“Colpirne uno per educarne cento”, come recita la massima resa famosa da Mao Zedong. A colpire questa volta sono gli Stati Uniti? Non solo. È un complesso militare-industriale, come lo definì il presidente Dwight D. Eisenhower. Di fatto hanno già ucciso Julian Assange, e l’obiettivo è stato quello di educare i cittadini alla pavidità, con un messaggio forte e chiaro: “Occhio a quello che pubblicate o farete la sua stessa fine”. Infatti, quella che va avanti da più di quindici anni, è la storia di una vendetta silenziosa ma feroce, cruciale e decisiva del nostro tempo.

Il protagonista è un uomo, che lotta contro alcune delle più potenti istituzioni della Terra. Non è un criminale, è un giornalista. Si chiama Julian Assange e ha fondato WikiLeaks, un’organizzazione che ha profondamente cambiato il modo di fare informazione nel XXI secolo, sfruttando le risorse della rete e violando in maniera sistematica il segreto di Stato, quando questo viene usato non per proteggere la sicurezza e l’incolumità dei cittadini ma per nascondere crimini e garantire l’impunità ai potenti. Grazie ad Assange e alla sua organizzazione, abbiamo conosciuto l’orrore di crimini di guerra come quelli documentati nel video “Collateral Murder” o quelli commessi dai contractor americani, per esempio a Nisour Square, a Baghdad, dove nel 2007 furono sterminati quattordici civili, tra cui due bambini, e oltre diciassette persone furono ferite. Negli ultimi giorni del suo mandato presidenziale Trump ha graziato gli assassini di quel massacro, ma si è assicurato che Assange rimanesse in prigione. Non poteva farla franca, doveva essere punito e soprattutto andava fermato. Condannare Assange ha un significato molto profondo, significa condannare quel raro giornalismo che può ancora considerarsi libero da manipolazioni politiche e ideologiche. L’obiettivo è distruggerlo e farlo in modo plateale.

Cia (Central Intelligence Agency), Pentagono e Nsa (National Security Agency), quest’ultima l’agenzia di intelligence più sofisticata al mondo, sono tutti i suoi principali antagonisti, supportati dalla connivenza dei media internazionali che fino a poco tempo prima lo osannavano e facevano la fila per ottenere materiale da lui, pubblicando i suoi scoop per vendere copie, come fece il New York Times, il Washington Post, Le Monde, El País o Der Spiegel. Poi Assange colpì il potere segreto nordamericano, e la stampa di tutto il mondo lo abbandonò. Durante uno dei suoi picchi di popolarità, addirittura Donald Trump fece di WikiLeaks oggetto di pubblica lode durante uno dei suoi comizi esponendo la sua dichiarazione d’amore più famosa: “I love WikiLeaks”. Dopotutto, in piena campagna elettorale per le elezioni americane del 2016, che vedevano Hillary Clinton correre per i democratici e Donald Trump per i repubblicani, Assange e la sua organizzazione avevano reso pubbliche le email interne del Democratic National Committee (Dnc), l’organo di governo del partito democratico degli Stati Uniti, e quelle di John Podesta, il capo della campagna elettorale della Clinton. Questa mossa danneggiò oggettivamente la corsa alla Casa Bianca della candidata democratica, favorendo quella del repubblicano. Immediatamente WikiLeaks fu accusata di aver pubblicato quelle rivelazioni in combutta con il governo russo, e Assange fu definito l’utile idiota del Cremlino. Ma in ogni caso, che le email dei democratici fossero state veramente hackerate dai russi o no, un’organizzazione giornalistica ha il dovere di pubblicare tutto quello che è vero e nel pubblico interesse, da dovunque venga l’informazione. È quello che fece WikiLeaks.

I messaggi rivelavano come l’aspirante alla presidenza degli States avesse importanti relazioni con Wall Street, con la Silicon Valley e con il complesso militare e d’intelligence, e al contrario era ben lontana da quella classe media americana messa in ginocchio dalla crisi.1 Non era un diritto dell’opinione pubblica conoscere i veri obiettivi di Hillary Clinton, esattamente come conosceva le dichiarazioni del reddito di Trump?

Alle elezioni di novembre del 2016 Hillary Clinton fu sconfitta. Da quel momento in poi Julian Assange e la sua organizzazione furono marchiati a fuoco. Furono sommersi da una massacrante campagna mediatica alimentata da interviste distorte e fake news che riuscirono a rivolgergli contro l’opinione pubblica. Il potere americano non si trattenne a colpire. Mentre un paese come la Russia non esita ad assassinare oppositori politici e individui scomodi alla luce del sole, gli Stati Uniti devono utilizzare una prassi più sottile, lenta ma sicuramente non indolore, potendo contare sulla loro potenza, tale da imbastire guerre e influenzare elezioni e governi in lungo e in largo per il mondo. Nell’agosto 2020 fioccò la prima indagine pubblica, e questa volta in Svezia.

Assange, che era stato nel paese scandinavo in precedenza, fu accusato di molestie sessuali ai danni di due donne. La Svezia emise un mandato di cattura internazionale e, nel momento in cui Assange si ritrovò il suo mondo contro, un Paese che si stava rialzando e aveva deciso che non sarebbe più stato il giardino di casa di nessuno, decise di mettersi in gioco per la libertà del giornalista e della sua. Se non fosse intervenuto l’Ecuador di Rafael Correa a concedergli asilo diplomatico all’ambasciata di Londra, Julian Assange avrebbe avuto il destino segnato. Le sue preoccupazioni erano più che fondate, viste le collaborazioni del governo svedese agli Extraordinary Renditions degli americani, cioè alla consegna illegale di richiedenti asilo alla Cia, poi inviati in Egitto e infine brutalmente torturati, come nel noto caso di Abu Omar.

Per inquadrare il comportamento del governo svedese basterebbe questa affermazione lapidaria del giornalista statunitense Raffi Khatchadourian: “La Svezia è una satrapia degli Stati Uniti”.

 

1 Le email del Dnc sono accessibili sul sito di WikiLeaks al link: