Cinema d’estate. Trent’anni fa. Trent’anni da “Caro diario” e, con tutto quello che è cambiato, sembra ieri. Cambiata, fra le tante cose più importanti, è l’estate dei cinema. “A Roma d’estate i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come ‘Sesso, amore e pastorizia’, ‘Desideri bestiali’, ‘Biancaneve e i sette negri”. Oppure qualche film horror come ‘Henry’. O qualche film italiano”. La scritta “chiuso per ferie” riguarda ormai una minoranza di sale. Anche per merito di esercenti come Moretti che nel suo Sacher allestisce un’ottima e frequentatissima stagione estiva.  L’estate può essere addirittura, in tutta Europa, stagione di blockbuster (l’anno scorso “Barbie” e “Oppenheimer”, quest’anno “Inside Out 2” e i soliti Marvel), anche se la cosa non riguarda i film italiani e poco quelli del resto d’Europa (bassa l’incidenza del costo dei biglietti). Complici anche il caldo e l’aria condizionata i cinema restano aperti, non soccombono alle arene (neanche a quelle gratuite, che ci sono sempre state), i buoni film non mancano e rimpiazzano, anche se con incassi non molto superiori, i “Desideri bestiali” di Moretti. Fra i buoni e gli ottimi film di questa estate, ne segnalo tre a chi voglia cercarli in autunno sulle piattaforme. Sono: “Tatami”, di Guy Nattiv e Zar Amir (uscito a Pasqua, ha avuto una discreta tenitura giunta fino alle soglie dell’estate e alla stagione delle arene); “Shoshana”, di Michael Winterbottom, di cui si parla qui di seguito, e “Racconto di due stagioni” (in originale “About dry grasses”) di Nuri Bilge Ceylon, usciti in piena estate. Tre storie di donne in situazioni di guerra, non sempre a bassa intensità. Storie di donne forti e uomini deboli (non tutti, quando non orribili. Film come documentari, acquerellati di fiction. Del resto il cinema, nato nelle officine Lumière, quando è grande è sempre un po’ documentario. A volte l’acquerello è crudele, altre il colore è più acceso, come nelle fotografie pittate di Andy Wharol. Lo scopo è quello di avvincere (la forma prevalente è il thriller), coinvolgere e aprirsi a un’interpretazione non reticente delle vicende narrate. Quando i protagonisti sono uomini è la donna a dare colore e senso alla storia. Quando perde lei, perdono tutti.

Questi sono i primi due. Il terzo, “Racconto di due stagioni”, troppo bello, merita un discorso a parte. Prossimamente.

 

 

Tatami persiani. Leila.

 

Leila (Arienne Mandi) è una campionessa iraniana di judo che rappresenta il suo paese ai campionati mondiali di categoria in Georgia. La sua coach, quasi una sorella, è Maryan (Zar Amir). Vittoria dopo vittoria arriva ai quarti di finale con buone probabilità di avanzare. Una delle sette avversarie, però, con altrettante probabilità di successo, è la judoka israeliana. Dalla Guida Suprema iraniana in persona arriva l’imposizione di ritirarsi, fingere un infortunio per non incorrere in sanzioni sportive, e abbandonare per non incontrare la rappresentante del “nemico”. Di fronte al suo rifiuto vengono minacciate entrambe le donne con le loro famiglie se dovessero proseguire i combattimenti. Da casa la seguono in tv marito figli e parenti che nulla sanno. Il tempo di arrivare in semifinale, non dando corso al dictat ma senza opporsi esplicitamente, servirà a mettere in fuga la famiglia mentre la coach, sottoposta alla massima pressione, cerca di convincere Leila a ritirarsi. La rappresentante israeliana viene eliminata, ma la disobbedienza rimane, e la sentenza è  senza appello.

La storia di Leila e Maryan è vera, e ne riflette altre, per lo più finite a testa bassa. Gli autori sono l’israeliano Guy Nattiv e l’iraniana Zar Amir, bravissima interprete di Maryan, meno fremente e più tormentata della protagonista (è lei sotto il tiro delle autorità religiose), quindi più complesso e interessante come personaggio. “Tatami” è la prima collaborazione fra artisti dei due paesi, nessuno dei due vivente nel proprio. Anche Nattiv, infattti, autore del recente “Golda”, biografia di Golda Meir, vive in America. Sceneggiatrice in coppia con Nattiv è l’attrice regista iraniana Elham Erfani (nella foto sopra). Il film è girato in uno splendido bianco e nero, teso come una corda di violino, appassionante come un grande thriller, perfettamente calibrato nell’ intreccio di storie e personaggi: i funzionari della federazione internazionale, il pubblico, l’entourage familiare di Leila, le inquietanti intrusioni.  La vicenda della judoka e della sua coach riflette quelle personali dell’attrice – premiata a Cannes due anni fa per “Holy Spider”, terribile storia iraniana di un fanatico religioso, serial killer di prostitute, protetto dalla polizia – e della sceneggiatrice, sfuggita alla lapidazione per un caso di revenge porn. Storie di espatri avventurosi e di vite ricostruite in Europa o in America (la Erfani). Un gran bel film, forse un po’ troppo furente nella pur bella interpretazione della trance agonistica di Leila, ma la passione, la paura e la “tigna” fanno fare questo e altro.

