La realtà è vorticosa e travolge conoscenze e saperi consolidati. Da un giorno all’altro rischiamo di fare nostra la presunta nazionalità spagnola di Cristoforo Colombo o l’insipienza dell’ONU. La constatazione è quanto mai consustanziale al mood televisivo, basato sugli indici di ascolto, che ci restituisce l’immagine peregrina di un’Italia che premia Temptation Island. In questi casi, giudizi di valore e merito estetico vanno abrogati. Parafrasando l’indimenticabile Prima Pagina di Billy Wilder, si potrebbe scrivere: “È l’indice d’ascolto, bellezza!”. Entrando in questo ordine di idee, bisogna prendere atto dell’irreversibile obsolescenza dei talk show, immediato frutto della perdita di centralità della politica. Facciamo un esempio concreto: come costruire un talk su un tema tanto scivoloso come lo ius culturae o gli extra-profitti delle banche, dove Forza Italia esterna una posizione al mattino che tradisce la sera? Come si può alimentare un dibattito sulle guerre (a scelta, la russo-ucraina o il conflitto insediato a Gaza) quando l’Italia sub-atlantica è spettatore non partecipante del grande dibattito internazionale?
Ecco perché Chi l’ha visto? o Quarto Grado, che alimentano la torbidità vischiosa della cronaca nera, parlano più e meglio alla pancia dell’utente, non più elettore. Eppure tutte le emittenti generaliste continuano a insediare in prima serata talk insopportabili nella loro ripetitività, anche per la durata. Come si può immaginare che un italiano medio sia davanti al video dalle 21:30 (orario effettivo) fino a ben oltre mezzanotte? Per non parlare di Porta a Porta, l’appuntamento soporifero e governativo (qualunque governo degli ultimi trent’anni) con capolinea alle ore piccole. Chi investe su questi programmi continua a immaginare un’Italia televisiva che non c’è più. Non è certamente quella di Carosello o Non è mai troppo tardi, ma non è neanche quella dell’estenuante dibattito politico. In effetti, il calo delle presenze ai seggi è omologo e coerente con la fuga dal piccolo schermo sul versante dei talk show.
Gli influencer dovrebbero riorientare la programmazione televisiva sul versante della realtà e di quello che veramente interessa agli italiani, anche se di taglio minimale, non universale e di corto respiro. Evitando l’esempio dell’imitazione di Mediaset, dove abbondano blande adozioni di format internazionali. La televisione dovrebbe essere intrattenimento intelligente, perché ormai l’approfondimento si basa su altre fonti. L’esempio illuminante e preclaro, quanto dimenticato, è quello di Renzo Arbore e dei suoi indimenticabili programmi del secolo scorso. Oggi le sue repliche sono confinate in ultima serata, quando meriterebbero, ad abundantiam, la prima. E come dimenticare gli anni ruggenti di Roberto Benigni, pieni, se si vuole, di oscenità e turpiloqui, ma testimoni involontari di un mondo televisivo estremamente libero.
Tra l’altro, gli ospiti abituali dei talk show obbediscono alla logica binaria e prevedibile di governo e opposizione: un ospite di destra e un contrappeso di sinistra. Così, stucchevolmente, l’invitato speciale sovraesposto è Italo Bocchino, considerato (ed è tutto dire) il più presentabile tra gli esponenti governativi. Per non parlare di Magliaro, fervente fascista, evidentemente un’occasione (ridicola) per riesumare Mussolini e fare audience.