sul serio l’approssimarsi al governo del FN, sono andati in massa – più ancora che al primo turno (cosa di per sé eccezionale) – a votare anche l’avversario politico più irriducibile pur di sbarrare la strada a quello che ha mostrato di considerare un “grave pericolo alle porte”.
MACHIAVELLISMI. QUALE GOVERNO
“Machiavelli, gioco di carte. La particolarità del gioco Machiavelli consiste nel poter effettuare modifiche alle combinazioni di carte presenti sul tavolo. Il giocatore di turno, se lo desidera, può modificare a piacere le combinazioni presenti sul tavolo al fine di trovare soluzioni più favorevoli al deposito di una o più carte che ha in mano.” (da Wikipedia)
E adesso? Il paesaggio dopo la battaglia mostra un solo sconfitto sicuro (ancorché in crescita) ed è il RN di Marine Le Pen. La maggioranza dei francesi, collegio per collegio, amico o avversario che fosse, ha votato per chiunque tranne che per lei e per il suo giovane delfino. Ma il campo dei vincitori è molto sparpagliato, raccolto in due coalizioni politicamente avverse giunte quasi alla pari. Le divide una ventina di deputati. Il Presidente ha conquistato il diritto anche politico, oltre che costituzionale, a dare le carte. Il NFP, che ha vinto, non può governare da solo: al momento ha i suoi problemi anche nel trovare un candidato da presentare per quella carica di capo del governo che indubbiamente gli spetta. LFI, che rappresenta per molti (oltre che per i suoi militanti) il campo dei vincitori, ha nella nuova Assemblea un deputato su otto e neanche all’interno della coalizione rappresenta la maggioranza degli eletti. Socialisti, verdi e la nuova formazione di Raphaël Glucksmann, alleati naturali, ne hanno parecchi di più ed è abbastanza ovvio che intendano farlo valere. Ma le due coalizioni vincitrici sono legate l’una all’altra dal patto stretto per il ballottaggio: ognuna delle due ha deputati eletti con il voto concordato degli avversari. Dopo le desistenze organizzate, come quella che in Italia consentì la nascita del primo governo Prodi nel ‘96, vedremo anche in Francia un “governo delle astensioni” come l’Andreotti III del ‘74?
I soliti dietrologi pensano – qualcuno lo ha detto e scritto – che Macron, oggi l’uomo da odiare della destra europea, abbia chiamato i francesi all’alleanza contro il nemico alle porte per salvare la propria carriera politica. È una sciocchezza. Macron si trova a metà del secondo mandato e senza alcuna difficoltà a completarlo. Storicamente per i presidenti francesi non c’è carriera politica dopo il secondo mandato, e Macron, per quanto più giovane dei predecessori, non sembra averne alcuna mira. Non è la politica il suo orizzonte, forse non lo è mai stato. La sua creatura politica è un accrocchio senza identità frutto di quella detestabile spoliticizzazione che abbiamo passato per “fine delle ideologie”. Scaduto che sarà il suo mandato non serve più a nessuno. Il suo progetto politico potrebbe essere molto più ambizioso di quella fesseria in stile Renew che ha gestito finora. Macron sa che un vero partito socialista come quello da cui vengono, per quanto sembri incredibile, sia lui che Mélenchon e di cui entrambi, per strade opposte, hanno contribuito a rimuovere i calcinacci otto anni fa, serve alla Francia, come serve all’Europa. Forse può essere questa l’occasione per farlo rinascere, rimuovendo stavolta i calcinacci del suo accrocco social gollista, e riconsegnare il paese a un vero partito socialista, verde, laico e riformista, radicale ma non comunista, come la migliore storia di Francia e d’Europa ha conosciuto. Vasto ma non impossibile programma per gli ultimi tre anni di mandato e per un’uscita in grande, da vero padre della patria, dalle strettoie del fasciocomunismo.