 

 

L’amore ai tempi della collera. Shoshana e Tom

 

È morta nel 2004 a 92 anni Shoshana Borochov (ma la data di nascita sconta una certa approssimazione), nata a Vienna da Bert e Lyuba. Lui era un giornalista-scrittore marxista, tra i fondatori del sionismo socialista in Europa (“Questione nazionale e lotta di classe” il suo libro più famoso), poliglotta (aveva vissuto in Ucraina, Austria, Italia, Stati Uniti e Russia, cacciato dalla quale era tornato nel fatale ‘17), apostolo e studioso della lingua yiddish. Fallì per pochi mesi i dieci giorni che cambiarono il mondo: colpito da polmonite dieci anni prima della penicillina la morte lo colse a Kiev, a 35 anni, nella primavera di quell’anno. Shoshana aveva cinque anni. Otto anni più tardi Lyuba, con i due figli, avrebbe realizzato il sogno del marito trasferendosi in quella terra che sempre meno alla spicciolata andava popolandosi di ebrei. Come loro provenienti in massima parte dall’ Europa orientale. Come loro per costruire in quella terra il sogno socialista, già vacillante nella patria del comunismo.

 

 

Con la sconfitta e la dissoluzione dell’impero ottomano la Palestina era stata posta nel 1920 sotto mandato britannico. L’immigrazione ebraica raddoppiava ogni cinque anni, da 85.000 coloni nel 1918 a 350.000 in 12 anni. Era ancora una frazione di quella araba, e lo sarebbe rimasta, ma il rapporto contraddittorio degli inglesi con le due parti (promettevano un giorno agli uni e il giorno dopo agli altri) accresceva negli arabi la sensazione di una crescita minacciosa, poco gradita del resto anche nella sua fase nascente. Ad accoglierli nella nascente Tel Aviv i nuovi arrivati trovarono le prime rivolte arabe, sempre più violente e sanguinose, come le prime rappresaglie ebraiche. Le une e le altre malamente contenute dagli inglesi, in una interposizione fra i due terrorismi sempre più problematica e odiata da entrambe le parti.

L’organizzazione militar ebraica, l’Haganah, rifiutava il terrorismo ma cresceva al suo interno la frazione terrorista dell’Irgun e, dentro a questa, una vera e propria banda criminale, la cosiddetta Banda Stern. Scheggia impazzita e sanguinaria, la banda prendeva nome dal fondatore, il poeta Avraham Stern, inesausto organizzatore di attentati di cui pare non si macchiasse personalmente. Talmente squinternato, il poeta, da concepire l’idea di allearsi con i nazisti in funzione anti inglese. Tentò due volte – respinto ovviamente con perdite – di convincerli a liberarsi degli ebrei d’Europa deportandoli in Palestina, in cambio del sostegno all’Asse. Gli inglesi, che già lo avevano rilasciato una volta per ritrovarselo tra i piedi sempre più agguerrito, lo beccarono un giorno nascosto fra i vestiti di un armadio di casa, tradito da un pennello da barba rorido di sapone, e pensarono bene di liberarsene per le spicce, come un piccolo Bin Laden. Avevano fatto male i conti: la Banda Stern sarebbe stata l’incubatrice politica di tutta la destra israeliana di governo dal 1976 – governi Begin e Shamir – fino a Netanyahu, troppo piccolo nel ‘42 per farne parte.

 

 

Il film. È il 1935 a Tel Aviv, Shoshana Borochov è una giovane donna di 23 anni, bella, intrepida e corteggiata (per lo più invano). Giornalista e traduttrice, socialista come il padre, sostiene l’indipendenza ebraica nelle file dell’Haganah. Ha un fratello minore, David, terrorista dell’Irgun, per il quale, come tutti quelli dell’Haganah, lei è poco meno di una collaborazionista, e una madre tra i due fuochi. È ben noto come in ogni nazionalismo religioso o partito politico rivoluzionario ci sia chi lo è più degli altri, e poi chi lo è ancora più di lui, e così via fino agli Stern. Come nell’ultima delle città invisibili di Calvino, parabola sulla virtù dei più virtuosi di ogni virtuoso, sempre facile a rovesciarsi in quella del più carogna di ogni carogna. Ma Shoshana se la va a cercare, direbbe qualcuno, innamorandosi di un giovane ufficiale dell’anti terrorismo inglese, Tom Wilkin, incontrato a un ballo. Si sa come finiscono queste cose: lei rischia di apparire una poco di buono che se la fa col nemico; lui di essere allontanato progressivamente dai compiti più delicati. Il tutto complicato dal fatto che in questa lunga relazione (oltre dieci anni) impossibilitata a sfociare in matrimonio l’amorosa curiosità di Tom per la lingua ebraica induce lei a fargli da maestra, incrementando la diffidenza nei loro confronti dei compagni del fratello. Lei difende il suo amore con disperato coraggio, ma si dice ci fosse anche lui nella casa in cui Stern fu ucciso. Finito nel mirino dell’Irgun, Tom è dislocato a Gerusalemme…

“La storia di Shoshana Borochov e Tom Wilkin ci sembrava un punto di partenza perfetto per il nostro film, perché mette in risalto come la violenza e l’estremismo riescano a tracciare un solco tra gli individui, costringendoli a scegliere da che parte schierarsi” (Winterbottom). Ma c’è sempre chi ritiene che questo sia un processo virtuoso.

 

 

Shoshana”, di MIchael Winterbottom, sessantatreenne inglese con una lunga e disuguale carriera alle spalle, è una storia d’amore e un thriller politico. Storia vera, storia nella Storia come i più rinomati fra i film dell’autore:  “Benvenuti a Sarajevo”, “Cose di questo mondo” (fuga verso il Regno Unito di due giovani afgani rifugiati in Pakistan), “The road to Guantanamo”, “A mighty heart” (il “cuore grande” è Daniel Pearl, giornalista del WSJ rapito e ucciso in Pakistan dai fondamentalisti islamici). Frutto di una ricerca partita quindici anni fa sui materiali digitalizzati nello sterminato “Steven Spielberg Jewish Film Archive” di Gerusalemme e partita da un libro, “One Palestine, Complete” di Tom Segev, è stato girato in Puglia, fra Ostuni, Brindisi e le località marine di Pantanagianni e Torre Canne, scenari di una plausibile Tel Aviv di novant’anni fa, mentre Lecce ha fornito alcuni scorci per Gerusalemme e Taranto per Jaffa. Ciò che riporta alla mente un altra storia israeliana di autore eteroctono: “Private” l’ottimo esordio di Saverio e Camilla Costanzo (regia e sceneggiatura), girato in inglese (ciò che non gli consentì di concorrere all’Oscar, per cui era stato meritatamente ma erroneamente designato) nei pressi di Riace. Shoshana è la russa Irina Staršenbaum, già protagonista di un bel film (“Summer”) sulla entusiasmante scoperta del rock&roll in quel paese (regista Kirill Serebrennikov, oggi in sala con “Limonov”). Se lo trovate, non perdetelo. Interprete di Tom  è il trentaduenne Douglas Booth, molto più bello dell’originale, ma ci sta. Il cinema è fare belle cose con belle donne, diceva Truffaut. Vale anche per gli uomini.

È un bel film “Shoshana”, sull’amore al tempo di quel colera che è la guerra. Film di testo e contesto. Potrebbe chiamarsi “L’uovo del serpente” (riconoscendo il copyright a Ingmar Bergman), l’uovo che mostra in trasparenza il serpente che ne nascerà.

Quando il 2 dicembre del 1948, nell’ imminenza delle prime elezioni politiche israeliane, sei mesi dopo la proclamazione dello Stato, Menahem Begin sbarcherà a Washington alla ricerca di appoggi per il suo Partito della Libertà, troverà ad accoglierlo, sulla prima pagina del NYT, la durissima lettera di trenta intellettuali ebrei, fra cui Albert Einstein e Hannah Arendt ( ) che va letta tutta e comincia così:

Agli editori del New York Times

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut), un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti nazista e fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, un’organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.

Trent’anni dopo, Begin inaugurerà il mezzo secolo di governo quasi ininterrotto del Likud, erede politico di quel Partito della Libertà, con un premierato di sette anni. Seguito da quello di Yitzhak Shamir, anche lui fra i capi della Banda Stern negli ultimi anni del mandato inglese. Entrambi rivendicheranno perinde ac cadaver quel terrorismo e le sue imprese, fra cui la bomba al King David Hotel, quartier generale inglese (91 morti, più che alla stazione di Bologna, cinque Piazze Fontana in una) e l’attacco a un villaggio arabo raccontato da Einstein e Arendt nella loro lettera (duecento morti civili inoffensivi, e parata con trofei umani per le strade di Gerusalemme). Diceva Luigi Pintor che è difficile essere convincente nel suo “il terrorismo non porta a niente” per chi nella propria storia è testimone del contrario. Altrettanto difficile dovrebbe essere esecrare le infamie di Hamas – che tali ovviamente sono, senza alcun dubbio – per chi le stesse infamie ha perpetrato, quando serviva, per i propri obiettivi politici.

Il film finisce nel 44, con la fine della storia su cui è incentrato. Il resto è affidato a didascalie. L’ultima di queste ci informa che da mezzo secolo, nella Israele del Likud, la figura di Avraham Stern – che combatté con i tedeschi per liberarsi degli inglesi, sperando di convincerli a deportare qui gli ebrei d’Europa – è quella di un eroe nazionale. La casa in cui fu ucciso è oggi sacrario politico e museo patriottico.